sabato 31 maggio 2025

Non si negoziano i corpi. Per una critica al compromesso nei diritti civili


Nel discorso pubblico italiano, la parola “compromesso” è diventata un feticcio. Viene brandita come sinonimo di responsabilità, come maturità politica. Ma quando si parla di diritti civili e sociali, di cittadinanza, di autodeterminazione, di libertà sui corpi, il compromesso non è una virtù: è il suo contrario. In questo paese, compromesso significa costante rinuncia. Rinuncia che pesa sempre sugli stessi corpi: migranti, persone queer, donne, soggettività trans.

La legge sulle unioni civili (L. 76/2016), celebrata come “storica”, ha lasciato fuori le famiglie omogenitoriali. Una mutilazione voluta per tenere insieme una maggioranza timorosa e cattolica. L’adozione del figlio del partner fu esplicitamente esclusa (art. 1, co. 20), sancendo una gerarchia tra le famiglie. A oggi, quelle famiglie esistono solo nei tribunali, nelle ordinanze che suppliscono all’inerzia del Parlamento. La Cassazione ha chiesto ripetutamente un intervento legislativo (sent. n. 7668/2020; n. 8029/2022). Nessuna risposta.

È lo stesso schema visto con la legge Zan (C. 230/2018). Doveva estendere le tutele penali contro l’odio omotransfobico. Quando la pressione ha chiesto di sacrificare il riferimento all’identità di genere per farla passare, in molti hanno resistito. La legge è stata affossata, ma non a caso: è la soggettività trans che il Parlamento non può digerire. Come se il riconoscimento giuridico dovesse passare dal sacrificio simbolico delle persone più vulnerabili.

Lo stesso vale per la cittadinanza. L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non prevedere ius soli, nemmeno temperato. I progetti di legge (come il DDL 2092/2015) prevedevano condizioni di scolarizzazione o residenza per “concedere” la cittadinanza a chi è nato e cresciuto qui. Nessuno parla del fatto che questo compromesso contiene già in sé una forma di razzismo istituzionale. La cittadinanza è data per sangue (ius sanguinis) a chi non conosce nemmeno la lingua italiana, ma deve essere “guadagnata” da chi ha la pelle sbagliata o un nome straniero.

Nel frattempo, ogni giorno si lavora per svuotare le leggi che ci sono. La 194/1978 sul diritto all’aborto è un caso lampante: con il 69% di obiettori (e punte superiori al 90% in regioni come il Molise), il diritto diventa ostacolo, la norma eccezione. Non servono abolizioni: basta l’inerzia, basta l’oblio. O, peggio, bastano emendamenti “dialoganti” come quello approvato nel 2024, che apre i consultori a figure pro-vita, costringendo le donne a un percorso moralmente sorvegliato.

Anche la Corte costituzionale è intervenuta, con la sentenza n. 242/2019 sul suicidio medicalmente assistito, per dire al Parlamento che non si può costringere una persona a soffrire oltre i limiti della dignità. Ma il legislatore ha fatto orecchie da mercante. Ogni proposta viene annacquata, sospesa, rinviata. Perché un diritto non è mai davvero tale, finché può essere congelato per convenienza politica.

La strategia è sempre la stessa: far passare l’idea che “qualcosa è meglio di niente”. Ma questo qualcosa ha un costo altissimo. Esclude, silenzia, seleziona. Si approva una legge per pochi, lasciando fuori chi ha più bisogno di tutele. E lo si fa in nome della “governabilità”, cioè del mantenimento di equilibri di potere.

Il compromesso, in Italia, ha prodotto più emarginazione che avanzamento. Non esiste compromesso con chi nega l’esistenza dell’altrə. Non si può “mediare” con chi considera le persone trans un’ideologia o la genitorialità queer una minaccia. Come ha stabilito la Corte costituzionale nella sent. 221/2015, l’identità di genere non può essere subordinata a interventi chirurgici. E come ha ribadito la Cassazione (sent. 15138/2015), l’autodeterminazione non è un privilegio: è un diritto. Ma in Parlamento si continua a trattare tutto questo come se fosse un'opinione, non una questione di giustizia.

È una dinamica che si riflette anche sul piano politico. Figure come Monica Cirinnà, protagoniste di un'epoca in cui sembrava possibile legiferare in avanti, sono state progressivamente marginalizzate, rese simbolicamente scomode, isolate dai partiti stessi che le avevano sostenute. Una sorta di purga simbolica: chi chiede troppo, chi pretende coerenza, viene fatto fuori.

La lezione è chiara. Non si tratta di intransigenza. Si tratta di dignità. Non si possono difendere i diritti con gli strumenti di chi quei diritti li vuole condizionati, parziali, revocabili. Non si negozia la libertà. Non si negoziano i corpi.
E chi chiede di farlo in nome della realpolitik, in fondo, sta solo difendendo il proprio privilegio di poter aspettare.


Sotheby's Milano e il rinnovato fervore per il Novecento italiano: tra rigore magico, tensioni astratte e mitologie metafisiche


La recente asta tenutasi presso la sede milanese di Sotheby's ha rappresentato molto più che un appuntamento commerciale per il mercato dell'arte: essa ha costituito un vero e proprio barometro del rinnovato interesse – colto e collezionistico – per le espressioni artistiche italiane del XX secolo, rivelando al contempo dinamiche selettive e tendenze di gusto che riflettono un dialogo sempre più fitto tra l'orizzonte storico e la sensibilità contemporanea. L'evento, curato con attenzione alla qualità museale dei lotti presentati, ha riportato alla luce opere raramente esposte, alcune provenienti da raccolte private e assenti da decenni dal dibattito critico pubblico, suscitando riflessioni nuove sulla ricezione attuale di maestri quali Antonio Donghi, Osvaldo Licini e Giorgio de Chirico.

