Io ho un blog da anni, e ogni volta che vi entro, lo sento respirare. Non è solo una pagina web, non è solo una somma di testi e immagini: è un corpo, un piccolo organismo che cresce con ogni parola, che vive nei silenzi tra un post e l’altro, che ascolta e riflette. Eppure, fuori, il mondo lo percepisce come il “caro diario”. Sì, proprio così: un luogo dove si riversano pensieri, emozioni, frammenti di vita privata, senza peso, senza responsabilità, senza il rigore del mestiere.
Eppure il blog è più di questo. È un teatro di memoria e di pensiero. Una volta, vent’anni fa, aprire un blog era un gesto di rivoluzione silenziosa: uscire dalle redazioni, dai corridoi stretti e rumorosi dei giornali, dai riflessi di un mondo che decideva chi poteva parlare e chi no. Io stesso aprii il mio blog come reazione, come necessità di mettere voce a ciò che mi era stato negato, ciò che non trovava spazio nelle stanze chiuse dell’informazione ufficiale. Era libertà allo stato puro: scrivere senza filtri, senza approvazione, senza gerarchie.
Oggi, invece, il termine “blog” ha perso quella forza quasi politica. È diventato parola fragile, che richiama spazi intimi, confessionali, personali. Come se il mondo non riuscisse più a vedere al di là di sé stesso: legge il blog come diario, non come laboratorio di pensiero. I social hanno rubato al blog il ruolo di voce del singolo, trasformando la scrittura in consumo rapido, visibilità, approvazione, like. Eppure, paradossalmente, questa sua marginalità lo rende prezioso.
Chi mantiene un blog oggi lo fa per ragioni profonde. Non per apparire, non per inseguire consenso, ma perché ha bisogno di un filo che lo leghi a sé stesso, alla scrittura, a quei pochi lettori che lo scelgono, che entrano volontariamente in questo spazio e si fermano, leggono, riflettono. Il blog diventa allora atto di resistenza, un gesto lento in un mondo che corre, un diario pubblico con la cura e la dignità di un laboratorio letterario. Ogni parola è scelta, ogni silenzio pesa, ogni post ha il suo respiro.
E c’è un punto, inevitabile, in cui spiegare diventa inutile. Perché certe persone non vogliono capire, vogliono solo classificare, etichettare, ribadire una gerarchia invisibile ma implacabile. A loro, il silenzio è più eloquente di mille spiegazioni. Chi scrive davvero, chi entra in questo dialogo con se stesso e con il blog, non deve giustificare né il ritmo né la forma. Il blog esiste, resiste, parla già da sé.
Tentare di spiegare a chi lo liquida come “caro diario” sarebbe come cercare di spiegare il vento a chi misura tutto con righello e metro. Si può solo sorridere, continuare a scrivere, continuare a lasciare che il blog respiri, che cresca, che accolga parole e memorie. È già più vivo di quanto possano immaginare, più resistente di quanto il mondo crede, più libero di quanto qualsiasi social possa permettere.
Il blog è intimità pubblica: chi entra lo percepisce, chi non lo percepisce semplicemente non è il suo lettore. Ed è giusto così. Perché il blog non è fatto per piacere a tutti, ma per ospitare chi vuole ascoltare, per creare un piccolo spazio di libertà, dove la parola non è compressa dall’urgenza, dalla pressione del like, dall’ansia dell’algoritmo.
E così, oggi, anche se “blog” suona démodé, la sua libertà lo rende ancora irresistibile. Non risponde a nessun imperativo esterno, non si piega alla logica dell’apparire, non corre dietro a nessuno. Respira, cammina, osserva. È piccolo, fragile, eppure più vivo di mille piattaforme rumorose. Ed è questo, in fondo, che lo rende un luogo prezioso: un rifugio di pensiero, un taccuino del mondo, un compagno silenzioso che continua a respirare, insieme a chi scrive.