venerdì 23 maggio 2025

Ritratti di fluidità: breve storia queer del cinema italiano tra ambiguità, desiderio e rimozione

Anima persa è un film del 1977 diretto da Dino Risi, tratto dal romanzo Un'anima persa di Giovanni Arpino. È un’opera che segna una svolta nel percorso del regista, solitamente noto per la commedia all’italiana: qui si avventura invece nel territorio del thriller psicologico e gotico, contaminato da atmosfere da dramma esistenziale.

Siamo a Venezia, una Venezia spettrale e decadente, che nel film diventa quasi un personaggio a sé: labirintica, cupa, malinconica. Risi ne sfrutta la bellezza morente, i palazzi fatiscenti, i canali oscuri per costruire un clima da incubo silenzioso. La fotografia di Tonino Delli Colli contribuisce con una luce plumbea, soffocata, che accentua l’alienazione.

Tino (Danilo Mattei), un giovane studente torinese, si trasferisce a Venezia per studiare architettura e va a vivere nella casa dello zio Fabio (Vittorio Gassman) e della moglie Elisa (Catherine Deneuve). Ma la dimora nasconde qualcosa di misterioso: strane presenze, rumori, e soprattutto la figura dello zio Berth (perseguitato da un passato oscuro), segregato da anni nella casa, forse pazzo, forse criminale.

Il film indaga i fantasmi della famiglia, il peso della colpa, la follia, la repressione sessuale, l'ambiguità morale. È un racconto di formazione capovolto, dove il protagonista non cresce ma si smarrisce. L'"anima persa" non è solo quella del personaggio nascosto, ma di tutti i protagonisti, specchi deformanti di un’Italia che ha perso la bussola tra modernità e disfacimento borghese.

Vittorio Gassman, sotto la direzione misurata e sinistra di Risi, è straordinario in un ruolo ambiguo, inquietante, pieno di chiaroscuri. Catherine Deneuve è enigmatica, algida, misteriosa – il suo italiano rarefatto aggiunge un senso di straniamento.

Dino Risi dimostra una sorprendente capacità di reinventarsi, lasciando da parte l’ironia per abbracciare un tono cupo e claustrofobico. Ma la sua satira sociale è ancora presente, solo mascherata dal nero: la famiglia borghese come luogo della malattia, l’individuo schiacciato dal passato, le maschere del perbenismo che nascondono traumi.



La casa come simbolo: topografia della psiche

La casa di Anima persa non è semplicemente un luogo, ma una vera e propria mappa simbolica dell’inconscio. I suoi corridoi bui, le stanze chiuse a chiave, i rumori misteriosi che provengono dal piano superiore evocano un universo freudiano fatto di rimozioni, pulsioni sommerse, traumi sepolti.

Lo spazio domestico è labirintico e sfuggente: Tino si muove in una dimora che dovrebbe essere accogliente, ma che invece lo disorienta, lo spia, lo seduce e lo terrorizza. La soffitta, dove è confinato lo zio Berth, diventa l’allegoria del “rimosso”, della parte della famiglia che dev’essere nascosta, segregata – ma che inevitabilmente riemerge. Il sottotesto è chiaramente psicanalitico: la casa è la mente, e Berth è l’Ombra junghiana, la parte inaccettabile che tuttavia plasma l’intero edificio esistenziale.

L'architettura stessa, così veneziana, umida, gotica, instabile, è una metafora della decadenza di una borghesia che ha costruito il proprio potere sull'occultamento della verità. I mobili antichi, la tappezzeria cupa, gli oggetti coperti di polvere diventano reliquie di un passato mai elaborato, sempre pronto a sbriciolarsi.


Una lettura queer: identità nascoste, desideri repressi

Il personaggio dello zio Berth, segregato, considerato “folle” e pericoloso, rimanda con chiarezza a una figura queer repressa. La sua colpa – mai chiaramente definita – appare collegata a un passato scandaloso, forse una sessualità non conforme. La sua presenza invisibile ma pervasiva, il suo vivere nascosto come un “segreto di famiglia”, richiama la sorte delle persone LGBTQ+ in molti contesti familiari tradizionali: amati ma taciuti, accettati solo se cancellati.