In un mercato spesso polarizzato tra l'arte contemporanea internazionale e il revival di nomi già consacrati da istituzioni museali, l'asta milanese ha dato spazio a un tempo sospeso, quello del primo e secondo Novecento italiano, che oggi si rivela più che mai carico di potenziale poetico, filosofico ed economico. L'attenzione alla selezione delle opere, alla loro conservazione, provenienza e rarità, ha permesso a Sotheby's di articolare un'offerta che è parsa pensata non solo per i collezionisti tradizionali ma anche per curatori, studiosi e operatori culturali interessati a rivalutare linee meno canoniche della modernità artistica nazionale.

La trasparente enigma di Antonio Donghi: una modernità statica e segreta

Al centro di questo processo di riscoperta si colloca l'opera di Antonio Donghi, figura emblematica di quel complesso e sfaccettato fenomeno storiografico denominato "Realismo Magico". Pur distante da ogni tentazione narrativa o retorica, la pittura di Donghi si caratterizza per un controllo quasi glaciale della forma e della composizione, che restituisce una realtà cristallizzata, silenziosa e insieme perturbante. Le sue figure – spesso immerse in ambientazioni urbane o domestiche dal sapore arcaico – sembrano abitate da una sospensione temporale, come se il tempo stesso, invece di fluire, vi si fosse pietrificato.

L'opera di Donghi, ampiamente apprezzata già negli anni Venti e Trenta ma poi per lungo tempo marginalizzata rispetto ai canoni del modernismo internazionale, ha ritrovato negli ultimi anni un nuovo posizionamento critico, complice anche il crescente interesse per le poetiche dell'oggetto e per una figurazione colta, anacronistica, che si rivela quanto mai attuale nella sua ambiguità percettiva. L'ottima risposta del mercato all'opera proposta in asta da Sotheby's – lodata per la sua integrità espressiva e l'esecuzione impeccabile – testimonia come il pubblico stia riscoprendo la capacità di Donghi di evocare, attraverso un iperrealismo solo apparente, una metafisica degli affetti e degli sguardi trattenuti.

Osvaldo Licini: il canto astratto del cosmo e dell'anima

Di tutt'altro orientamento, ma egualmente ancorato a una visione individualissima dell'arte come strumento di trasfigurazione interiore, è il lavoro di Osvaldo Licini. Lontano dai dettami del razionalismo geometrico o delle derive costruttiviste, Licini sviluppa un linguaggio pittorico autonomo e lirico, che attinge tanto alle suggestioni simboliste quanto alle inquietudini esistenziali del primo dopoguerra. Le sue celebri "Amalassunte" – figure arcane, alate, scritte nel cielo con una calligrafia dell'inconscio – tracciano una geografia intima dell'universo, dove il segno si fa vibrazione poetica e il colore si emancipa dalla mera funzione descrittiva per assurgere a veicolo di tensione spirituale.

La presenza in asta di una delle sue composizioni più evocative ha riaffermato l'attrattività di Licini presso un collezionismo raffinato e sensibile alle contaminazioni tra le arti. In un contesto critico in cui l'astrazione tende spesso a essere letta nei termini di linguaggio internazionale omogeneo, l'opera di Licini si distingue per una capacità tutta italiana – e tutta personale – di innervare la pittura con interrogativi cosmici, tensioni mistiche e invenzioni iconiche che rendono ogni sua tela una sorta di poema visivo. Il risultato ottenuto in asta conferma la solidità del suo posizionamento, ma anche la necessità di continuare a promuovere la ricerca storiografica su un artista che ha saputo congiungere metafisica, espressionismo e mistero.

Giorgio de Chirico: l'inquietudine metafisica come stile eterno

Ineludibile infine la figura di Giorgio de Chirico, il cui ruolo fondativo nella nascita della pittura metafisica resta una delle pagine più dense e influenti dell'arte del Novecento. Le opere presenti in asta, esemplari per qualità e rappresentatività, confermano come il lessico pittorico dechirichiano – fatto di piazze deserte, manichini, colonnati in rovina e prospettive stranianti – continui a esercitare un potere magnetico sul pubblico contemporaneo. Non si tratta solo di suggestione stilistica, ma di una vera e propria potenza ontologica delle sue immagini, che pongono interrogativi radicali sul senso del tempo, dello spazio e della memoria.

La fortuna critica di de Chirico, più volte soggetta a oscillazioni anche feroci – basti pensare alla ricezione controversa della sua fase "neobarocca" post-metafisica – si sta oggi stabilizzando su un piano di riconoscimento pieno della complessità della sua parabola. L'asta milanese ha presentato un'opera emblematica della sua produzione maturo-metafisica, capace di dialogare con le inquietudini esistenziali del presente e con le riflessioni sulla teatralità del mondo visibile. Non stupisce, quindi, che il suo lavoro mantenga una salda posizione tanto sul piano economico quanto su quello curatoriale, restando punto di riferimento imprescindibile per ogni riflessione sull'arte come sistema simbolico.

