sabato 11 ottobre 2025

Jean Cocteau o l’arte di orinare sotto le stelle

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1. La sfinge con la matita: quando Parigi partorì un incubo profumato

Jean Cocteau non nacque: venne emesso come un sospiro di profumo da un flacone Art Nouveau. Il 5 luglio 1889, mentre la Tour Eiffel ancora scintillava come una sciabola nuova sulla pelle della capitale, Jean veniva alla luce a Maisons-Laffitte, località mondana per chi ha già il cognome inciso sui bicchieri da cocktail. Il padre, Georges, pittore e avvocato, si suicidò quando Jean aveva nove anni. Da quel momento, il piccolo Cocteau iniziò a conversare con fantasmi, ad appuntarsi sul cuore i bigliettini lasciati dagli spiriti, e a scrivere come se ogni parola potesse richiamare indietro un dio offeso.

A dodici anni era già leggenda nei salotti della madre, la signora Eugénie, detta “Madame la Régente”, una donna capace di costruire attorno al figlio un’aura di infantile divinità. Educato presso il Lycée Condorcet, il giovane Jean non brillò accademicamente, ma brillò comunque. Come un diamante fuori posto, come un lampadario in un pollaio. Era un principe dell’inutilità, ma sapeva incantare. Ogni sua posa sembrava una citazione, ogni suo silenzio un’apertura scenica. Da lì a poco, sarebbe diventato il più spietato dei narcisi: non perché si specchiasse, ma perché costringeva gli altri a farlo attraverso lui.


2. L’invenzione di sé: parliamone in versi, urliamone in teatro, dipingiamolo sulla pelle

L’identità di Cocteau fu la sua più grande creazione artistica. Si costruì come si costruisce un’opera barocca: con troppa grazia, con troppa intenzione, con troppi specchi. Poetò come si respira, ovvero tossendo, ansimando, tremando. I suoi versi non sono mai lineari: sono arabeschi al neon scritti su vetri appannati. I suoi drammi – da La Voix Humaine a Les Chevaliers de la Table Ronde – non si accontentano del palcoscenico: lo invadono, lo rompono, lo masticano. Quando scrive Les Enfants Terribles, ha già capito tutto sull’adolescenza: che è una guerra dichiarata alla realtà, un labirinto senza centro, una malattia senza sintomi.

Ma è nel cinema che l’allucinazione prende corpo. Le Sang d’un Poète (1930), opera muta e visivamente spietata, è un incubo lirico che spiazza anche i surrealisti, che pure credevano di essere avanguardisti. Cocteau li guarda, li sorpassa, e li lascia a chiedersi cosa sia appena passato. In Orphée (1950), la poesia diventa motore, la morte diventa amante, la specchiera diventa soglia. Cocteau non narra: ritualizza. E in questo rituale estetico la figura di Orfeo – poeta, seduttore, visionario – è ovviamente il suo doppio.


3. Jean e Jean: ossia l’idillio greco rifatto a Parigi

Jean Marais irrompe nella vita di Cocteau come una tempesta con i riccioli d’oro. È giovane, atletico, ingenuo quanto basta per credere ancora nei sentimenti e abbastanza intelligente per recitarli alla perfezione. I due si incontrano nel 1937, durante un’audizione teatrale. Da allora, Marais diventa il perno della produzione cocteauliana: corpo da paladino medievale, volto da angelo offeso, e una disponibilità infinita a farsi mitologizzare. Insieme girano film, mettono in scena tragedie, frequentano salotti e opium dens, dividono letti e stanze d’albergo, litigano, si lasciano, si ritrovano, e soprattutto si adorano. Non come si amano due amanti, ma come si contemplano due divinità che si riconoscono nell’altare dell’altro.

Il legame tra Cocteau e Marais è qualcosa che sfugge alla psicologia moderna. Non è solo eros, non è solo stima. È un sistema solare artistico. Marais è il corpo che Cocteau non ha mai avuto, la presenza scenica che compensa la sua nevrosi, il medium perfetto per trasformare ogni allucinazione in carne. E Cocteau è per Marais ciò che Pygmalion fu per Galatea: lo scultore incantato dalla propria opera.