Anche il rapporto tra Tino e lo zio Fabio è ambiguo. Fabio è un uomo affascinante, seduttivo, manipolatore. C’è una tensione erotica implicita nei loro scambi, nella protezione eccessiva che lo zio esercita, nella gelosia con cui sorveglia le scelte del nipote. Fabio è un Narciso ferito che proietta su Tino la propria giovinezza e forse anche un desiderio inconfessabile. La stessa Catherine Deneuve, algida e distaccata, appare quasi come una figura intermedia, una Medea che sorveglia e custodisce il patto segreto tra i due uomini.

L’intero film può essere letto come un’allegoria della sessualità repressa: l’irruzione del desiderio nell’ordine borghese provoca fratture, fantasmi, follia. In questo senso, Anima persa è una potente riflessione queer sulla vergogna, sull’occultamento dell’identità, e sulla violenza simbolica della “normalità”.


Confronto con altri adattamenti da Arpino

Giovanni Arpino è stato autore di romanzi che spesso esplorano la malattia morale della famiglia, la solitudine e la cecità del desiderio. Il confronto più diretto va fatto con due adattamenti cinematografici:

  • Il buio in sala: "Profumo di donna" (1974)
    Diretto da Dino Risi e tratto da Il buio e il miele, questo film è molto più conosciuto. Anche qui troviamo un giovane accompagnatore (interpretato da Alessandro Momo) e una figura più anziana (Vittorio Gassman) che lo trascina in un viaggio esistenziale e ambiguo. Il non detto omosessuale è presente anche qui, ma in forma ancora più sotterranea. Tuttavia, Profumo di donna è più aperto alla commedia e all’empatia; Anima persa invece è un urlo strozzato, un dramma gotico.

  • "La suora giovane" (1975) di Bruno Paolinelli
    Tratto dall’omonimo romanzo di Arpino, è un film meno noto, ma interessante per l’indagine sulla femminilità repressa e sull’autorità ecclesiastica. Anche qui il tema del desiderio nascosto – questa volta in una giovane suora – è centrale, e anche qui la società si rivela un carcere ideologico e morale. L’atmosfera è più melodrammatica che gotica, ma la tematica della repressione torna con forza.

In confronto, Anima persa è il più perturbante, il più vicino all’horror psicologico, quello dove l’estetica e l’etica della rimozione sono più radicali. È il film in cui l’opera di Arpino incontra il cinema d’autore europeo, da Polanski a Losey, da Visconti a Chabrol.



Venezia nel cinema degli anni ’70: città della decadenza, specchio dell’inconscio

Negli anni Settanta Venezia smette di essere semplicemente un luogo pittoresco e si trasforma in un paesaggio mentale, in un simbolo stratificato di crisi, morte e identità frantumate. Il suo ruolo nel cinema europeo di quel decennio è profondamente legato alla disgregazione della modernità e alla perdita di riferimenti morali e culturali.

Basti pensare a tre film chiave, quasi un trittico:

  • “Morte a Venezia” (1971) di Luchino Visconti
    Qui la laguna è lo sfondo di un'estetica del disfacimento: la bellezza, la musica, l'arte diventano necrofile, il desiderio si sublima fino a dissolversi. Gustav von Aschenbach è un artista in rovina, e Venezia è il suo specchio liquido. L’acqua e la peste coincidono: l’eros conduce alla dissoluzione.

  • “A Venezia... un dicembre rosso shocking” (1973) di Nicolas Roeg
    Venezia come città labirintica e spettrale, infestata da presenze ambigue. Il lutto e la colpa si incarnano in una trama fatta di visioni e premonizioni. Il reale si dissolve nel simbolico. Roeg la filma come un corpo in decomposizione, erotico e minaccioso.

