sabato 3 maggio 2025

Jorge, Malachia e Salvatore in "Il nome della rosa" (1986): Tre incarnazioni dell'oscurantismo medievale

Il nome della rosa (1986), diretto da Jean-Jacques Annaud, non è semplicemente un adattamento cinematografico del celebre romanzo omonimo di Umberto Eco, ma si configura come un’opera autonoma, un complesso affresco storico-filosofico che riesce a trasporre sul grande schermo i molteplici livelli di lettura del testo letterario, senza mai rinunciare alla propria identità espressiva. Il film, infatti, non si limita a raccontare un’indagine investigativa in un’abbazia medievale, ma si addentra nei meandri più profondi della dialettica tra sapere e potere, tra verità e dogma, tra libertà di pensiero e repressione. La sua forza risiede nella capacità di fondere il thriller gotico con una riflessione filosofica acuta e implacabile.

L’ambientazione è quella di un’abbazia benedettina del XIV secolo, immersa in un’atmosfera cupa, sospesa tra nebbie, silenzi e ombre che sembrano farsi carne. Il mistero che avvolge una serie di omicidi inquietanti non è che l’espediente narrativo per introdurre lo spettatore in un mondo dominato dalla paura, dalla superstizione e da una rigida gerarchia ecclesiastica che si nutre del controllo e dell’occultamento. Ma oltre l’impianto da giallo medievale, si sviluppano questioni ben più profonde: il ruolo della conoscenza nella società, la censura imposta in nome della fede, e l’oscurantismo culturale che soffoca il progresso e la coscienza individuale.

In questo contesto carico di tensione ideologica e simbolica, le figure di Jorge da Burgos, Malachia da Hildesheim e Salvatore si stagliano come presenze emblematiche. Essi non sono soltanto personaggi funzionali alla trama, ma veri e propri archetipi: rappresentano diverse forme della paura del sapere, del rifiuto della ragione e dell’abbandono dell’umanità in nome della fede cieca. Interpretati con forza evocativa da Fëdor Fëdorovič Šaljapin, Volker Prechtel e Ron Perlman, i tre personaggi diventano strumenti narrativi attraverso i quali il film articola una critica feroce al fanatismo e alla manipolazione del pensiero.

Jorge da Burgos – Il custode cieco della verità proibita

Jorge da Burgos è il cuore nero del film. Interpretato da un inquietante Šaljapin, è un monaco anziano, cieco, ma dotato di una lucidità feroce e spietata. La sua cecità fisica, lungi dall’essere una semplice condizione biologica, si fa metafora potente della sua cecità interiore: Jorge è incapace di contemplare qualsiasi verità che non coincida con il dogma. La sua mente, chiusa come un libro proibito, riflette un modo di intendere la religione come puro strumento di dominio e di controllo. Per lui, la conoscenza è un veleno sottile, un agente sovversivo che può minare le fondamenta stesse dell’ordine costituito.

Jorge incarna il terrore della risata, dell’ambiguità, del dubbio. È il custode del "secondo libro della Poetica" di Aristotele, che tratta della commedia, e lo nasconde, lo avvelena, lo rende fatale. In questo gesto c’è tutto il rifiuto per un mondo che pensa, che ride, che si emancipa dalla paura. Il riso, secondo Jorge, dissolve l’aura del sacro, svuota la minaccia del dogma, e dunque deve essere estirpato. La sua battaglia non è contro un testo, ma contro l’idea stessa di libertà di pensiero.

La tensione con Guglielmo da Baskerville (Sean Connery), l’investigatore razionale e umanista, è il vero asse filosofico del film. Guglielmo incarna la fiducia nella logica, nella scienza, nell’osservazione come strumento per avvicinarsi alla verità. La sua presenza in abbazia è destabilizzante: ogni sua azione scardina il sistema di paura su cui Jorge fonda il proprio potere. Lo scontro tra i due non è solo intellettuale, ma simbolico: è il duello tra l’ombra e la luce, tra il silenzio e la parola, tra la morte della ragione e il suo risveglio.

La fine di Jorge è epica e disperata. Quando si rende conto che il segreto che ha custodito per tutta la vita sta per essere rivelato, decide di distruggere tutto: sé stesso, la biblioteca, il sapere stesso. La sua morte, tra le fiamme, con le pagine del libro ancora fra le mani, è il parossismo del fanatismo: preferisce l’annientamento all’ammissione del dubbio. È un suicidio ideologico, una confessione involontaria della fragilità del dogma.

Malachia da Hildesheim – Il zelante esecutore del volere di Jorge

Malachia da Hildesheim, interpretato da Volker Prechtel, è il braccio che esegue, l’ombra che agisce. A differenza di Jorge, non elabora dottrine, non filosofeggia. Egli obbedisce. Ed è proprio questa obbedienza cieca, meccanica, che lo rende inquietante. Malachia è il prototipo del funzionario ecclesiastico, dell’uomo che rinuncia a pensare per essere strumento della volontà altrui. In lui non c’è malvagità consapevole, ma una dedizione assoluta alla gerarchia, una sottomissione che lo svuota di umanità.

Malachia è la cinghia di trasmissione tra il potere e la violenza. È lui che nasconde, copre, insabbia. È lui che perseguita Guglielmo, che diffonde sospetti, che impedisce la libera circolazione delle idee. Il suo zelo, travestito da pietà religiosa, è in realtà puro meccanismo di controllo. La sua figura ci parla di tutti quegli uomini che, nella storia, hanno servito regimi e ideologie senza mai porsi una domanda. È la banalità del male in versione monastica.

La sua fine, come quella di Jorge, è un atto di autodistruzione. Quando capisce che il castello di menzogne sta crollando, non trova altra via d’uscita che il suicidio. Non può sopportare la colpa, ma ancor più non può sopportare di vivere in un mondo in cui le sue certezze sono crollate. La sua morte è muta, ma profondamente significativa: è il gesto finale di un uomo che non ha mai imparato a essere libero.

