Vi è una figura che attraversa il tempo con la discrezione ossessiva di una presenza spettrale, una figura familiare e al contempo perturbante, che continua a interpellare il presente anche dopo la propria scomparsa fisica. Pier Paolo Pasolini si impone come tale fantasma culturale: ineludibile, molteplice, inquieto. Ma vi è anche un altro uomo – Walter Siti – che per oltre mezzo secolo ha scelto di non sottrarsi a quella voce che ritorna, ma di affrontarla frontalmente: ascoltandola, dialogandovi, inseguendone le metamorfosi, amandola con feroce intensità, e talvolta rifiutandola con altrettanta determinazione. È da questo rapporto inquieto, teso tra attrazione e repulsione, che scaturisce Quindici riprese, opera pubblicata da Rizzoli nel 2022, che si presenta meno come un libro e più come un dispositivo di evocazione, una forma di possessione critica e affettiva. Più che una raccolta di saggi, si tratta di una lunga e sfaccettata orazione rivolta a Pasolini, un monologo a tratti disperato, a tratti lucidissimo, indirizzato a una figura che è insieme maestro e avversario, padre ingombrante e idolo da abbattere, modello da emulare e soggetto da superare. Pasolini, per Siti, non si riduce mai alla condizione di “autore”: è un orizzonte esistenziale, una lesione della lingua e dell’identità, un pensiero che seduce e insieme ferisce, uno specchio che deforma e restituisce l’immagine del desiderio stesso.
In Quindici riprese, Siti non cerca né di rendere omaggio né di liquidare la figura pasoliniana. Il libro è semmai un tentativo, stratificato e contraddittorio, di tenere il passo con un pensiero che fugge in avanti, che scarta di lato, che si sottrae alla cristallizzazione e alla pacificazione critica. Ogni “ripresa” – termine che allude sia al linguaggio cinematografico che al lessico del pugilato, sia al meccanismo del ricordo che alla reiterazione ossessiva – rappresenta al tempo stesso una reiterazione e una rilanciata riflessione: ogni testo è un capitolo di una lotta intellettuale che non conosce soluzione né epilogo. Il cinema – che entrambi, Siti e Pasolini, hanno profondamente amato e praticato, in ruoli differenti – si configura qui non solo come oggetto, ma come struttura epistemologica: ogni saggio si pone come un'inquadratura che prova, ancora una volta, a cogliere il movimento sfuggente di una figura che, proprio attraverso il proprio apparire, continua a eludere la presa concettuale.
La composizione del volume rispecchia questa complessità: non si tratta di un'opera sistematica né di un trattato organico, ma di un corpus aperto e irregolare, che raccoglie materiali eterogenei scritti nell’arco di cinquant’anni. Vi si ritrovano testi d’occasione, interventi critici, appunti diaristici, confessioni più o meno velate, riflessioni abbozzate che assumono d’improvviso la consistenza di verità profonde. Questo carattere frammentario non ne costituisce un limite, bensì una cifra stilistica e teoretica: il libro non si legge come un saggio tradizionale, ma come una zona di tensione permanente, un campo in cui si incrociano due voci – quella di Siti e quella di Pasolini – senza mai sovrapporsi, ma nemmeno senza mai separarsi del tutto. È, in fondo, una coreografia di fantasmi: un’eco che tenta, con ostinazione e lucidità, di farsi corpo, di acquisire consistenza, di guadagnare una presenza nuova nella parola scritta.
Siti dichiara senza ambiguità che il suo confronto con Pasolini è sempre stato profondamente personale, carnale, strategico. Ogni intervento incluso nel volume non mira tanto a elaborare uno “studio” filologicamente rigoroso, quanto a inscenare una performance intellettuale che ha per posta in gioco lo stesso soggetto che scrive. La critica, in questo caso, si trasforma in un esercizio di esposizione: il critico si mette in scena, si compromette, si mette a nudo. Non interpreta l’altro come oggetto esterno, ma lo assume come parte integrante del proprio dispositivo di senso. Quindici riprese è così una forma di pensiero incarnato, dove l’atto critico diventa esperienza, e l’esperienza diventa scrittura.
