venerdì 10 ottobre 2025

Vincenzo Galdi: Il corpo fotografato, tra scandalo e modernità




Per lungo tempo, la figura di Vincenzo Galdi è rimasta ai margini della storia della fotografia italiana. Eppure, dietro il suo oblio si cela un personaggio emblematico, sospeso tra arte e trasgressione, tecnica e scandalo, che visse pienamente le contraddizioni di una modernità ancora acerba. Nato a Napoli 11 ottobre 1871 e morto a Roma 23 dicembre 1961, Galdi attraversò quasi un secolo, incarnando un doppio movimento: da un lato, fu interprete di un’estetica classica che amava ispirarsi al mito e alla scultura antica; dall’altro, fu anche artefice di un’oscura libertà, quella dell’erotismo fotografico non più velato.

La Napoli in cui nasce Galdi è ancora intrisa di un’atmosfera post-borbonica, popolare e aristocratica insieme, intellettuale ma ancorata a un classicismo languido. Il giovane Vincenzo riceve una formazione artistica all’Accademia di Belle Arti, dove manifesta interesse per la pittura e l’ottica. In quegli anni, la fotografia è ancora considerata un’arte ausiliaria: Galdi, come altri giovani talenti, la studia e la pratica da autodidatta, costruendosi una camera oscura artigianale con una lente telescopica, e mostrando presto una vocazione per il corpo come soggetto.

Decisivo fu l’incontro con Wilhelm von Plüschow, fotografo tedesco già celebre per i suoi nudi maschili ambientati tra le rovine campane. Galdi iniziò come suo modello, poi divenne assistente, amante, apprendista e infine rivale. Seguì Plüschow a Roma, dove apprese le tecniche di posa, stampa e commercio fotografico. L’eredità del maestro è evidente nei primi lavori, ma Galdi si distaccò presto dal suo stile: se Plüschow era ancora legato a un erotismo ellenizzante e sospeso, Galdi puntava già a una rappresentazione più concreta, sensuale e spregiudicata.

Intorno al 1900, Galdi aprì il suo studio in Via Sardegna 55, a pochi metri da quello di Plüschow. Era il segno di una frattura: da assistente, Galdi si stava trasformando in concorrente. Cominciò a lavorare con modelle e modelli locali, giovani spesso provenienti dai ceti popolari, che posavano in cambio di piccole somme o di protezione. La fotografia di Galdi si fece subito riconoscibile per l’intensità dei corpi, la scelta di pose più naturali e provocanti, e per la frequente presenza del nudo femminile, quasi assente negli atelier dei suoi predecessori.

Galdi fu uno dei primi fotografi italiani a rappresentare l’erezione maschile. In un contesto storico in cui la sessualità era rigidamente repressa e l’omosessualità criminalizzata, le sue immagini avevano la forza di un atto politico. Senza mai scadere nel volgare, Galdi portava davanti all’obiettivo corpi che erano vivi, giovani, veri. Le sue fotografie di nudo femminile, spesso censurate, restituivano una sensualità densa, carnale, niente affatto eterea. Al posto dell’ideale, l’individuo. Al posto del canone, la materia. In questo, fu un moderno.

Nel 1907, Galdi venne coinvolto nello scandalo giudiziario che travolse Plüschow. Le autorità italiane lo accusarono di diffusione di materiale osceno e di corruzione di minorenni. Il processo, ampiamente seguito dai giornali, portò a una condanna per oltraggio alla morale pubblica. Fu un momento di cesura: Galdi chiuse lo studio e si ritirò dalla scena fotografica. Ma non sparì. Si reinventò. Aprì una galleria d’arte in Via del Babuino, nel cuore di Roma, dove cominciò una seconda vita, più discreta ma altrettanto influente.

Come gallerista, Galdi seppe riconoscere i talenti del suo tempo: Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Onorato Carlandi. Frequentava Bernard Berenson, al quale insegnò tecniche di ripresa macrofotografica per i suoi studi sull’arte rinascimentale. La sua galleria divenne uno spazio di incontro tra arte classica e avanguardie. Anche se non tornò mai più alla fotografia, continuò a essere animato dallo stesso sguardo, dallo stesso desiderio: quello di intercettare nel corpo e nell’immagine qualcosa di irriducibilmente umano, scandaloso e sacro.

Galdi morì nel dicembre 1961, sepolto al cimitero del Verano accanto alla moglie Virginia. Per decenni il suo nome rimase pressoché dimenticato. Le sue fotografie, spesso anonime o attribuite ad altri, circolavano tra collezionisti, archivisti e galleristi parigini o tedeschi. Solo alla fine degli anni Duemila iniziò una riscoperta critica: prima timida, poi via via più consapevole. La mostra "Galdi secret", curata da Nicole Canet nel 2011, rappresentò un punto di svolta: per la prima volta, Galdi veniva riconosciuto come autore autonomo, con uno stile proprio, con un progetto visivo coerente.

Nell’arte del nudo, Galdi è figura di rottura. Non solo perché infrange la censura, ma perché abbandona l’astrazione idealizzante per immergersi nella fisicità. La pelle, i peli, le imperfezioni, i dettagli anatomici sono parte integrante dell’immagine. I suoi soggetti non sono statue, ma persone. Non sono dèi, ma ragazzi e ragazze che sorridono, che guardano l’obiettivo, che a volte sembrano persino sfidarlo. Galdi rompe con l’estetica ottocentesca del nudo come allegoria per restituire il corpo alla sua umanità, e quindi alla sua irriducibile ambiguità.

È pornografia quella di Galdi? È arte? È un’altra cosa? Queste domande attraversano ogni sua immagine. Se pornografia è lo sguardo che riduce, che consuma, che oggettivizza, allora Galdi ne è lontano. I suoi modelli, pur spogliati, restano individui, conservano una presenza, una soggettività. Lo sguardo di Galdi non è mai predatorio. È semmai contemplativo, partecipe, consenziente. Ecco perché la sua fotografia, pur carica di desiderio, non si riduce mai al desiderio: lo oltrepassa. Cerca nel corpo la forma di una verità, anche se scandalosa.

Nel suo insistere sulla bellezza maschile, nel suo farsi testimone di una sensibilità omoerotica in anni di persecuzione, Galdi anticipa istanze che saranno proprie della cultura queer novecentesca. Senza mai dichiararsi, senza proclami, la sua opera è già una forma di resistenza, una modalità di sopravvivenza estetica. Si può dire che Galdi, con von Gloeden e Plüschow, costituisca una triade anomala nella storia dell’arte: una scuola non riconosciuta, ma potentemente influente. Che il suo contributo sia stato a lungo cancellato, non fa che confermarne la portata rivoluzionaria.

Riscoprire Vincenzo Galdi significa rileggere una parte dimenticata della nostra storia visiva. Significa anche rimettere al centro il corpo come campo di battaglia, come luogo del desiderio e della disobbedienza. La sua vita, tra la Napoli borbonica e la Roma modernista, attraversa un secolo in cui tutto cambia: la tecnica, la morale, l’arte. Ma in ogni immagine che ci ha lasciato, resta una traccia del suo sguardo: diretto, intimo, spudorato e delicato. Uno sguardo che, ancora oggi, ci guarda indietro.