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“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini.”
— Guy Debord
I. La soglia infranta
C’è una soglia invisibile che l’umanità ha superato senza accorgersene: il passaggio da una comunicazione fondata sull’incontro a una fondata sulla visibilità. Se un tempo parlare significava esporsi all’altro, oggi parlare — o meglio: postare — significa esporsi agli altri, ma senza mai lasciarsi davvero toccare. Non si dialoga: si emette. Si afferma. Si recita. Si dichiara la propria esistenza a una platea indefinita, nella speranza che uno sguardo digitale (un cuore, un like, una fiamma) restituisca per un attimo la sensazione di essere vivi.
La comunicazione digitale, lungi dall’essere uno strumento neutro, ha modificato profondamente la struttura del desiderio e dell’identità. In essa non si cerca più una risposta, ma una conferma. Non un senso, ma una validazione. Ed è proprio da questa smania di conferma — spasmodica, continua, ansiosa — che nasce una nuova forma di oscenità: quella dell’esposizione permanente del sé.
II. L’oscenità del sé
Nel teatro della comunicazione digitale, il sé non è più un centro profondo da cui far scaturire parole cariche di vissuto. È diventato una superficie, un oggetto estetico da curare, promuovere, rilanciare. Il narcisismo non è più una patologia isolata, ma un clima generale. Eppure non si tratta di un narcisismo trionfante, greco, apollineo — si tratta di un narcisismo ferito, costretto a performare di continuo per non essere dimenticato.
In questo contesto, il linguaggio perde la sua funzione originaria: non crea legami, non genera realtà condivisa, non costruisce ponti. Si fa cifra, didascalia, gesto automatico. “Ti penso” diventa un’emoji. “Ti amo” una storia Instagram. “Sto male” una foto calibrata, desaturata, pubblicata con un hashtag ad effetto. La parola — un tempo radice della civiltà — si è fatta funzione accessoria dell’immagine, e l’immagine è diventata messaggera del vuoto.
III. La vergogna rovesciata
La comunicazione digitale ha anche capovolto il senso della vergogna. Un tempo era vergognoso mostrarsi troppo. Oggi è quasi colpevole non mostrarsi affatto. Il pudore, lo spazio della riflessione silenziosa, l’intimità — sono diventati sospetti. Chi tace ha qualcosa da nascondere. Chi non si mostra è “assente”, “socialmente morto”.
Eppure, dietro l’ostentazione, si cela una fame antica: il desiderio di essere guardati non per ciò che si appare, ma per ciò che si è. È una fame d’amore che ha perso le parole e le ha sostituite con un riflesso algoritmico. Da qui, la vergogna più profonda: quella di non essere all’altezza della propria immagine digitale. Il selfie diventa un confronto costante tra l’essere e l’apparire, e lo scarto tra i due genera un senso di inadeguatezza cronica, mascherata da iperattività social.
IV. Sproporzione e polarizzazione
Ma forse la ferita più grave della comunicazione digitale non sta solo nell’eccesso di sé. Sta nella sproporzione che essa introduce in ogni interazione. L’anonimato e la rapidità delle piattaforme consentono risposte brutali, giudizi istantanei, indignazioni coreografiche. L’altro non è più un volto da comprendere, ma un ostacolo da demolire.
Si risponde non più per chiarire, ma per affermare. Non per condividere, ma per vincere. La comunicazione si fa competizione, e la polarizzazione diventa inevitabile: o sei con me, o contro di me. Ogni opinione diventa una bandiera. Ogni sfumatura un tradimento. Ogni errore, un’onta indelebile.
La sproporzione emotiva è la nuova regola: si insulta per un disaccordo, si cancella un’amicizia per un tweet, si grida allo scandalo per un dettaglio insignificante. Si reagisce come se tutto fosse personale, definitivo, epocale — quando invece nulla è davvero sentito, nulla è duraturo, nulla è reale.
V. Verso un silenzio fertile?
Eppure, in questa giungla linguistica, esistono ancora zone di resistenza. Persone che scelgono il silenzio, la lentezza, l’assenza dai circuiti della visibilità. Persone che rifiutano la logica dell’autopromozione e tentano, contro ogni logica di sistema, di preservare la parola come luogo di verità.
Forse la vera rivoluzione oggi non è parlare, ma tacere. Non esprimersi, ma sentire. Non pubblicare, ma ascoltare. Forse la vera comunicazione è quella che non cerca risposta, ma comprensione. Quella che non ha bisogno di essere vista, perché si fonda su un’intimità che nessun algoritmo può mappare.
VI. Simulacri e pornografia del senso (Baudrillard)
Jean Baudrillard ci aveva avvertiti: la realtà ha smesso di esistere come categoria stabile, soppiantata dal regno dei simulacri. Nell’universo digitale, ogni segno non rinvia più a un referente, ma solo ad altri segni. Il post non esprime più un pensiero, ma cita altri post. L’immagine non rappresenta un volto, ma un’idea di visibilità. La parola non apre più al dialogo, ma a una coreografia di consensi.