Salvatore – Il reietto dalla società e l’ultimo martire

Salvatore, interpretato con disperata intensità da Ron Perlman, è il volto deformato dell’eresia, il testimone vivente di un mondo alternativo che è stato sconfitto, perseguitato, ridotto al silenzio. Ex dolciniano, ex ribelle, ex uomo, Salvatore è la creatura inumana che la Chiesa ha generato e poi scacciato. La sua lingua spezzata, il suo corpo contorto, la sua mente confusa sono gli effetti di una repressione che non colpisce solo le idee, ma i corpi stessi. Salvatore è un sopravvissuto, ma non un redento.

Nel film, Salvatore è un personaggio ambiguo: non del tutto innocente, ma profondamente vittima. La sua colpa non è l’eresia, ma l’essere ciò che la Chiesa non può tollerare: un residuo del dissenso, un resto della rivolta. Egli vaga per l’abbazia come un fantasma, cercando un senso, un rifugio, una redenzione che sa di non poter ottenere. Il suo destino è segnato fin dall’inizio, perché in un sistema che non contempla la pietà, la sua esistenza è un crimine.

Il momento del rogo è uno dei vertici emotivi del film. Salvatore, condotto al patibolo dall’inquisitore Bernardo Gui, non ha scampo. La sua morte è spettacolo, è monito, è propaganda. La fiamma che lo consuma è quella che ha bruciato migliaia di eretici, di donne, di pensatori. Ma nel suo grido c’è qualcosa che sfugge al potere: una disperazione che si fa memoria, che si fa ammonimento per lo spettatore.

La vittoria del sapere sulla paura

Jorge, Malachia e Salvatore non sono solo figure narrative, ma rappresentazioni di un sistema: quello dell’oscurantismo, del fanatismo, del terrore che la verità possa liberare gli uomini. Ognuno a modo suo, incarna un volto della repressione: l’intellettuale che nega il pensiero, il servo che obbedisce senza riflettere, il diverso che viene sacrificato per mantenere l’ordine.

Eppure, il film di Annaud, come il romanzo di Eco, non è un’opera disperata. Al contrario, è una riflessione profonda ma attraversata da una luce sotterranea: quella della ragione, della ricerca, del desiderio umano di conoscere. Guglielmo da Baskerville non è solo un protagonista, è un modello, una figura di resistenza. E la sua sopravvivenza, alla fine del film, è un segnale: il sapere, anche se osteggiato, anche se bruciato, risorge.

La biblioteca va in fiamme, ma il pensiero non può essere incenerito. I persecutori cadono, e con loro il loro sistema di potere. La storia avanza, e porta con sé nuove domande, nuovi dubbi, nuove libertà. Il nome della rosa, nella sua densità e nella sua cupezza, è anche una dichiarazione di fede nella forza dell’intelligenza. E, come le ultime parole del romanzo, anche il film ci lascia con un enigma: ma un enigma che invita, non che reprime. Un invito a cercare, sempre, oltre la paura.


Procedo ora con il confronto tra Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud e il romanzo di Umberto Eco. Seguirà un'analisi che indaga più in profondità differenze narrative, tematiche, strutturali, linguistiche, simboliche e ideologiche, per restituire tutta la ricchezza dell’opera letteraria e la complessità del suo adattamento filmico.


“Il nome della rosa”: l’incontro (e lo scontro) tra letteratura e cinema

Il romanzo Il nome della rosa, pubblicato nel 1980, segna l’esordio narrativo di Umberto Eco, semiologo, filosofo e critico letterario. L’opera si impone da subito come un romanzo labirintico, un giallo erudito e insieme una riflessione sull’interpretazione, la memoria, la verità e la fine delle certezze. L’adattamento cinematografico di Jean-Jacques Annaud, uscito nel 1986, tenta la difficile impresa di trasporre un romanzo densissimo, strutturato su più livelli, in un film di poco più di due ore. In questo sforzo di sintesi, il regista opera scelte narrative e simboliche radicali, privilegiando l’aspetto investigativo della vicenda e il potere evocativo dell’immagine, a scapito di molte delle stratificazioni testuali e filosofiche dell’originale.

Il giallo come superficie e come struttura

Una delle differenze più evidenti riguarda la funzione del genere giallo. Nel romanzo, il mistero dei delitti nell’abbazia è soltanto la superficie visibile di una complessità ben più vasta: il delitto è un pretesto per riflettere sull’interpretazione, sulla decifrazione dei segni, sull’ambiguità delle verità possibili. Eco costruisce un testo volutamente ambiguo, falsamente medievale, in cui ogni indizio è potenzialmente un depistaggio, e ogni spiegazione razionale un’illusione. Il lettore è chiamato a decifrare, a sbagliare, a rimettere in discussione le proprie certezze.

Il film, per necessità di ritmo e chiarezza, accentua invece l’aspetto investigativo. Il mistero viene affrontato e risolto secondo i canoni classici del poliziesco: un detective (Guglielmo da Baskerville, interpretato da Sean Connery) indaga, raccoglie indizi, risolve il caso. Annaud restituisce l’atmosfera gotica e opprimente dell’abbazia, la tensione dei delitti e la minaccia dell’inquisizione, ma semplifica la complessità epistemologica del romanzo. L’abbazia, che in Eco è un gigantesco palinsesto di segni da decifrare, nel film diventa più linearmente un luogo di mistero e morte.

Guglielmo da Baskerville: detective, razionalista, fallibile

Il personaggio di Guglielmo è al centro di entrambe le narrazioni, ma con ruoli sfumati in modo differente. Nel romanzo, Guglielmo è un ex inquisitore inglese, razionalista e nominalista, che incarna la fede nella logica e nell’osservazione, ma anche la consapevolezza dei limiti della conoscenza. È un uomo che ama ridere, che crede nel dubbio come forma di sapere, ma che alla fine è costretto a riconoscere il fallimento del proprio metodo. La biblioteca brucia, il libro scompare, la verità si dissolve. La verità, come scrive Eco, "ha il volto di una rosa, che svanisce nel nome".