Considerazioni conclusive: oltre l'asta, una cartografia della memoria artistica

L'edizione primaverile di Sotheby's Milano non ha dunque offerto soltanto l'opportunità di acquisire opere di grande valore storico ed estetico, ma ha tracciato una vera e propria cartografia delle sensibilità artistiche del Novecento italiano, illuminando territori spesso trascurati o letti con categorie critiche riduttive. Attraverso l'intelligente accostamento di personalità diverse ma profondamente rappresentative – Donghi con la sua immobilità poetica, Licini con la sua tensione visionaria, de Chirico con il suo silenzioso enigma metafisico – l'asta ha proposto una narrazione alternativa del moderno, lontana dagli schemi gerarchici della storiografia tradizionale.

In un'epoca segnata da mutamenti rapidi nei paradigmi estetici e da una crescente ibridazione tra generi e linguaggi, il ritorno a questi artisti non appare come un gesto nostalgico, ma come un'operazione di chiarimento: essi ci restituiscono una visione dell'arte come forma di conoscenza, come rito mentale e spirituale, e come esperienza irriducibile di straniamento. Il loro successo in asta, oltre i numeri e i record, è il sintomo di una riscoperta più ampia, che riguarda la profondità del tempo, la persistenza del simbolo, e il bisogno, oggi più che mai avvertito, di silenzi che sanno parlare.


Lo sguardo proibito: riflessioni sull’interdizione accademica del “guardare in macchina”


Tra i precetti basilari che dominano l’insegnamento cinematografico, soprattutto nei corsi di recitazione e regia, ve n’è uno che risuona con insistenza quasi liturgica: l’attore non deve mai guardare direttamente nell’obiettivo. Si tratta di una norma trasmessa con il tono di una verità dogmatica, raramente messa in discussione. Guardare in macchina significherebbe rompere l’incanto della rappresentazione, interrompere il flusso diegetico del racconto, infrangere la “quarta parete” e con essa il patto invisibile che lega spettatore e narrazione. Eppure, una riflessione più attenta su questo divieto svela non solo la sua parzialità, ma anche la sua natura ideologica.

L’interdizione dello sguardo in camera deriva da un’idea del cinema come finestra neutra sul mondo, una “trasparenza” mutuata dalla pittura rinascimentale e cristallizzata nella grammatica del cinema classico hollywoodiano. In tale concezione, lo spettatore deve osservare la scena come se fosse invisibile, un voyeur impunito che assiste senza conseguenze al dispiegarsi di un’altra realtà. L’obiettivo della macchina da presa, in questa logica, funziona come un occhio disincarnato, non situato, che non appartiene a nessuno e perciò non guarda, né può essere guardato.

Ma la realtà dell’esperienza umana contraddice questa premessa: nella vita quotidiana lo sguardo è tutto fuorché neutro. Guardiamo e siamo guardati. Lo sguardo costruisce relazioni, genera conflitti, fonda la reciprocità. Evitare lo sguardo dell’altro può essere un atto di pudore, ma più spesso è un gesto di esclusione o di negazione. Lo sguardo, al contrario, istituisce un legame: riconosce, interpella, coinvolge.

Nel cinema, il gesto di guardare in macchina — ben lontano dall’essere una violazione del linguaggio — rappresenta uno dei suoi momenti di maggiore intensità espressiva. È lo sguardo che rompe il regime della finzione solo per instaurarne uno nuovo, più consapevole. Il cinema moderno ha fatto dello sguardo in macchina un dispositivo critico e poetico. A partire da Jean-Luc Godard, che in Vivre sa vie (1962) permette ad Anna Karina di guardare dritto nell’obiettivo mentre riflette sulla propria condizione esistenziale, lo sguardo in camera si emancipa dal ruolo di incidente e diventa dichiarazione di poetica. La scena, lungi dal compromettere la “credibilità” del racconto, la intensifica. Lo spettatore si scopre improvvisamente visibile, chiamato in causa, reso co-protagonista di un’epifania.

Questo gesto ritorna, con vari gradi di consapevolezza, in autori come Agnès Varda, Michael Haneke, Chantal Akerman, i fratelli Dardenne, Abbas Kiarostami. In Caché (2005), Haneke mette lo spettatore in una posizione di colpevolezza implicita, costringendolo a interrogarsi sul proprio ruolo di osservatore. Lo sguardo in macchina non è una semplice rottura della finzione: è un atto etico, un meccanismo di responsabilizzazione. Lo stesso può dirsi per Rosetta (1999) o L’enfant (2005), in cui lo sguardo instabile e prossimo dei Dardenne suggerisce una presenza che non è mai completamente esterna. Il loro cinema non ci guarda per caso; ci guarda per scelta.

In ambito extra-europeo, basti pensare al cinema di Tsai Ming-liang, dove lo sguardo in macchina assume una valenza ipnotica e metafisica. Oppure al lavoro di Abbas Kiarostami, che nel finale di Close-Up (1990) dissolve i confini tra autore, attore e spettatore, lasciando che lo sguardo reciproco diventi l’atto di nascita del film stesso.