Baudrillard parlava di pornografia del reale, intesa non come eccesso sessuale, ma come eccesso di trasparenza. In questo mondo dove tutto deve essere visibile, nulla può più accadere nell’ombra fertile del non detto. E così il linguaggio si fa bulimico: deve mostrare tutto, dichiarare tutto, spiegare tutto — e nel farlo, distrugge il mistero stesso del senso. È qui che la comunicazione digitale diventa oscena: non perché scandalosa, ma perché priva di scena. Il palco è scomparso, e con esso il tempo della preparazione, del pudore, della soglia. Ci si getta direttamente nell’esposizione, in una vetrina infinita dove il soggetto è al tempo stesso attore, regista, spettatore e merce.
VII. Lo spettacolo e la morte del reale (Debord)
Guy Debord, nel suo La società dello spettacolo, individuava nel dominio delle immagini la trasformazione della vita in rappresentazione continua. Il reale vissuto viene espropriato, sostituito da un flusso di immagini che non mostrano più il mondo, ma lo occultano.
La comunicazione digitale realizza pienamente questo spettacolo: ogni evento, emozione, esperienza viene filtrato, tagliato, editato per diventare contenuto. Ma ciò che è “contenuto” ha già perduto la propria intensità reale. Una dichiarazione d’amore, un lutto, una nascita, una crisi: tutto viene trasmutato in materiale da condividere. La vita non è più vissuta: è raccontata mentre si vive, ed è vissuta per essere raccontata.
Debord ci ricorda che “più lo spettatore contempla, meno vive”. La contemplazione digitale non è più meditativa, ma distratta, iperattiva e frammentata. È un’attenzione che salta, scivola, consuma — e nel farlo, si dissolve. La soggettività si frantuma nel montaggio compulsivo del feed, e il soggetto stesso diventa solo un profilo, un’interfaccia, una funzione dell’algoritmo.
VIII. L’Altro non esiste (Lacan)
Per Jacques Lacan, il linguaggio non è semplicemente uno strumento: è la condizione strutturale dell’inconscio. “L’inconscio è strutturato come un linguaggio” — e in quanto tale, l’accesso al desiderio passa sempre attraverso la parola. Ma cosa accade quando la parola viene svuotata, automatizzata, serializzata?
La comunicazione digitale crea un cortocircuito: moltiplica il segno, ma separa il soggetto dal desiderio. Parliamo, ma non sappiamo più da dove parliamo. L’interlocutore è assente, sostituito da un pubblico amorfo, e l’Altro — cioè il luogo simbolico in cui il soggetto trova la legge e il riconoscimento — viene meno. Restano solo risposte immediate, pollici alzati, algoritmi che confermano o ignorano. Non c’è spazio per la mancanza, e quindi non c’è più desiderio.
Il soggetto digitale non desidera: reagisce. Non cerca l’Altro: cerca conferme. E questo lo rende fondamentalmente solo, anche nel cuore della connessione. Il narcisismo che ne deriva non è la celebrazione di sé, ma la prigione dell’Io non mediato dal desiderio dell’Altro. È un ritorno claustrofobico all’immagine speculare, che però non restituisce più un’identità, ma una proliferazione vuota.
IX. La stanchezza dell’essere (Byung-Chul Han)
Nel pensiero di Byung-Chul Han, la società contemporanea è dominata da un eccesso di positività: tutto dev’essere mostrato, condiviso, capitalizzato. Non c’è più opposizione, solo performance. Il soggetto si trasforma in un progetto, continuamente da aggiornare, da migliorare, da esporre.
Questa positività conduce a una forma nuova di violenza: la violenza della trasparenza obbligata, dell’autosfruttamento, della stanchezza cronica. Han parla di “società della prestazione”, in cui ognuno è imprenditore di sé stesso, e il fallimento è interiorizzato come colpa personale. Ma questa colpa si camuffa da comunicazione: io scrivo, io posto, io dico — quindi esisto.
La comunicazione digitale, in questo senso, è il prolungamento del neoliberismo nel linguaggio. Ogni parola diventa investimento, ogni silenzio una perdita. Il corpo stesso si fa contenuto: mostrato, modificato, venduto. In tale contesto, la parola non ha più potere critico: non mette in crisi, non disvela. Diventa una funzione di superficie, un gesto consumabile.