Nel film, Sean Connery presta a Guglielmo il carisma di un detective brillante e risoluto. L’accento è posto più sull’efficacia del suo metodo che sui suoi limiti. Pur mantenendo una certa ironia e distanza critica, il Guglielmo cinematografico è meno tormentato, più attivo, più assertivo. È un eroe razionale in un mondo irrazionale, che sembra dominare la scena più di quanto non faccia il Guglielmo libresco, il quale è costantemente messo in scacco dalla realtà. Il film tende quindi a rafforzare la figura del protagonista come vincitore morale, mentre Eco ne fa un testimone del naufragio di ogni certezza.

Adso: da narratore riflessivo a testimone silenzioso

Un altro aspetto importante riguarda il ruolo di Adso da Melk. Nel romanzo, Adso è non solo il protagonista giovane che assiste alle indagini del suo maestro, ma anche il narratore anziano che rievoca, molti anni dopo, gli eventi dell’abbazia. La sua voce è intessuta di malinconia, di dubbio, di consapevolezza del fallimento. Il romanzo è dunque una memoria: Adso scrive per trattenere ciò che è perduto, e il racconto è segnato dal senso dell’effimero, del tempo che consuma ogni significato.

Nel film, Adso perde la dimensione del narratore anziano (se non in una fugace cornice iniziale) e diventa soprattutto l’osservatore degli eventi. Christian Slater interpreta un adolescente ingenuo e curioso, che vive una breve e traumatica iniziazione alla vita adulta, all’amore e alla morte. Il suo rapporto con la ragazza (anonima) del villaggio è raccontato con maggior enfasi nel film rispetto al romanzo, ma il senso simbolico dell’incontro amoroso – nella scrittura di Eco, un evento ambiguo e sfuggente – viene ridotto a una parentesi sentimentale. La perdita dell’amata, nel romanzo, è priva di parole, irredimibile; nel film, assume i contorni romantici di un addio struggente, ma più convenzionale.

L’universo filosofico e teologico: dalla disputa al silenzio

Uno degli aspetti più sacrificati nell’adattamento è il cuore teorico e teologico del romanzo. Le dispute sul riso, sul potere, sull’eresia, sul valore della parola, sulla biblioteca come luogo di controllo e sapere, sono nel libro lunghe e complesse. I dialoghi tra Guglielmo e Ubertino, o tra Guglielmo e Jorge, sono esercizi di alta dialettica, e la questione del riso (legata al libro perduto di Aristotele) è una riflessione sul rapporto tra verità e comicità, tra religione e libertà.

Nel film, queste dispute sono accennate ma semplificate. Jorge da Burgos, interpretato da Feodor Chaliapin Jr., conserva il ruolo di fanatico custode del sapere proibito, ma la sua ideologia viene resa più schematica. Il suo terrore per il riso è mostrato più che argomentato, e il libro velenoso viene trattato come un oggetto magico, più che come un simbolo epistemologico. Il film riesce a evocare la tensione tra sapere e potere, ma senza esplorarla nei suoi risvolti più profondi.

L’inquisizione e il male istituzionale

La figura dell’inquisitore Bernardo Gui è significativamente diversa. Eco lo presenta come un personaggio storico complesso, un burocrate del male, feroce ma anche astuto. La sua presenza nel romanzo è limitata a pochi capitoli, ma carica di tensione. Nel film, Bernardo Gui (Franco Nero) diventa un vero e proprio antagonista, una sorta di villain crudele e implacabile, che giustizia Salvatore e la ragazza, e che insegue Guglielmo fino alla fine. La sua morte spettacolare, mentre precipita nel vuoto, è una concessione cinematografica assente nel libro. Eco, da storico delle idee, evita una giustizia narrativa; Annaud, da cineasta, la cerca per forza di coerenza drammatica.

La biblioteca: da labirinto di segni a trappola visiva

La biblioteca è forse l’elemento che meglio incarna la differenza tra i due linguaggi. Nel romanzo, è un labirinto semiotico, un’arena dell’interpretazione dove ogni percorso è potenzialmente fallace. È un omaggio al labirinto di Dedalo, ma anche alla Babele della conoscenza infinita. Eco costruisce la biblioteca come un personaggio, un luogo vivente che si nega e si offre al tempo stesso.

Nel film, Annaud restituisce la vertigine visiva del labirinto con grande efficacia: i corridoi angusti, le torri, gli specchi, le scale, contribuiscono a creare un ambiente claustrofobico e simbolico. Ma la biblioteca cinematografica è soprattutto una trappola fisica, un meccanismo gotico che punisce chi cerca troppo. Il sapere, qui, è pericoloso perché intrappola e uccide; nel romanzo, è pericoloso perché destabilizza. La trasposizione visiva semplifica la metafora per esigenze narrative, ma conserva un forte impatto iconografico.

Due opere, due esperienze

In definitiva, Il nome della rosa di Annaud è un’opera compiuta e coerente nel suo linguaggio cinematografico. Evocativa, atmosferica, capace di condensare temi filosofici e tensione narrativa, il film si distingue come un raro esempio di adattamento colto e ambizioso. Ma rispetto al romanzo, la sua profondità concettuale è inevitabilmente più contenuta. Eco costruisce un testo aperto, polifonico, volutamente inestricabile, dove ogni parola rinvia ad altro, dove la verità è sempre provvisoria e sfuggente. Annaud costruisce un film chiuso, ordinato, affascinante, in cui lo spettatore, pur inquieto, giunge a una soluzione, a un senso.

Se Eco ci invita a dubitare di ogni significato, a ridere davanti all’autorità, a perderci nel labirinto dei segni, Annaud ci guida con mano più ferma verso una conclusione morale. Eppure, proprio in questo differente atteggiamento verso la verità – una come illusione, l’altra come scoperta – risiede il fascino del confronto. Il romanzo è un’esplorazione vertiginosa del limite; il film, una messa in scena delle sue conseguenze. Due esperienze estetiche e cognitive differenti, complementari, che continuano a dialogare attraverso gli occhi, le parole, e la memoria.