È necessario notare come la reticenza nei confronti dello sguardo in camera sia legata a una concezione del cinema come illusione protetta, un teatro dell’irrealtà che deve “dimenticarsi” della presenza dello spettatore. Ma l’arte, da almeno un secolo, si muove in tutt’altra direzione. Il teatro brechtiano ha già smascherato la funzione ideologica della finzione “realista”, introducendo la distanza critica come strumento di consapevolezza politica. Allo stesso modo, la videoarte ha fatto dello sguardo frontale uno dei suoi codici fondamentali, ponendo lo spettatore in una relazione esplicita e spesso scomoda con il soggetto rappresentato.

In ambito performativo, lo sguardo diretto non è un incidente da evitare ma un vettore di potere. Si pensi a Marina Abramović e alla forza disarmante dei suoi confronti oculari, come in The Artist Is Present. Il pubblico non può più nascondersi dietro lo schermo: è parte dell’opera, esposto, vulnerabile.

In definitiva, il divieto accademico del “non guardare in macchina” non è tanto una norma tecnica quanto una scelta culturale. Esso presuppone uno spettatore passivo, da proteggere dal coinvolgimento, da mantenere nella distanza. Ma il cinema più vivo e più inquieto si produce proprio nel momento in cui quello sguardo viene restituito. L’obiettivo non è più una soglia da non oltrepassare, ma un punto d’incontro. Guardare in camera significa riconoscere che il cinema è fatto di relazioni, che non esiste immagine senza un occhio che guarda — e, inevitabilmente, senza un occhio che risponde.

Nel tempo delle piattaforme, dei social e della performance continua dell’io, lo sguardo in macchina ha acquisito una nuova centralità. I video su TikTok, Instagram o YouTube sovvertono quotidianamente le regole classiche del linguaggio cinematografico. Qui lo sguardo rivolto all’obiettivo non è solo permesso: è il prerequisito. L’interazione con il pubblico è diretta, non mediata, e il soggetto filmato sa di essere visto, si rivolge esplicitamente a chi guarda. È, in un certo senso, il trionfo di ciò che la didattica tradizionale del cinema ha a lungo negato.

Riconsiderare lo sguardo in macchina significa allora ripensare il cinema non solo come tecnica, ma come atto di relazione. È proprio in quell’attimo in cui l’occhio dell’attore incontra il nostro che il cinema smette di essere un sogno da cui nessuno deve svegliarsi — e diventa invece un incontro che ci riguarda, ci inquieta e ci costringe a rispondere.


📸 Sans Soleil, Chris Marker

Tutto quello che credi sulla famiglia "naturale" è falso

Si definisce impropriamente “naturale” la famiglia borghese nucleare, affermatasi tra XVIII e XIX secolo nel contesto europeo. Questo modello, costituito da padre, madre e figli conviventi in un’unica unità domestica separata dal resto della comunità, è in realtà una costruzione storica specifica, emersa in corrispondenza con lo sviluppo del capitalismo, della proprietà privata e dell’individualismo moderno. Eppure, nel corso del tempo, questo assetto familiare è stato progressivamente elevato a paradigma universale, spesso percepito come l’unica forma legittima di convivenza e di riproduzione sociale. Il suo carattere storicamente situato è stato oscurato da una narrazione che lo ha proposto come dato biologico, immanente alla natura umana, e dunque sottratto alla critica.

Per secoli, anzi per millenni, le popolazioni europee hanno vissuto secondo forme familiari estremamente variabili: famiglie estese e plurigenerazionali, convivenze collettive fondate su legami non esclusivamente di sangue, reti di cura che coinvolgevano anche servi, apprendisti, vedove, orfani e forestieri. Il concetto stesso di famiglia, fino all’età moderna, coincideva spesso con l’unità di produzione agricola o artigianale, e non con lo spazio dell’intimità o del sentimento romantico. Le alleanze matrimoniali, più che alla libera scelta, obbedivano a logiche economiche, politiche o patrimoniali. Nel contesto medievale, ad esempio, la casa era un centro di attività economiche, e la coabitazione includeva una pluralità di figure eterogenee, ben lontane dalla composizione ristretta e idealizzata della famiglia ottocentesca.

Con l’avvento della modernità, e in particolare con l’affermazione della borghesia urbana, si assiste a un processo di privatizzazione e idealizzazione della vita domestica. La separazione tra sfera pubblica e sfera privata diviene centrale. L’amore romantico comincia ad assumere un ruolo strutturante nei modelli coniugali, ma solo in un secondo momento, e soprattutto come costruzione letteraria prima ancora che sociale. Il matrimonio borghese viene riletto in chiave affettiva, ma ciò che prevale è un dispositivo di controllo: la famiglia diventa il luogo deputato alla riproduzione dei ruoli di genere, alla trasmissione dell’eredità, alla formazione morale dei cittadini, e alla sorveglianza delle sessualità.

Tutto ciò è stato descritto con precisione da numerosi studi storici e antropologici. Philippe Ariès, nel suo pionieristico L’enfant et la vie familiale sous l’Ancien Régime, e più estesamente nella collana diretta con Georges Duby La famiglia e la sessualità in Occidente, ha mostrato come molte delle idee oggi associate alla “famiglia naturale” siano in realtà conquiste o imposizioni recenti. Gli studi di David Sabean, Jack Goody e Emmanuel Le Roy Ladurie confermano l’estrema flessibilità delle strutture familiari in epoche precedenti. Parallelamente, l’opera di Michel Foucault ha permesso di leggere la famiglia moderna come un dispositivo biopolitico: uno strumento di governo dei corpi e di normalizzazione dei comportamenti.