X. Riappropriarsi del silenzio, restituire il linguaggio
Se, come abbiamo visto, la comunicazione digitale ha trasformato la parola in un esercizio performativo, in una sequenza di segni ipervisibili, tautologici, narcistici, allora forse il gesto più radicale, oggi, non è parlare — ma tacere. Il silenzio, nella sua nudità, rappresenta ciò che sfugge alla cattura del sistema simbolico digitale: non può essere monetizzato, né diffuso, né messo in evidenza. È il fuori-scena per eccellenza. In esso non c’è prestazione, né audience. Solo presenza.
Baudrillard ci insegnava che ogni sistema di segni si esaurisce nella sua autoreferenzialità: più si parla, meno si dice. E dunque il silenzio può divenire un contro-discorso. Un gesto di resistenza poetica. Un atto estetico. Non come vuoto, ma come grembo: uno spazio che attende, che accoglie, che differisce.
Allo stesso modo, Debord ci invitava a rompere lo spettacolo non con un altro spettacolo, ma con un detournement: un sabotaggio del visibile, un’interruzione del flusso. E cosa può sabotare meglio del linguaggio quella comunicazione che è già tutta superficie? La parola sussurrata, scritta a mano, detta nel buio di una stanza o in una lettera che non cerca risposta. È lì che si spezza l’equivalenza tra comunicare e capitalizzare. È lì che la parola torna a essere dono, non transazione.
Lacan direbbe che in quel silenzio, in quel non detto, si riapre il desiderio: non per l’approvazione, ma per l’Altro. Per l’incontro che non si può prevedere, per lo scarto che ci costituisce. Solo nel ritardo, nel balbettio, nell’equivoco — la parola ritrova la sua funzione originaria: quella di mancare qualcosa, e proprio per questo evocarla.
Han, infine, ci ricorda che ciò che ci uccide non è l’oppressione, ma il logoramento dell’autosfruttamento, della trasparenza coatta, della comunicazione come prestazione continua. E allora il silenzio diventa una forma di ecologia interiore. Una cura della parola. Un dire solo ciò che vale la pena di dire. Un tornare all’intimità come luogo della verità: non la verità dei dati, ma quella dell’essere.
Perché forse il linguaggio non nasce per informare, ma per creare legami. Non per descrivere il mondo, ma per abitarlo insieme. Ogni parola detta con cura, ogni ascolto che accetta la pausa, ogni frase che non cerca consenso ma condivisione — è un gesto politico, etico, amoroso.
E allora il compito non è parlare di meno, ma parlare diversamente. Come chi sa che ogni parola è fragile, e proprio per questo sacra. Come chi sa che il silenzio non è assenza, ma promessa. Come chi sa che l’unico linguaggio che ci salva è quello che ci riconsegna all’altro — e mai a noi stessi.
XI. Estetica e teologia del linguaggio: verso un’alleanza del fragile
Perché la parola torni a essere un dono e non una performance, è necessario un cambio di paradigma. Qui estetica e teologia — apparentemente lontane — possono offrire coordinate inaspettate.
L’estetica, quando non è ridotta a discorso sull’apparenza, ma torna a essere aisthesis, percezione sensibile del mondo, ci insegna che ogni linguaggio è incarnato. La parola nasce dalla voce, dal respiro, dalla carne che trema. È gesto, ritmo, pause, modulazioni: ha un corpo. Ma il digitale la ha smaterializzata. Ha reso la parola segno senza peso, astrazione immediata. L’estetica ci invita invece a tornare al suo timbro, alla sua fragilità sonora. A trattarla come un’opera d’arte — non da consumare, ma da abitare.
Come insegna Georges Didi-Huberman, ogni immagine che resiste è un’interruzione nel visibile, un varco. Così ogni parola che non si chiude nel commento, che non pretende di spiegare tutto, ma che si espone alla ferita del dire, è un’immagine del possibile. Una parola bella, allora, è una parola sporca, incompiuta, dolente. Una parola che non cancella il silenzio, ma lo onora. E in questo gesto, l’estetica sfiora il sacro.
Qui la teologia può offrire il suo contributo più audace: perché nel principio, dice Giovanni, era il Logos. Ma non il logo pubblicitario, né il logaritmo — bensì il Verbo incarnato. La parola come presenza. La parola che non è mai pura, ma che si fa carne, che si sporca di tempo, di storia, di relazioni. Ogni volta che parliamo per amare — e non per convincere — partecipiamo di quel mistero.
Teologi come Abraham Heschel o Romano Guardini ci ricordano che il linguaggio umano, quando è orientato all’ascolto, diventa preghiera. Non necessariamente nel senso confessionale, ma come tensione, come invocazione, come riconoscimento di una mancanza che non può essere riempita da nessuna emoji. Ecco, allora, che il silenzio torna ad avere statuto sacrale: non perché assenza, ma perché spazio del possibile, grembo del dire.
Se la parola si fa dono, è perché cede qualcosa di sé. È perché non trattiene, non calcola, non ottimizza. È perché rinuncia a essere piena. La parola che ama è parola che perde — tempo, controllo, efficacia. E proprio per questo è fertile.