Il latino e la liturgia: tra senso e suono, tra enigma e spettacolo

L’uso del latino e della liturgia ne Il nome della rosa rappresenta un terreno di confronto fondamentale tra la scrittura di Umberto Eco e la trasposizione cinematografica di Jean-Jacques Annaud. Il latino non è, in quest’opera, una semplice scelta filologica, né un mero vezzo di verosimiglianza storica: è il linguaggio di Dio, dell'autorità ecclesiastica, della ragione monastica e al contempo dell’oscurità del mistero. È lingua sacra e codice esoterico, è canto e anatema, è il suono del potere e l’eco del silenzio.

Nel romanzo: il latino come ostacolo, filtro e verità

Nel romanzo, Eco adotta il latino con una radicalità che va ben oltre la ricostruzione d’ambiente. L’uso della lingua ecclesiastica e scolastica è costante, invasivo, intricato. Si trovano nel testo lunghe citazioni in latino – da Salmi, Vangeli, testi giuridici, filosofici, liturgici – che non vengono tradotte, e che spesso appaiono senza mediazione alcuna. Non c’è nota a piè di pagina, non c’è indulgenza per il lettore che non sia già attrezzato. Questo non è snobismo: è una scelta deliberata. Eco costruisce un Medioevo che non si lascia addomesticare, che non si fa popolare né accessibile. Il latino è un muro di pietra, e l’abbazia stessa è fatta della stessa materia di quel muro: se vuoi penetrare il mistero, devi scalfirlo, decifrarlo, impararne la grammatica. Come per la biblioteca, così per la lingua: chi non conosce, resta prigioniero.

Non solo: il latino, nel romanzo, è anche metalinguaggio. È la lingua in cui si dibatte, si disputa, si formula la verità teologica e giuridica. Il processo inquisitoriale, ad esempio, si svolge secondo uno schema preciso, in latino, codificato. Chi domina quel codice ha il potere. Guglielmo da Baskerville può sfidare l’inquisitore Bernardo Gui perché ne padroneggia le regole: è un gioco di logica, sì, ma anche un gioco di formule, di sintassi, di interpretazione retorica. Adso, invece, in molti momenti si limita ad ascoltare senza capire: come noi lettori, si muove nella penombra di un linguaggio che si fa rivelazione e mascheramento insieme.

La liturgia, poi, nel romanzo, è uno dei cardini temporali e spirituali del mondo monastico. Ogni ora del giorno è regolata dai Divini Offici, e non c’è evento, né profano né tragico, che sfugga a questa griglia. Le ore canoniche (Mattutino, Lodi, Terza, Sesta, Nona, Vespri, Compieta) scandiscono il ritmo narrativo e psicologico. Il monastero è, prima ancora che uno spazio fisico, una macchina liturgica: gli eventi accadono “durante i Vespri”, “dopo le Lodi”, “prima di Sesta”. Il tempo umano si dissolve, sostituito da un tempo liturgico, circolare, eterno. Questa scansione ha una funzione quasi cosmica, che Eco erige come metafora del potere della Chiesa: dominare il tempo equivale a dominare l’essere.

In questa cornice, i canti, le antifone, le lamentazioni in latino diventano musica dell’invisibile. Quando i monaci si raccolgono per celebrare, la lingua che pronunciano è quella degli angeli e dei martiri, ma anche quella dei tribunali e delle scomuniche. È il Verbo che salva e condanna, che consola e brucia.

Nel film: il latino come suono, la liturgia come teatro

Jean-Jacques Annaud compie, nell’adattare il romanzo, una scelta diametralmente diversa. Benché mantenga l’uso del latino in alcune scene – e anzi lo rivendichi con forza – ne cambia radicalmente la funzione. Il latino, nel film, è una lingua intraducibile, che viene lasciata così com’è, senza sottotitoli, immersa nell’ambiente. Non è più veicolo di un messaggio preciso, ma suono drammatico. Si trasforma in atmosfera, in elemento acustico. I canti gregoriani, i salmi sussurrati, le formule inquisitoriali non chiedono di essere comprese: chiedono di essere temute, ammirate, percepite.

Questa trasformazione non è una semplificazione: è una reinvenzione cinematografica. Annaud costruisce il film sulla potenza sensoriale del Medioevo, più che sulla sua decodifica intellettuale. E così il latino diventa una sorta di rumore sacro, un’eco dell’Assoluto. Le voci che salgono dalle navate, le nenie che accompagnano le processioni funebri, i gridi solenni che aprono le udienze inquisitoriali sono orchestrati come una sinfonia visiva e sonora. Anche le parole più oscure, più ermetiche, sono funzionali a un effetto: non devono chiarire, devono inquietare.

Il grande merito di Annaud è quello di aver restituito, con il suo uso del latino, il potere dell’incomprensibilità. Dove Eco ci chiede di leggere e tradurre, Annaud ci chiede di ascoltare e tremare. La lingua latina, nella sua versione filmica, è una voce del tempo, come il vento o l’acqua o il silenzio. Non ci serve capirla per esserne sopraffatti.

La liturgia, in questo contesto, diventa spettacolo visivo. Il film è disseminato di scene che evocano la solennità del rito: le messe, le genuflessioni, l’incenso, le croci che fendono l’oscurità, le mani giunte. Ogni atto liturgico è coreografato con una precisione quasi mistica. Il corpo del monaco, in preghiera, è parte del rito quanto la parola che pronuncia. L’estetica del sacro prende il sopravvento sulla teologia, e così la fede si trasforma in teatro. Ma non un teatro frivolo: un teatro ieratico, in cui la luce filtra dall’alto come una grazia, e ogni gesto è antico come l’Apocalisse.