La persistenza di questa forma familiare come unica legittimata — nonostante i profondi mutamenti culturali e sociali degli ultimi decenni — dipende in larga misura dalla sua interiorizzazione ideologica. La cosiddetta “famiglia naturale” non è solo un modello storico, ma un’operazione discorsiva: funziona come meccanismo di esclusione, rendendo invisibili o marginali tutte le forme di convivenza e affettività che non vi si conformano. Le famiglie omogenitoriali, le reti amicali di mutuo soccorso, le relazioni non monogame, le esperienze di genitorialità queer o collettiva, vengono sistematicamente ignorate, quando non stigmatizzate. La naturalizzazione del modello borghese ha dunque un preciso valore politico: serve a proteggere un ordine simbolico fondato sulla gerarchia, la proprietà e la riproduzione del potere.

Negli ultimi decenni, gli studi queer hanno contribuito in modo decisivo a decostruire questa narrazione. Autori come Judith Butler, Michael Warner, Didier Eribon e, nel contesto italiano, Lorenzo Bernini e Massimo Prearo, hanno evidenziato come la famiglia sia al centro di un’ideologia eteronormativa che funziona come dispositivo di disciplinamento. In questa prospettiva, la famiglia non è più un’istituzione neutra, ma una macchina sociale attraverso cui si produce e si riproduce un certo tipo di soggetto: conforme, binario, produttivo, normato.

Rimettere in discussione la presunta naturalità della famiglia borghese non significa negarne il valore affettivo o la funzione sociale in determinate epoche. Significa però liberarsi dall’idea che essa rappresenti l’unica forma possibile o desiderabile di convivenza. Significa, in altri termini, riaprire lo spazio della possibilità, della scelta, della pluralità. Riconoscere che ogni forma familiare è storicamente determinata permette di immaginare strutture nuove, più elastiche, più eque, fondate non sull’obbligo ma sul desiderio, non sulla norma ma sulla relazione.

In un tempo in cui la famiglia tradizionale viene invocata come baluardo contro ogni cambiamento, è necessario ribadirne la natura storica e contingente. La sua critica non è un attacco ai legami affettivi, ma al contrario un’apertura verso forme più libere e inclusive di vicinanza umana. Ripensare la famiglia, oggi, significa anche pensare un altro modo di abitare il mondo.

venerdì 30 maggio 2025

La sproporzione digitale. Saggio sull’oscenità della comunicazione contemporanea

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“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini.”

— Guy Debord

I. La soglia infranta

C’è una soglia invisibile che l’umanità ha superato senza accorgersene: il passaggio da una comunicazione fondata sull’incontro a una fondata sulla visibilità. Se un tempo parlare significava esporsi all’altro, oggi parlare — o meglio: postare — significa esporsi agli altri, ma senza mai lasciarsi davvero toccare. Non si dialoga: si emette. Si afferma. Si recita. Si dichiara la propria esistenza a una platea indefinita, nella speranza che uno sguardo digitale (un cuore, un like, una fiamma) restituisca per un attimo la sensazione di essere vivi.

La comunicazione digitale, lungi dall’essere uno strumento neutro, ha modificato profondamente la struttura del desiderio e dell’identità. In essa non si cerca più una risposta, ma una conferma. Non un senso, ma una validazione. Ed è proprio da questa smania di conferma — spasmodica, continua, ansiosa — che nasce una nuova forma di oscenità: quella dell’esposizione permanente del sé.

II. L’oscenità del sé

Nel teatro della comunicazione digitale, il non è più un centro profondo da cui far scaturire parole cariche di vissuto. È diventato una superficie, un oggetto estetico da curare, promuovere, rilanciare. Il narcisismo non è più una patologia isolata, ma un clima generale. Eppure non si tratta di un narcisismo trionfante, greco, apollineo — si tratta di un narcisismo ferito, costretto a performare di continuo per non essere dimenticato.

In questo contesto, il linguaggio perde la sua funzione originaria: non crea legami, non genera realtà condivisa, non costruisce ponti. Si fa cifra, didascalia, gesto automatico. “Ti penso” diventa un’emoji. “Ti amo” una storia Instagram. “Sto male” una foto calibrata, desaturata, pubblicata con un hashtag ad effetto. La parola — un tempo radice della civiltà — si è fatta funzione accessoria dell’immagine, e l’immagine è diventata messaggera del vuoto.

III. La vergogna rovesciata

La comunicazione digitale ha anche capovolto il senso della vergogna. Un tempo era vergognoso mostrarsi troppo. Oggi è quasi colpevole non mostrarsi affatto. Il pudore, lo spazio della riflessione silenziosa, l’intimità — sono diventati sospetti. Chi tace ha qualcosa da nascondere. Chi non si mostra è “assente”, “socialmente morto”.

Eppure, dietro l’ostentazione, si cela una fame antica: il desiderio di essere guardati non per ciò che si appare, ma per ciò che si è. È una fame d’amore che ha perso le parole e le ha sostituite con un riflesso algoritmico. Da qui, la vergogna più profonda: quella di non essere all’altezza della propria immagine digitale. Il selfie diventa un confronto costante tra l’essere e l’apparire, e lo scarto tra i due genera un senso di inadeguatezza cronica, mascherata da iperattività social.