In tale dinamica si annida qualcosa di profondamente febbrile. L’atteggiamento di Siti nei confronti di Pasolini è spesso ambivalente, talvolta persino vendicativo. Pasolini è osservato con spietata precisione, dissezionato nei suoi tic retorici e nelle sue pose morali, ridimensionato nella sua pretesa profetica. Ma è anche venerato come poeta visionario, come intellettuale isolato e generoso, come figura tragica del pensiero moderno. Il libro costruisce un’immagine poliedrica e contraddittoria: Pasolini come martire consapevole, come regista “santo” e feticista, come moralista manipolatore e poeta sublime. Ma più che restituire un ritratto definitivo, Siti lo “riprende” – da ogni angolazione, come se ogni saggio fosse una nuova inquadratura cinematografica. Si ha l’impressione di assistere al montaggio infinito di un film impossibile, dove ogni scena riapre il problema invece che chiuderlo. Il cinema, in questo senso, non è solo una metafora, ma la grammatica segreta del libro: ogni ripresa è un nuovo tentativo di riformulare, ricomporre, ripensare.
Ma se la mente è costantemente sollecitata, è il corpo – e con esso il desiderio – a rappresentare il vero centro emotivo e teorico dell’opera. Quindici riprese è un libro attraversato da un’urgenza erotica che non può essere sottaciuta né neutralizzata: l’omosessualità, in queste pagine, non è un dato accessorio, bensì un vettore strutturale del discorso. Non si limita a essere oggetto di analisi o di confessione, ma informa l’intera dinamica critica. Il desiderio – carnale, intellettuale, linguistico – si impone come fondamento instabile e pulsante della riflessione. Quando Siti affronta questo nodo – la sessualità come principio destabilizzante della parola teorica – il testo si accende: si fa fragile, esposto, autenticamente rischioso. In Pasolini, Siti riconosce sia l’antesignano che il traditore, l’alleato e l’avversario: colui che ha reso pensabile un pensiero del desiderio, ma che ha anche istituito i limiti morali e ideologici di tale pensiero. Ne nasce una dialettica serrata, spesso dolorosa, tra identificazione e rigetto.
A legare tutto, vi è una tensione costante tra mimesi e diniego. Siti ha trasformato la relazione con Pasolini in un rituale privato, ma anche in una scena pubblica: una lotta simbolica che si consuma nello spazio della parola scritta. Il loro rapporto, così come emerge dalle pagine del libro, somiglia a un romanzo d’amore conclusosi tragicamente, ma mai davvero terminato: lettere mai spedite, confessioni trattenute, invettive mascherate da analisi, nostalgie dissimulate sotto forma di dissenso. A più riprese, si ha l’impressione che il vero oggetto del libro non sia Pasolini, ma lo stesso Siti: il suo desiderio di essere all’altezza, la sua consapevolezza di non poterlo mai essere pienamente, la sua ferita narcisistica e la sua volontà di superamento. In questo senso, Quindici riprese è anche un’autobiografia critica, un’opera che sfuma i confini tra analisi e autorappresentazione, tra studio e romanzo.
Ciò non toglie che il volume sia attraversato da una limpida capacità analitica. Al contrario: la lucidità con cui Siti affronta l’opera pasoliniana – sia essa poetica, cinematografica o saggistica – è spesso sorprendente. Le letture dei testi poetici si distinguono per finezza interpretativa e originalità; le riflessioni sul cinema penetrano in profondità le contraddizioni del rapporto tra rappresentazione e verità; e la figura dell’intellettuale – in particolare quella del “tragico” intellettuale del Novecento, incarnato da Pasolini – viene decostruita con rigore, fino a rivelarne la componente performativa e insieme necessaria. Ma ogni esercizio teorico, in questo libro, è anche un gesto personale, ogni giudizio un atto di autoimplicazione.
Quindici riprese si configura dunque come un oggetto letterario e critico atipico: un libro necessario proprio perché instabile, perché non si lascia classificare, perché si muove sul confine tra i generi e tra le intenzioni. È un testo che abita la soglia tra la critica e la finzione, tra il saggio e la confessione, tra l’esercizio di lucidità e il moto di vendetta. È una delle operazioni più coraggiose della critica italiana contemporanea, non tanto per ciò che ci dice su Pasolini, quanto per ciò che mette in gioco riguardo a chi ancora oggi osa interrogare la sua figura, e nel farlo accetta di contaminare il proprio sapere con la propria vulnerabilità. È un libro che chiude un ciclo e insieme ne dischiude una costellazione di nuovi, instabili inizi.