Due prospettive opposte, due verità sul sacro

In ultima analisi, l’uso del latino e della liturgia ne Il nome della rosa ci parla della differenza profonda tra due linguaggi artistici. Eco ci consegna un Medioevo da decifrare: la lingua è parte dell’enigma, del labirinto, del codice perduto. Annaud, invece, ci offre un Medioevo da percepire: la lingua è parte dell’incantesimo, del buio, del sogno visivo. In entrambi i casi, il latino è una soglia: in un caso ci obbliga a varcarla, nell’altro ci seduce e ci avvolge, lasciandoci in una condizione di sottomissione estatica.

Eppure, al centro di entrambe le visioni, resta la stessa verità: che la lingua del sacro – il latino liturgico – è lo strumento più potente per dire l’indicibile, per articolare la distanza tra umano e divino, tra sapere e ignoranza. È la lingua delle regole e dei miracoli, del Logos e del fuoco. È la lingua che, ancora oggi, ci affascina perché non ci appartiene più: e proprio per questo, continua a parlarci.


Il latino come codice esoterico, sacrale e oppressivo

Nel film di Annaud, la presenza del latino non si limita a una mera ricostruzione filologica o storicista dell’ambiente monastico medievale: è una scelta poetica, strutturale, quasi ossessiva. Il latino non è tanto la lingua franca dell’Occidente cristiano, quanto la lingua dell’accesso al sacro, all’invisibile, all’arcano. Il suo suono, la sua metrica e persino la sua grana fonica costituiscono un fondale acustico che domina il film come un basso continuo liturgico, come il battito profondo di un cuore teologico.

La sua funzione principale è quella di separare, di delimitare. Il latino è la lingua dei libri proibiti, della biblioteca-labirinto, delle dispute filosofiche, delle formule inquisitoriali. È lingua di potere perché è lingua dell’esclusione: solo chi ne conosce i segreti ha accesso alla conoscenza, e quindi alla verità. Ma la verità, in questo universo distorto e cupo, è sempre anche un rischio: sapere troppo, leggere troppo, comprendere oltre il lecito equivale a profanare, e quindi a dover espiare. L’uso del latino da parte dei monaci non è mai democratico. È ieratico, chiuso, intimidatorio.

Ogni parola latina pronunciata ha un che di definitivo, come se evocasse una verità che non può essere discussa, solo accettata. Il latino è dunque lingua della punizione oltre che della preghiera. È la lingua dei processi, dei roghi, delle condanne. Bernardo Gui, nel suo terribile processo contro la ragazza accusata di stregoneria e fornicazione, pronuncia frasi in latino che risuonano come anatemi; parole che, pur non comprese dal pubblico, sono perfettamente comprensibili nella loro funzione: umiliare, giudicare, sopprimere. Il latino assume un’aura magico-sacrificale: è la lingua con cui si invoca Dio, ma anche con cui si fa tacere l’umano.

La liturgia come teatro dell’obbedienza, e il corpo come spettatore forzato

Il film è disseminato di momenti liturgici che non vengono mai trattati con distacco documentaristico. Annaud li filma come cerimonie scenografiche e profondamente inquietanti. Le processioni, le messe corali, le invocazioni rituali non sono né neutre né edificanti. Sono dispositivi coreografici pensati per sottomettere. La messa solenne non è la celebrazione di una fede condivisa, ma la riaffermazione di una struttura gerarchica impenetrabile. Ogni gesto rituale è il riflesso di un’autorità che si riproduce attraverso il corpo dei monaci e dei fedeli, come in un gigantesco spettacolo di automi.

I movimenti lenti e solenni delle funzioni sono scanditi da una gestualità codificata che non lascia spazio all’individuo. Il corpo del singolo è assorbito nel corpo collettivo della Chiesa, e il rito serve esattamente a questo: a dissolvere ogni differenza, ogni desiderio, ogni voce. Il gregoriano, con le sue voci unificate e senza accompagnamento, è la metafora perfetta di questa cancellazione del sé: non vi è armonia, né polifonia, né contrappunto. Solo un’unica linea melodica che richiama l’uniformità dell’ubbidienza.

Eppure, è proprio in questo universo di rigore che si apre lo spazio del dissenso, incarnato dal personaggio di Guglielmo da Baskerville. Guglielmo partecipa ai riti, ma li osserva anche da esterno, come un antropologo. È come se li smascherasse mentre vi prende parte, consapevole che il sacro, nel film, è anche messa in scena, costruzione, disciplina. La sua voce, sempre pacata ma mai cantilenante, è in netta contrapposizione con le voci rituali. Guglielmo è l’unico a parlare in latino non per intimidire, ma per chiarire, per tradurre, per portare luce. Il latino, nella sua bocca, torna a essere lingua viva, razionale, antidogmatica.

Latino e liturgia come esperienza sensoriale: suono, luce, corpo

Una delle conquiste più originali del film è il modo in cui trasforma la liturgia e il latino in esperienza sensoriale integrata. Il suono del latino si fonde con il crepitio delle torce, con il cigolio delle porte dell’abbazia, con il fruscio delle vesti. È una colonna sonora fatta non solo di musica ma di materia. Lo spettatore non ascolta soltanto il latino: lo percepisce, lo assorbe come parte del mondo diegetico. È una lingua che riempie lo spazio fisico del film, che si deposita sulle pietre, sui volti, sui libri.

Questa strategia sinestetica è particolarmente efficace nelle scene in cui il rito si fonde con la paura. Ad esempio, quando i monaci scoprono un nuovo cadavere e si radunano nella chiesa per invocare il perdono divino, il canto liturgico in latino è accompagnato da inquadrature in controluce, fumo d’incenso, volti straziati: lo spettatore è avvolto in un’atmosfera di sacro inquietante. Il rito non consola: inquieta. Non illumina: oscura. E il latino non è più lingua della grazia, ma della maledizione.

Adso, il giovane novizio, rappresenta lo sguardo dello spettatore che prova a decifrare questo mondo. Per lui, il latino è ancora lingua della fede, ma anche della scoperta e del turbamento. Quando recita le sue preghiere, lo fa con una voce bassa, tremante, che trasforma il latino in un linguaggio personale, umano, fragile. Il contrasto con i cori liturgici solenni è enorme: il suo Pater Noster è un balbettio rispetto alla grandiosa liturgia collettiva. Eppure, è proprio in quel balbettio che risuona la verità più autentica: non quella imposta dal rito, ma quella vissuta nella carne.