IV. Sproporzione e polarizzazione

Ma forse la ferita più grave della comunicazione digitale non sta solo nell’eccesso di sé. Sta nella sproporzione che essa introduce in ogni interazione. L’anonimato e la rapidità delle piattaforme consentono risposte brutali, giudizi istantanei, indignazioni coreografiche. L’altro non è più un volto da comprendere, ma un ostacolo da demolire.

Si risponde non più per chiarire, ma per affermare. Non per condividere, ma per vincere. La comunicazione si fa competizione, e la polarizzazione diventa inevitabile: o sei con me, o contro di me. Ogni opinione diventa una bandiera. Ogni sfumatura un tradimento. Ogni errore, un’onta indelebile.

La sproporzione emotiva è la nuova regola: si insulta per un disaccordo, si cancella un’amicizia per un tweet, si grida allo scandalo per un dettaglio insignificante. Si reagisce come se tutto fosse personale, definitivo, epocale — quando invece nulla è davvero sentito, nulla è duraturo, nulla è reale.

V. Verso un silenzio fertile?

Eppure, in questa giungla linguistica, esistono ancora zone di resistenza. Persone che scelgono il silenzio, la lentezza, l’assenza dai circuiti della visibilità. Persone che rifiutano la logica dell’autopromozione e tentano, contro ogni logica di sistema, di preservare la parola come luogo di verità.

Forse la vera rivoluzione oggi non è parlare, ma tacere. Non esprimersi, ma sentire. Non pubblicare, ma ascoltare. Forse la vera comunicazione è quella che non cerca risposta, ma comprensione. Quella che non ha bisogno di essere vista, perché si fonda su un’intimità che nessun algoritmo può mappare.

VI. Simulacri e pornografia del senso (Baudrillard)

Jean Baudrillard ci aveva avvertiti: la realtà ha smesso di esistere come categoria stabile, soppiantata dal regno dei simulacri. Nell’universo digitale, ogni segno non rinvia più a un referente, ma solo ad altri segni. Il post non esprime più un pensiero, ma cita altri post. L’immagine non rappresenta un volto, ma un’idea di visibilità. La parola non apre più al dialogo, ma a una coreografia di consensi.

Baudrillard parlava di pornografia del reale, intesa non come eccesso sessuale, ma come eccesso di trasparenza. In questo mondo dove tutto deve essere visibile, nulla può più accadere nell’ombra fertile del non detto. E così il linguaggio si fa bulimico: deve mostrare tutto, dichiarare tutto, spiegare tutto — e nel farlo, distrugge il mistero stesso del senso. È qui che la comunicazione digitale diventa oscena: non perché scandalosa, ma perché priva di scena. Il palco è scomparso, e con esso il tempo della preparazione, del pudore, della soglia. Ci si getta direttamente nell’esposizione, in una vetrina infinita dove il soggetto è al tempo stesso attore, regista, spettatore e merce.

VII. Lo spettacolo e la morte del reale (Debord)

Guy Debord, nel suo La società dello spettacolo, individuava nel dominio delle immagini la trasformazione della vita in rappresentazione continua. Il reale vissuto viene espropriato, sostituito da un flusso di immagini che non mostrano più il mondo, ma lo occultano.

La comunicazione digitale realizza pienamente questo spettacolo: ogni evento, emozione, esperienza viene filtrato, tagliato, editato per diventare contenuto. Ma ciò che è “contenuto” ha già perduto la propria intensità reale. Una dichiarazione d’amore, un lutto, una nascita, una crisi: tutto viene trasmutato in materiale da condividere. La vita non è più vissuta: è raccontata mentre si vive, ed è vissuta per essere raccontata.

Debord ci ricorda che “più lo spettatore contempla, meno vive”. La contemplazione digitale non è più meditativa, ma distratta, iperattiva e frammentata. È un’attenzione che salta, scivola, consuma — e nel farlo, si dissolve. La soggettività si frantuma nel montaggio compulsivo del feed, e il soggetto stesso diventa solo un profilo, un’interfaccia, una funzione dell’algoritmo.

VIII. L’Altro non esiste (Lacan)

Per Jacques Lacan, il linguaggio non è semplicemente uno strumento: è la condizione strutturale dell’inconscio. “L’inconscio è strutturato come un linguaggio” — e in quanto tale, l’accesso al desiderio passa sempre attraverso la parola. Ma cosa accade quando la parola viene svuotata, automatizzata, serializzata?

La comunicazione digitale crea un cortocircuito: moltiplica il segno, ma separa il soggetto dal desiderio. Parliamo, ma non sappiamo più da dove parliamo. L’interlocutore è assente, sostituito da un pubblico amorfo, e l’Altro — cioè il luogo simbolico in cui il soggetto trova la legge e il riconoscimento — viene meno. Restano solo risposte immediate, pollici alzati, algoritmi che confermano o ignorano. Non c’è spazio per la mancanza, e quindi non c’è più desiderio.

Il soggetto digitale non desidera: reagisce. Non cerca l’Altro: cerca conferme. E questo lo rende fondamentalmente solo, anche nel cuore della connessione. Il narcisismo che ne deriva non è la celebrazione di sé, ma la prigione dell’Io non mediato dal desiderio dell’Altro. È un ritorno claustrofobico all’immagine speculare, che però non restituisce più un’identità, ma una proliferazione vuota.