  • “Anima persa” (1977) di Dino Risi
    Qui Venezia si fa definitivamente teatro psichico. L’acqua ristagna, le pareti grondano segreti, le calli sono arterie del non detto. La città è un palinsesto dove si scrive la rimozione: ciò che non può essere detto, si insinua tra le pietre. Come in Roeg, anche qui la realtà è soggetta a slittamenti onirici, e la casa si fa metafora del corpo, della mente, della nazione stessa.

In tutti questi film Venezia è il contrario del razionale: è il regno del desiderio inconfessabile, della morte che si finge bellezza, della verità che assume la maschera. Una città queer per eccellenza: fluida, riflettente, contorta, femminea e maschile insieme, dove l’identità non è mai fissa.


Narcisismo, desiderio e repressione

Il personaggio interpretato da Gassman è una delle figure più inquietanti del cinema di Risi. Fabio è apparentemente un gentiluomo educato, colto, con una brillante carriera da restauratore. Ma la sua compostezza è una maschera. Dietro l’eleganza borghese si cela un abisso.

Il suo legame con il giovane Tino è costruito su una seduzione ambigua: Fabio lo accoglie, lo introduce al mondo veneziano, gli offre sicurezza – ma nel contempo lo controlla, lo isola, lo rende prigioniero. Non è difficile leggere in questo comportamento un transfert erotico, un desiderio non elaborato che si manifesta sotto forma di protezione soffocante. L’omosessualità repressa di Fabio si manifesta in modo sublimato: nell’arte, nell’ossessione per il restauro (cioè la conservazione del passato, anche quello personale), nella gelosia verso ogni possibile deviazione di Tino.

Il personaggio incarna la figura del “padre simbolico” che rifiuta di cedere il passo: non vuole che il giovane si emancipi, perché ciò significherebbe riconoscere il tempo, la perdita, il desiderio mai espresso. La sua autorità è castrante, eppure piena di fascino. Gassman costruisce un Fabio che ricorda certi ruoli di Dirk Bogarde: carismatico, elegante, ma profondamente malato di sé.

Anche il rapporto con la moglie (Deneuve) è glaciale, teatrale. La coppia è sterile, in tutti i sensi: non c’è passione, non c’è futuro, solo la gestione di un segreto. Il matrimonio sembra una copertura, una facciata borghese che serve a contenere – e quindi a nascondere – ciò che pulsa sotto la superficie: il desiderio omosessuale, la paura della pazzia, il passato scandaloso incarnato da Berth.

In questo senso, Fabio è una figura tragica: un uomo che ha scelto il silenzio, che ha preferito la maschera alla confessione, e che finisce per trasformarsi in carceriere non solo dello zio recluso, ma anche di sé stesso. La sua ambiguità non è un gioco: è una condanna.



Follia come metafora queer: il “diverso” da internare

In Anima persa c'è una presenza che è esclusa, segregata, negata: lo zio Berth, internato vivo nell’ala segreta della casa, muto, incatenato alla follia. Berth è il “fantasma” che tutti negano ma che tutti temono, l’alterità che non può essere mostrata perché destabilizzerebbe l’ordine borghese.

Questa figura può essere letta in chiave psicanalitica (il rimosso che ritorna), ma anche in chiave queer: Berth è il queer esiliato, il desiderio inaccettabile, l’eccesso che la famiglia non può contenere. È l’altro me stesso che Fabio non ha voluto diventare, e che perciò ha sacrificato. Il fatto che Berth sia pittore, artista, e che abbia perso la ragione per aver ucciso il proprio amante (sottotesto chiarissimo) suggerisce che il suo gesto non sia solo un delitto, ma anche un “coming out fallito”, un amore che ha oltrepassato la soglia dell’accettabile.

La casa diventa quindi una macchina repressiva, un teatro freudiano dove il queer è relegato in soffitta, in cantina, nel dietro-le-quinte. L'ossessione per la normalità (Fabio, l'uomo di cultura, la moglie elegante, il giovane ospite da educare) serve solo a mascherare il trauma non elaborato: la soppressione della parte queer della famiglia. Ed è qui che la follia, nel suo essere parola abusata e nebulosa, funziona come etichetta per ogni deviazione dal codice eteronormativo. Il queer diventa “matto” per essere escluso dal consesso sociale. E al tempo stesso il matto è lo specchio segreto del normalizzato: lo dice la sua presenza viscerale, non arginabile.