Un confronto implicito con il romanzo di Eco

Nel romanzo, Umberto Eco usa il latino con più generosità e ironia: lo alterna a lunghe digressioni metalinguistiche, riflette sul significato stesso della traduzione, del segreto, dell’interpretazione. Nel film, tutto questo è invece incarnato, visivamente e sonoramente. Dove Eco scrive e discute, Annaud mostra e fa ascoltare. L’effetto però è simile: in entrambi i casi, il latino è uno spazio mentale e culturale che racchiude il problema del potere, del sapere e della verità.

Eco, d’altronde, gioca spesso sullo scarto tra la lingua usata e la lingua compresa: molti dei suoi passaggi più densi sono in latino, senza traduzione. Il lettore è costretto a cercare, a decifrare, a sentirsi escluso. Annaud rende questo esclusione concreta, materica: lo spettatore sente la propria ignoranza come parte della messinscena. E così facendo, entra anch’egli nel labirinto.

Tra sacro, potere e vertigine sensoriale

L’uso del latino e della liturgia ne Il nome della rosa è un capolavoro di strategia estetica e ideologica. È un linguaggio che parla ai sensi, ma anche alla coscienza. È un’esperienza sonora, visiva, tattile. Ma è anche un atto politico: dire latino è scegliere da che parte stare. È custodire o rivelare, condannare o comprendere.

Attraverso il latino e la liturgia, il film costruisce un universo chiuso, autoritario, sublime nella sua architettura eppure profondamente sinistro. Ma proprio dentro questo sistema, si apre la possibilità del dubbio, della ragione, dell’umanesimo: una possibilità che, come la luce che filtra dalla vetrata del transetto, non può essere fermata. E questa, in fondo, è la lezione più profonda del film.


La colonna sonora si configura come una componente narrativa a tutti gli effetti: non soltanto accompagna le immagini, ma interpreta e struttura il senso del racconto, trasfigurando l’ambiente monastico in un paesaggio sonoro carico di tensione metafisica. La musica composta da James Horner, abile nell’intrecciare strumenti elettronici, orchestrazioni minimali e canti liturgici medievali, si innesta con una finezza quasi filologica nella trama visiva e simbolica dell’opera.

Fondamentale è l’uso dei brani liturgici gregoriani, in particolare quelli legati alla Missa pro defunctis (Messa per i defunti), che costituisce non solo una citazione colta del repertorio medievale, ma una vera e propria chiave semantica: la morte, la decomposizione, il Giudizio, il peccato, il tempo che corrompe e annienta. Tutto questo trova un rispecchiamento musicale in un linguaggio che, pur antico, viene restituito con sensibilità contemporanea. L’effetto è quello di una liturgia fossilizzata, ormai priva di Dio ma ancora colma di paura. L’abbazia è il teatro di un’assenza sacra, e la musica ne è l’eco.


I. Missa pro defunctis: la liturgia della morte come codice narrativo

La Missa pro defunctis è l’archetipo sonoro della colonna sonora. Nel Medioevo, la messa dei morti era uno degli eventi liturgici più solenni e carichi di senso simbolico. Essa si componeva di canti specifici, in latino, che seguivano una struttura precisa: Introito, Graduale, Sequenza, Offertorio, Sanctus, Agnus Dei, Communio, accompagnati da responsori funebri tratti dall’Ufficio dei defunti.

Nel film, molti di questi brani vengono evocati, frammentati, trasfigurati o citati in modo quasi subliminale.

  • “Dies irae” – Questo testo, attribuito tradizionalmente a Tommaso da Celano, è forse la sequenza liturgica più famosa del repertorio medievale. Nel film, la sua melodia non viene mai eseguita integralmente, ma frammenti del celebre tema sono interpolati nella colonna sonora per sottolineare i momenti in cui il giudizio divino si manifesta sotto forma di morte improvvisa o apparente punizione divina (le morti dei monaci, l’ossessione di Jorge per l’Apocalisse). Il tono minaccioso e incalzante del Dies irae diventa una cifra narrativa, più che musicale.

  • “Libera me, Domine” – Responsorio cantato durante l’assoluzione, dopo la messa, viene evocato in modo struggente nei momenti di lutto collettivo o scoperta di un corpo. Horner lo usa come spunto per costruire tensione psicologica e senso del destino: la supplica per la liberazione dal giudizio è resa non come conforto, ma come eco di una condanna inevitabile.

  • “In paradisum” – Anche se non direttamente presente, il brano è alluso nei momenti di maggiore rarefazione spirituale, come la scena finale in cui Adso lascia l’abbazia: qui il registro musicale si fa aereo, etereo, come se la salvezza fosse un’ipotesi vaga, perduta nelle nebbie del tempo.


II. La messa medievale: struttura e disgregazione simbolica

La messa medievale segue un ordine preciso che riflette non solo la struttura del culto, ma anche l’ideologia gerarchica della Chiesa. Essa era divisa in due momenti: la messa dei catecumeni, che comprendeva le letture e la predicazione, e la messa dei fedeli, riservata ai battezzati, con la consacrazione eucaristica.

Nel film, i frammenti di questa struttura sono usati in modo sapientemente destrutturato: la liturgia non è più un ordine salvifico, ma un palinsesto frammentato, dove ogni elemento risuona come eco di un mondo perduto.

  • “Kyrie eleison” – Le invocazioni in greco si sentono nei momenti di preghiera collettiva. Non hanno funzione ascensionale, ma quasi espiano il peso della carne, come se i monaci cercassero misericordia da un Dio che ha smesso di rispondere.