4. La camera da letto dell’Académie: dove le perle incontrano i pidocchi

Nel 1955, Cocteau riceve l’invito ufficiale a entrare tra gli Immortali. Per uno che ha costruito la propria carriera su scandali, allusioni omoerotiche e droghe poetiche, il fatto ha dell’incredibile. Eppure è naturale: l’Académie Française, stanca di mummificarsi, ha bisogno di qualcuno che sappia profumare la decomposizione. Cocteau accetta. Ma non si piega: trasforma l’evento in una delle sue più riuscite performance.

Indossa la spada con un guizzo da Moschettiere del Désir, e pronuncia un discorso che è un florilegio di aforismi, visioni, provocazioni. Parla della lingua come si parlerebbe di un amante difficile, e dell’arte come si racconterebbe una confessione oscena. Gli accademici applaudono come si applaude un’eclissi: senza capire, ma con reverenza. E Jean sorride, con quel sorriso da sfinge infastidita che lo accompagna sempre.


5. Tra pissoir e pellicole: le piccole gioie di un grande pervertito

Il “privilège du cape” resta uno degli aneddoti più gustosi della mitologia cocteauliana. Ma non è l’unico. Cocteau amava frequentare i bordelli, ma solo quelli più eleganti. Amava gli urinali pubblici, ma solo quando si trasformavano in teatri d’improvvisazione omoerotica. La sua vita sessuale è un collage: desideri sfacciati, scene da boudoir, esperimenti, silenzi, poesie lasciate su cuscini altrui. E naturalmente, il piacere assoluto di fare tutto ciò con stile.

Un giorno, raccontano, Cocteau fu sorpreso a disegnare un autoritratto su uno specchio di un bagno. Con il rossetto. E a chi lo rimproverò, rispose: “Non disegno me stesso. Sto liberando un demone dalla superficie.” Come dargli torto?


6. L’oppio, la grazia e la sindrome da statua

L’oppio fu per Cocteau ciò che l’armatura è per il cavaliere medievale: una difesa scintillante contro il mondo. I suoi diari d’oppio sono confessioni senza pentimento. In quelle pagine, Cocteau parla del dolore con una voce che non si lamenta mai, ma danza. La tossicodipendenza è elevata a forma di filosofia estetica. Il male non è da evitare, ma da decorare. Il tormento va intarsiato, come una bara regale.

Il corpo di Cocteau, sempre troppo fragile, troppo nervoso, sembrava una scultura barocca che temeva le correnti d’aria. Eppure resiste. Lavora, scrive, disegna, recita. I suoi autoritratti sono sempre figure in bilico tra il martirio e la vanità. Il dolore non è mai autentico, ma sempre profondamente vero.


7. Morire per Piaf, morire per la scena

Morì il 11 ottobre 1963, nella sua casa di Milly-la-Forêt. Qualcuno dice che fu per Edith Piaf. Qualcuno dice che fu solo per Cocteau. In fondo, che differenza fa? Anche la morte, per lui, era un’occasione scenica. Non si spense: uscì di scena. Con discrezione, ma non senza pathos. Si accasciò, pare, poco dopo aver appreso della morte di Piaf, con un sussurro sulle labbra: “Je m’éclipse.”

La sua tomba, semplice e bianca, reca incisa una frase disarmante: Je reste avec vous. Un gioco crudele, perché lui è sempre stato altrove. Ma quel “resto con voi” è anche l’ultima illusione: quella di un uomo che, evaporando, ha impregnato l’aria.


8. Cocteau per sempre: ovvero quando il kitsch diventa Vangelo

Resta ovunque: nei fotogrammi, nei versi, nei disegni, nei graffiti, nei sogni. Ma soprattutto resta nello stile. In quell’idea per cui l’arte non deve spiegare il mondo, ma trasformarlo in un rituale estetico. Cocteau è il santo patrono di chi vive con troppo desiderio e troppo poco tempo. È il protettore degli amanti sfortunati e dei poeti narcisisti. È il dio minore dei teatranti senza teatro.

E allora sì, guardiamo ancora quella foto scattata da Cecil Beaton, dove Jean e Jean si tengono vicini, come due statue che hanno appena smesso di baciarsi. Non c’è bisogno di didascalia. Il resto è silenzio. O meglio: il resto è poesia.