Non a caso il vero protagonista della narrazione non è Tino, ma quel corpo imprigionato, invisibile, pulsante. Il cinema lo nasconde, ma lo fa parlare attraverso l’architettura, i rumori, gli sguardi. La sua verità – che è insieme erotica e disgregante – viene riconosciuta solo nel finale, quando è troppo tardi: la scoperta non redime, ma condanna.


Gassman negli anni ’70: un corpo che recita la crisi del maschile

Nel cinema italiano degli anni Settanta Vittorio Gassman è più che un attore: è un corpo ideologico, attraversato da tensioni contraddittorie. La sua fisicità – alta, elegante, teatrale – porta con sé l’eco del virilismo fascista, del divismo anni ’50, ma anche della crisi maschile del decennio successivo. È il maschio che non sa più chi è, né come sedurre, né se valga ancora la pena farlo.

Dopo i ruoli da mattatore brillante, Gassman interpreta negli anni Settanta una serie di personaggi lacerati, moralmente ambigui, spesso sconfitti. La sua virilità diventa inquietante, cupa, decadente. In Profumo di donna (1974) è un cieco misogino che ha paura del contatto con l'altro. In C’eravamo tanto amati (1974) è il cinico borghese che ha tradito ogni idealismo. In Anima persa è un uomo imprigionato nel passato, che ha soppresso la parte di sé più autentica. In Caro papà (1979) è un padre borghese travolto dalla violenza politica.

Il suo corpo è sempre più spesso vestito, controllato, imbalsamato: la sessualità, se c’è, è o frustrata o minacciosa. La sua virilità diventa maschera, posa teatrale che non convince più. È il maschio eterosessuale che assiste, con terrore e fascino, alla dissoluzione del suo primato. In Anima persa questo processo è amplificato dalla figura del giovane Tino: un corpo adolescenziale che lo spettatore percepisce come oggetto del desiderio. Gassman lo guarda, lo accarezza, lo seduce col tono di voce: ma è prigioniero del suo stesso autoritarismo.

Gassman incarna la transizione del maschio italiano dal dominio alla crisi, dall’epoca dei padri a quella degli orfani. Il suo corpo, che un tempo era modello, diventa reliquia. E la recitazione stessa – barocca, declamatoria, espressiva – è un ultimo tentativo di mantenere il controllo.



Giovanni Arpino sullo schermo: tre varianti della stessa inquietudine

L’opera di Arpino, densa di ambiguità morali, desideri repressi e atmosfere claustrofobiche, ha sedotto il cinema proprio per la sua capacità di declinare il perturbante in chiave esistenziale. Se Anima persa (tratto da L’anima persa, 1966) mette in scena il trauma familiare come labirinto gotico e sessuato, Il buio e il miele (Profumo di donna, 1974, regia di Risi) e La ragazza di via Millelire (1979, regia di Gianni Serra, tratto da Racconto d’inverno) propongono due declinazioni differenti di quella stessa zona d’ombra che Arpino attraversa ossessivamente: la perdita dell’orientamento morale, il corpo come strumento e prigione, e il maschile in crisi.

Il buio e il miele/ Profumo di donna si costruisce sul corpo ferito, non solo fisicamente (la cecità e l’amputazione del capitano Fausto) ma eticamente: Gassman vi incarna un erotismo misantropico, predatorio, reso ancora più inquietante dal tono raffinato e colto con cui seduce e umilia. È un uomo che odia le donne, ma ha bisogno di loro per esistere. Il suo sarcasmo è la maschera del dolore e dell’impotenza. L’omosessualità, latente, emerge proprio nell’amore ambiguo che lega Fausto al giovane attendente: un amore paternalistico, violento, ma anche segretamente dipendente. Si potrebbe dire che Profumo di donna sia un film sull’incapacità del maschio di sopravvivere a se stesso, alla perdita del proprio potere simbolico, erotico e sociale.