  • “Sanctus” e “Benedictus” – Sono presenti in forma latente nei momenti della messa solenne, quando l’abbate officia. La triplice acclamazione (Sanctus, Sanctus, Sanctus) è spesso spezzata da suoni elettronici cupi o dissonanze, come a suggerire una santità corrotta.

  • “Agnus Dei” – Uno dei motivi più usati da Horner. Il “Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” è un'immagine di martirio e innocenza perduta. La musica insiste su questo tema per creare compassione e inquietudine, soprattutto nelle scene che coinvolgono i monaci più giovani o l'incontro con la ragazza del villaggio.


III. Canti dell’Ufficio divino e antifonari: tempo e preghiera

Oltre alla messa, la vita monastica era scandita dalle Ore Canoniche: sette momenti liturgici che davano ordine al giorno (e alla notte) del monaco. Il film sfrutta questo meccanismo come orologio narrativo, facendo coincidere le tappe dell’indagine con i diversi momenti dell’Ufficio.

  • “Te lucis ante terminum” – L’inno di Compieta, cantato alla fine della giornata, è evocato in scene notturne. Il canto, che implora protezione dal demonio e dai fantasmi del buio, acquista qui un senso quasi ironico, visto che è proprio la notte a portare morte, segreti e inganni.

  • “Veni Creator Spiritus” – Inno di Pentecoste, è usato simbolicamente per rappresentare il desiderio di verità e di illuminazione, soprattutto nei dialoghi tra Guglielmo e Adso, e nella progressiva scoperta dei segreti della biblioteca.

  • Salmi e antifone – Cantati con tono monocorde e cupo, spesso in latino non tradotto, servono a restituire l’alienazione linguistica e spirituale di un mondo dove il sacro si è trasformato in superstizione. La funzione reale della parola liturgica sembra essersi persa, e i salmi diventano riti esecutivi, vuoti e reiterati.


IV. James Horner: contaminazione e reinvenzione del sacro

James Horner non si limita a orchestrare i canti liturgici: li rifonda. Lavora su bordoni elettronici, contrappunti vocali gravi, percussioni minime. Inserisce dissonanze, frammenti di melodia gregoriana deformati, e soprattutto silenzi. La musica è spesso interrotta, come se Dio stesso si rifiutasse di parlare. Il suono diventa materia architettonica, come la pietra fredda dei chiostri, come il vetro delle ampolle velenose. Ogni nota sembra chiedere: dove sei, Signore?

Nel contesto del film, il linguaggio musicale svolge quindi una triplice funzione:

  1. Filologica – Richiama il mondo liturgico autentico del XIV secolo.
  2. Simbolica – Esprime lo smarrimento del sacro e l’ossessione per la morte e il peccato.
  3. Narrativa – Accompagna i momenti chiave del mistero, suggerendo letture parallele e commenti impliciti alla storia.

Sì può dire che Il nome della rosa non utilizza la musica come semplice sfondo. La colonna sonora è un codice esegetico: ci insegna a leggere il film come si legge un manoscritto miniato. Tra le righe delle antifone e dei salmi si cela un’idea precisa di tempo, di morte, di fede, e soprattutto di dubbio. James Horner ci consegna una partitura che non accompagna le immagini, ma le interroga. E, come il labirinto della biblioteca, risponde con un’eco.


PROPONGO ORA UN CONFRONTO nella complessità analitica e nell’intreccio dei livelli di lettura tra Il nome della rosa di Umberto Eco e il film di Jean-Jacques Annaud. Esplorerò alcuni strati tematici, concettuali e stilistici, differenziando le scelte narrative, semiotiche e ideologiche.


1. Due opere, due ambizioni

Quando Umberto Eco pubblica Il nome della rosa nel 1980, irrompe nel panorama letterario con un’opera che è al tempo stesso romanzo storico, giallo medievale, trattato di semiotica, critica della ragione, e riflessione metanarrativa sulla natura della conoscenza. Quando Jean-Jacques Annaud porta al cinema l’adattamento nel 1986, l’intento è molto diverso: realizzare una pellicola visivamente potente, accessibile, di grande impatto drammatico, che restituisca l’aura gotica e oscura del Medioevo, ma sacrificando molte delle stratificazioni intellettuali del testo di Eco.

In questo contrasto sta il cuore del confronto: il romanzo è costruzione di senso che continuamente si nega e si rifrange, il film è costruzione di atmosfera che si fonda su immagini potenti, su una dicotomia bene/male più netta e su una narrazione in senso classico.


2. Il sapere, il potere e il riso

Nel romanzo

Nel testo di Eco, la biblioteca è il cuore del mistero: labirintica, semiotica, e inaccessibile non solo fisicamente ma epistemologicamente. Ogni libro è un segno che rinvia ad altri segni, e l’atto della lettura è un continuo decifrare che si confronta con l’inesattezza, con l’errore, con l’ambiguità. La biblioteca è anche metafora del mondo: il mondo come testo, come codice da decifrare. Ma Eco mette in crisi proprio questa idea: il codice non è mai completo, e la verità non si possiede, si insegue.

Il libro proibito — la seconda parte della Poetica di Aristotele, che loda la commedia e il riso — è l’oggetto simbolico della libertà. Il riso è ciò che può spezzare l’ordine dogmatico, ciò che relativizza, ironizza, desacralizza. Per questo è temuto. Ma la censura che si abbatte su questo sapere comico è anche un atto di violenza ontologica: negare il riso significa negare la molteplicità del senso, la fallibilità, la libertà di ridere della morte e della religione.

Dietro la figura di Jorge da Burgos, il monaco cieco custode della biblioteca, Eco costruisce un doppio rovesciato: Borges — l’autore, il bibliotecario, il cieco veggente — è qui rappresentato come il difensore della verità unica e impenetrabile. Jorge brucia i libri per conservare il dogma, e in questo si rivela emblema dell’ossessione per l’unità del senso: è l’antitesi di Guglielmo, che invece rappresenta il dubbio, la molteplicità, la tolleranza del possibile.