IX. La stanchezza dell’essere (Byung-Chul Han)

Nel pensiero di Byung-Chul Han, la società contemporanea è dominata da un eccesso di positività: tutto dev’essere mostrato, condiviso, capitalizzato. Non c’è più opposizione, solo performance. Il soggetto si trasforma in un progetto, continuamente da aggiornare, da migliorare, da esporre.

Questa positività conduce a una forma nuova di violenza: la violenza della trasparenza obbligata, dell’autosfruttamento, della stanchezza cronica. Han parla di “società della prestazione”, in cui ognuno è imprenditore di sé stesso, e il fallimento è interiorizzato come colpa personale. Ma questa colpa si camuffa da comunicazione: io scrivo, io posto, io dico — quindi esisto.

La comunicazione digitale, in questo senso, è il prolungamento del neoliberismo nel linguaggio. Ogni parola diventa investimento, ogni silenzio una perdita. Il corpo stesso si fa contenuto: mostrato, modificato, venduto. In tale contesto, la parola non ha più potere critico: non mette in crisi, non disvela. Diventa una funzione di superficie, un gesto consumabile.

X. Riappropriarsi del silenzio, restituire il linguaggio

Se, come abbiamo visto, la comunicazione digitale ha trasformato la parola in un esercizio performativo, in una sequenza di segni ipervisibili, tautologici, narcistici, allora forse il gesto più radicale, oggi, non è parlare — ma tacere. Il silenzio, nella sua nudità, rappresenta ciò che sfugge alla cattura del sistema simbolico digitale: non può essere monetizzato, né diffuso, né messo in evidenza. È il fuori-scena per eccellenza. In esso non c’è prestazione, né audience. Solo presenza.

Baudrillard ci insegnava che ogni sistema di segni si esaurisce nella sua autoreferenzialità: più si parla, meno si dice. E dunque il silenzio può divenire un contro-discorso. Un gesto di resistenza poetica. Un atto estetico. Non come vuoto, ma come grembo: uno spazio che attende, che accoglie, che differisce.

Allo stesso modo, Debord ci invitava a rompere lo spettacolo non con un altro spettacolo, ma con un detournement: un sabotaggio del visibile, un’interruzione del flusso. E cosa può sabotare meglio del linguaggio quella comunicazione che è già tutta superficie? La parola sussurrata, scritta a mano, detta nel buio di una stanza o in una lettera che non cerca risposta. È lì che si spezza l’equivalenza tra comunicare e capitalizzare. È lì che la parola torna a essere dono, non transazione.

Lacan direbbe che in quel silenzio, in quel non detto, si riapre il desiderio: non per l’approvazione, ma per l’Altro. Per l’incontro che non si può prevedere, per lo scarto che ci costituisce. Solo nel ritardo, nel balbettio, nell’equivoco — la parola ritrova la sua funzione originaria: quella di mancare qualcosa, e proprio per questo evocarla.

Han, infine, ci ricorda che ciò che ci uccide non è l’oppressione, ma il logoramento dell’autosfruttamento, della trasparenza coatta, della comunicazione come prestazione continua. E allora il silenzio diventa una forma di ecologia interiore. Una cura della parola. Un dire solo ciò che vale la pena di dire. Un tornare all’intimità come luogo della verità: non la verità dei dati, ma quella dell’essere.

Perché forse il linguaggio non nasce per informare, ma per creare legami. Non per descrivere il mondo, ma per abitarlo insieme. Ogni parola detta con cura, ogni ascolto che accetta la pausa, ogni frase che non cerca consenso ma condivisione — è un gesto politico, etico, amoroso.

E allora il compito non è parlare di meno, ma parlare diversamente. Come chi sa che ogni parola è fragile, e proprio per questo sacra. Come chi sa che il silenzio non è assenza, ma promessa. Come chi sa che l’unico linguaggio che ci salva è quello che ci riconsegna all’altro — e mai a noi stessi.

XI. Estetica e teologia del linguaggio: verso un’alleanza del fragile

Perché la parola torni a essere un dono e non una performance, è necessario un cambio di paradigma. Qui estetica e teologia — apparentemente lontane — possono offrire coordinate inaspettate.

L’estetica, quando non è ridotta a discorso sull’apparenza, ma torna a essere aisthesis, percezione sensibile del mondo, ci insegna che ogni linguaggio è incarnato. La parola nasce dalla voce, dal respiro, dalla carne che trema. È gesto, ritmo, pause, modulazioni: ha un corpo. Ma il digitale la ha smaterializzata. Ha reso la parola segno senza peso, astrazione immediata. L’estetica ci invita invece a tornare al suo timbro, alla sua fragilità sonora. A trattarla come un’opera d’arte — non da consumare, ma da abitare.

Come insegna Georges Didi-Huberman, ogni immagine che resiste è un’interruzione nel visibile, un varco. Così ogni parola che non si chiude nel commento, che non pretende di spiegare tutto, ma che si espone alla ferita del dire, è un’immagine del possibile. Una parola bella, allora, è una parola sporca, incompiuta, dolente. Una parola che non cancella il silenzio, ma lo onora. E in questo gesto, l’estetica sfiora il sacro.

Qui la teologia può offrire il suo contributo più audace: perché nel principio, dice Giovanni, era il Logos. Ma non il logo pubblicitario, né il logaritmo — bensì il Verbo incarnato. La parola come presenza. La parola che non è mai pura, ma che si fa carne, che si sporca di tempo, di storia, di relazioni. Ogni volta che parliamo per amare — e non per convincere — partecipiamo di quel mistero.