L’alleanza fra estetica e teologia ci mostra dunque una via: parlare non per dominare, ma per lasciare che qualcosa accada. Lasciare che l’altro emerga. Lasciare che la realtà non sia ridotta a notifica. Una parola che fiorisce dal silenzio, che accetta la sua opacità, che risuona nel corpo — è già un atto di resistenza.
In un tempo in cui la comunicazione è diventata una forma di dominio, restituire al linguaggio la sua fragilità sacra è forse l’unico modo per restare umani. E per prepararci, di nuovo, a dire “tu” — senza filtri, senza pubblico, senza like. Solo per amore.
XII. Ultimo respiro (coda lirica)
E se un giorno —
in un’ora che non ha nome,
dentro un crepuscolo che puzza di metallo bruciato,
sotto un cielo tossico che nessuno più guarda
perché nessuno alza più gli occhi —
ci sorprendessimo a balbettare una parola
che non serve a nulla,
una parola non tracciabile, non ottimizzata,
una parola nuda come un bimbo in una stalla,
dimenticata dai mercanti, dagli algoritmi,
una parola che non è nemmeno parola
ma sospensione,
fiato,
scoria luminosa nel buio della gola,
un rantolo dolce che somiglia a un abbraccio —
allora forse
ci renderemmo conto
che il linguaggio non è mai stato nostro,
ma ci è sempre stato affidato.
Affidato come un oggetto fragile
che abbiamo passato di mano in mano
senza guardarlo davvero,
sporcandolo di interessi, di strategie,
di sorrisi programmati e grida senza eco.
Ma il linguaggio —
quello vero —
non muore mai:
si nasconde.
Si è nascosto sotto le ciglia di chi non parla più,
nei sogni dei sordi,
nelle lacrime trattenute da chi ama in segreto,
nel battito scomposto di chi recita poesie
ai gatti randagi delle metropoli.
Si è chiuso nelle tombe dei poeti,
nei manoscritti umidi dimenticati nei bauli,
nei canti dei vecchi che non hanno più nessuno da consolare.
Si è fatto piccolo,
come Dio quando si vergogna degli uomini.
E noi non lo abbiamo più visto.
Accecati dai riflessi, dalle stories,
abbiamo confuso la chiacchiera con la comunione,
l’informazione con la verità,
l’invettiva con la presenza.
Ma forse —
e lo dico col pudore di chi interroga le macerie —
forse tornerà.
Tornerà come il suono della pioggia dopo un incendio.
Come un odore d’infanzia nel crollo di un supermercato.
Tornerà camminando su piedi feriti,
come un profeta a cui nessuno ha creduto,
come una prostituta che sa ancora amare,
come una lingua antica sopravvissuta ai genocidi.
Non sarà parola rapida.
Non sarà slogan.
Sarà parola lenta.
Impura.
Inutile.
Radiosa come le rughe sul volto di una madre
che ha atteso troppo.
E noi —
noi che avremo dimenticato come si chiede scusa,
noi che non sapremo più distinguere tra amare e cliccare,
tra piangere e reagire —
ci troveremo impreparati.
Storditi.
Come bambini davanti a una cosa viva.
E allora, forse, taceremo.
Taceremo per la prima volta non per stanchezza,
non per disprezzo,
ma per ascolto.
Perché la parola che torna
non ha bisogno di pubblico.
Ha bisogno di silenzio.
Di silenzio buono,
quel silenzio che pesa come un corpo addormentato accanto a noi,
che vibra come una corda tesa fra due solitudini
che non vogliono più essere separate.
E in quel silenzio
sentiremo il suono dimenticato
della parola che ama.
Una parola che non definisce,
ma invoca.
Che non argomenta,
ma trema.
Che non spiega,
ma accende.
Una parola che sanguina e consola.
Che inciampa,
che sussurra,
che ride piano.
Una parola che è carezza,
e promessa,
e domanda che non esige risposta.
Sarà quella parola —
e non le altre —
a ridarci il mondo.
Un mondo meno chiaro,
ma più abitabile.
Un mondo dove ogni sillaba sia una soglia,
e non un recinto.
Dove il dire torni ad avere pudore.
Dove ogni “tu” sia reale.
Dove nessuno voglia più avere l’ultima parola
perché la parola vera,
quella che vale,
non chiude,
ma apre.
E chi apre,
ama.
E allora —
non ci sarà più bisogno di essere visti.
Basterà essere toccati.
Toccati da una frase che cade lenta come neve su un deserto,
che ci avvolge
senza chiedere nulla,
che ci chiama
senza volerci possedere.
E là — in quell’istante senza notifica —
finalmente liberi,
finalmente vivi,
sapremo tacere
e in quel tacere,
parlare.