Nel film

Nel film, tutto questo viene semplificato, ma non negato. Il libro proibito è sempre quello di Aristotele, ma il significato simbolico si concentra quasi esclusivamente sul riso come elemento eversivo. Jorge appare come un fanatico, una caricatura del bigotto: meno ambiguo, più lineare. Il film mantiene l’idea che il sapere sia pericoloso per chi detiene il potere, ma riduce il gioco semiotico e teorico: Annaud sceglie di mostrare piuttosto che discutere.

Il riso, nella pellicola, è trattato con più enfasi visiva che concettuale. Guglielmo sorride, ride, mentre gli altri si scandalizzano. Il riso è visto come forma di umanità, ma non è tematizzato come crisi della verità: nel film, fa parte del carattere di Guglielmo, non del destino della conoscenza.


3. Il metodo e la ragione: Guglielmo da Baskerville

Nel romanzo

Guglielmo è un ex inquisitore francescano che ha abbracciato il metodo della logica e della razionalità. È una figura tomistica ma anche ockhamista, nel senso che rifiuta gli assoluti. È un personaggio che fallisce: non riesce a fermare gli omicidi, arriva tardi, e alla fine vede tutto bruciare. Il suo pensiero razionale si infrange contro il caos del mondo. Tuttavia, proprio in questo sta la sua umanità: accetta l’errore, non cerca l’onniscienza.

Eco modella Guglielmo su Sherlock Holmes (non a caso il nome richiama Baskerville), ma lo immerge in un contesto di relativismo gnoseologico: Guglielmo non trova mai tutta la verità. È la figura del razionalista che ha abbandonato l’idea della verità assoluta. Adso lo guarda con venerazione, ma la narrazione — ricostruita a distanza di decenni — è piena di dubbi e nostalgia.

Nel film

Annaud lo rende più vincente, più eroico. Sean Connery interpreta Guglielmo come un uomo brillante, ironico, astuto, con un piglio quasi paterno. Le sue deduzioni ricordano più quelle di Holmes che quelle di un pensatore medievale. È un personaggio positivo, che porta luce nel buio.

Il film attenua il fallimento di Guglielmo: anche se non riesce a salvare il libro né la biblioteca, resta il trionfatore morale, colui che ha capito, che ha visto giusto. Questo riduce la forza del messaggio di Eco: che la verità sfugge, che ogni sapere è incompleto.


4. Il senso della perdita e del labirinto

Nel romanzo

Il nome della rosa è una meditazione sulla perdita: della conoscenza, dell’amore, della memoria. Adso, ormai vecchio, ricorda gli eventi come in sogno. La biblioteca brucia, il libro scompare, e resta solo il nome. Il titolo stesso è una riflessione filosofica: “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” — la rosa resta solo nel nome, possediamo solo nomi nudi. È un’epigrafe sul vuoto semantico: la realtà si dissolve, resta solo il linguaggio, spettrale e fragile.

Il labirinto è centrale: non solo come spazio fisico, ma come concetto. Il sapere è un labirinto, e noi siamo ciechi, o semiciechi. Ogni risposta genera altre domande. Il romanzo è il resoconto di un fallimento: la conoscenza, l’amore (la ragazza amata e mai più rivista), la memoria (distorta, confusa, incerta). Eco non offre consolazioni.

Nel film

Il labirinto è reso magistralmente in chiave scenografica. La biblioteca è un luogo fisico, terrificante, pieno di passaggi e trappole. Annaud dà grande spazio alla sua potenza visiva: il fuoco che la divora è epico. Tuttavia, il labirinto perde la sua valenza metaforica piena: è il luogo del mistero, non dell’inconoscibile. È un ostacolo che Guglielmo supera, non un enigma del senso.

L’amore perduto — la scena d’amore tra Adso e la ragazza — è nel film un momento di tenerezza e scoperta. Ma manca il senso tragico, malinconico, devastante del romanzo, dove quell’incontro è un abisso e una rivelazione. La ragazza non ha nome, perché è l’assenza fatta carne. Nel film, è solo un passaggio nella crescita del giovane.


5. La Chiesa, l’eresia e il fanatismo

Entrambe le opere raccontano un’epoca di tensione estrema: la lotta tra il papato e l’impero, l’eresia, l’inquisizione. Ma lo fanno con toni molto diversi.

Nel romanzo

Eco dipinge un Medioevo complesso, ricco di sfumature. I francescani vogliono una Chiesa povera, l’impero si oppone al potere temporale del papa, le eresie crescono. Bernardo Gui è un inquisitore feroce ma anche funzionale a un sistema di potere. La violenza religiosa è mostrata come parte di un disegno più ampio, non solo come mostruosità individuale.

L’eresia è anche un pensiero diverso, non solo una colpa. Il monachesimo è sfaccettato: ci sono i fanatici e i sapienti, gli oscurantisti e gli umanisti. Il Medioevo di Eco è pluralista, contraddittorio, vero.

Nel film

Annaud accentua la brutalità. L’inquisizione è il Male con la M maiuscola. Bernardo Gui è una figura caricaturale, un sadico che tortura e brucia. La Chiesa è vista come forza oscura e repressiva, senza ambiguità. È una visione cinematografica potente, ma semplificata: perde la ricchezza del tessuto ideologico.


6. Due modi di leggere il mistero

Il romanzo è una riflessione vertiginosa sulla natura del significato, sulla perdita, sull’impossibilità di possedere la verità. Il film è un racconto teso, visivo, avvincente, con un messaggio più chiaro: la conoscenza libera, la religione opprime.

In sintesi:

  • Il romanzo è un trattato narrativo: cerca di dire che non si può dire tutto. È il racconto di un enigma che si scioglie solo per bruciare.
  • Il film è un giallo filosofico: cerca di dire che la ragione può vincere, che l’oscurità può essere illuminata, ma a caro prezzo.

Tornerò prossimamente su questo testo per dilatarne ulteriormente l’analisi su altri aspetti, esplorare le simbologie visive, scelte di sceneggiatura e la costruzione dei personaggi secondari. 

Per ora, gli appunti si fermano qui.