Teologi come Abraham Heschel o Romano Guardini ci ricordano che il linguaggio umano, quando è orientato all’ascolto, diventa preghiera. Non necessariamente nel senso confessionale, ma come tensione, come invocazione, come riconoscimento di una mancanza che non può essere riempita da nessuna emoji. Ecco, allora, che il silenzio torna ad avere statuto sacrale: non perché assenza, ma perché spazio del possibile, grembo del dire.

Se la parola si fa dono, è perché cede qualcosa di sé. È perché non trattiene, non calcola, non ottimizza. È perché rinuncia a essere piena. La parola che ama è parola che perde — tempo, controllo, efficacia. E proprio per questo è fertile.

L’alleanza fra estetica e teologia ci mostra dunque una via: parlare non per dominare, ma per lasciare che qualcosa accada. Lasciare che l’altro emerga. Lasciare che la realtà non sia ridotta a notifica. Una parola che fiorisce dal silenzio, che accetta la sua opacità, che risuona nel corpo — è già un atto di resistenza.

In un tempo in cui la comunicazione è diventata una forma di dominio, restituire al linguaggio la sua fragilità sacra è forse l’unico modo per restare umani. E per prepararci, di nuovo, a dire “tu” — senza filtri, senza pubblico, senza like. Solo per amore.

XII. Ultimo respiro (coda lirica)

E se un giorno —
in un’ora che non ha nome,
dentro un crepuscolo che puzza di metallo bruciato,
sotto un cielo tossico che nessuno più guarda
perché nessuno alza più gli occhi —
ci sorprendessimo a balbettare una parola
che non serve a nulla,
una parola non tracciabile, non ottimizzata,
una parola nuda come un bimbo in una stalla,
dimenticata dai mercanti, dagli algoritmi,
una parola che non è nemmeno parola
ma sospensione,
fiato,
scoria luminosa nel buio della gola,
un rantolo dolce che somiglia a un abbraccio —
allora forse
ci renderemmo conto
che il linguaggio non è mai stato nostro,
ma ci è sempre stato affidato.

Affidato come un oggetto fragile
che abbiamo passato di mano in mano
senza guardarlo davvero,
sporcandolo di interessi, di strategie,
di sorrisi programmati e grida senza eco.
Ma il linguaggio —
quello vero —
non muore mai:
si nasconde.

Si è nascosto sotto le ciglia di chi non parla più,
nei sogni dei sordi,
nelle lacrime trattenute da chi ama in segreto,
nel battito scomposto di chi recita poesie
ai gatti randagi delle metropoli.
Si è chiuso nelle tombe dei poeti,
nei manoscritti umidi dimenticati nei bauli,
nei canti dei vecchi che non hanno più nessuno da consolare.
Si è fatto piccolo,
come Dio quando si vergogna degli uomini.

E noi non lo abbiamo più visto.
Accecati dai riflessi, dalle stories,
abbiamo confuso la chiacchiera con la comunione,
l’informazione con la verità,
l’invettiva con la presenza.

Ma forse —
e lo dico col pudore di chi interroga le macerie —
forse tornerà.
Tornerà come il suono della pioggia dopo un incendio.
Come un odore d’infanzia nel crollo di un supermercato.
Tornerà camminando su piedi feriti,
come un profeta a cui nessuno ha creduto,
come una prostituta che sa ancora amare,
come una lingua antica sopravvissuta ai genocidi.

Non sarà parola rapida.
Non sarà slogan.
Sarà parola lenta.
Impura.
Inutile.
Radiosa come le rughe sul volto di una madre
che ha atteso troppo.

E noi —
noi che avremo dimenticato come si chiede scusa,
noi che non sapremo più distinguere tra amare e cliccare,
tra piangere e reagire —
ci troveremo impreparati.
Storditi.
Come bambini davanti a una cosa viva.
E allora, forse, taceremo.

Taceremo per la prima volta non per stanchezza,
non per disprezzo,
ma per ascolto.
Perché la parola che torna
non ha bisogno di pubblico.
Ha bisogno di silenzio.
Di silenzio buono,
quel silenzio che pesa come un corpo addormentato accanto a noi,
che vibra come una corda tesa fra due solitudini
che non vogliono più essere separate.

E in quel silenzio
sentiremo il suono dimenticato
della parola che ama.
Una parola che non definisce,
ma invoca.
Che non argomenta,
ma trema.
Che non spiega,
ma accende.

Una parola che sanguina e consola.
Che inciampa,
che sussurra,
che ride piano.

Una parola che è carezza,
e promessa,
e domanda che non esige risposta.

Sarà quella parola —
e non le altre —
a ridarci il mondo.

Un mondo meno chiaro,
ma più abitabile.
Un mondo dove ogni sillaba sia una soglia,
e non un recinto.
Dove il dire torni ad avere pudore.
Dove ogni “tu” sia reale.
Dove nessuno voglia più avere l’ultima parola
perché la parola vera,
quella che vale,
non chiude,
ma apre.
E chi apre,
ama.

E allora —
non ci sarà più bisogno di essere visti.
Basterà essere toccati.
Toccati da una frase che cade lenta come neve su un deserto,
che ci avvolge
senza chiedere nulla,
che ci chiama
senza volerci possedere.

E là — in quell’istante senza notifica —
finalmente liberi,
finalmente vivi,
sapremo tacere
e in quel tacere,
parlare.