La ragazza di via Millelire, invece, è un’opera minore ma sorprendente, per come anticipa certi temi pasoliniani: l’ossessione del corpo giovane e popolare, la fascinazione per il sottoproletariato, l’ambiguità tra protezione e desiderio. Anche qui c’è un giovane “diverso”, incompreso, sedotto da un mondo che lo schiaccia. Arpino declina la povertà urbana come spazio della violenza, ma anche della sensualità. Il film di Serra lo segue con uno stile documentario che ne accentua il crudo realismo, senza però rinunciare alla dimensione lirica. Qui l’ambiguità sessuale non è tematizzata esplicitamente, ma aleggia nella relazione sbilanciata tra i personaggi: l’adulto e il giovane, il potere e il bisogno.

In confronto, Anima persa è un film più ellittico, quasi mitologico: Venezia lo sospende in una dimensione fuori dal tempo, mentre i due film citati mantengono un contesto realistico e borghese. Ma il sottotesto è lo stesso: l’impossibilità di confessare il proprio desiderio, e la crudeltà di chi tenta di seppellirlo.


Gassman regista: dalla maschera all’autopsia del maschile

Quando Gassman passa alla regia – in particolare con Kean (1979), Di padre in figlio (1982), Senza famiglia, nullatenenti cercano affetto (1972) – abbandona la figura del mattatore per entrare in territori più fragili, dolorosi, scoperti. Il suo è un cinema autoanalitico, dove il corpo maschile – il suo, ma anche quello del figlio Alessandro – diventa materia di una riflessione profonda sul fallimento, l'identità, la trasmissione del potere e dell'amore.

In Di padre in figlio la crisi del patriarcato si fa carne viva: la relazione reale e simbolica tra Vittorio e Alessandro Gassman viene mostrata senza retorica, con crudeltà e tenerezza. Il padre è un colosso in disfacimento, il figlio una figura inquieta, ancora senza volto. Il film è una seduta psicoanalitica in pellicola: il narcisismo del genitore, l’inadeguatezza ereditata, il trauma che non si trasmette in parole ma in posture. È forse l’opera più apertamente queer di Gassman, pur non parlando mai di omosessualità: è queer nel senso in cui mette in crisi ogni struttura normativa dell’identità maschile. La mascolinità non è più potere, ma rovina.

Gassman come regista non è indulgente con se stesso: non cerca di redimersi, ma di esporsi. Il corpo – che prima era arma, linguaggio, conquista – diventa carcassa, nodo psicosomatico, rovina di un’epoca. Come Pasolini, anche lui arriva a denunciare l’esaurimento del maschio come soggetto del racconto.


Un'ossessione per il corpo anomalo

Arpino è attratto da ciò che devia. I suoi protagonisti sono spesso uomini non all’altezza, figure ferite, zoppe, cieche, umiliate. È un mondo dove il corpo è sempre in eccesso o in difetto: troppo desiderante, troppo manchevole, troppo segnato. E in questo insistere sull’anomalia si apre uno spazio queer: il corpo non conforme diventa segno di una soggettività che non si adatta, che non trova ruolo, che fallisce la norma.

Si pensi a Fausto in Il buio e il miele, che è cieco e monco, ma è anche una figura erotica disturbante, seduttiva e respingente. La sua misoginia non è altro che un riflesso distorto di un desiderio negato, e la sua relazione con il giovane attendente è un microcosmo di tensioni omoerotiche. Ma non solo: la stessa cecità è simbolicamente queer, perché lo separa dal mondo e ne fa un essere radicalmente altro, che tocca invece di guardare, che annusa invece di possedere.


Desiderio dislocato

Laddove la letteratura tradizionalmente eteronormativa definisce con chiarezza gli oggetti del desiderio, Arpino invece li frantuma, li sfoca, li sposta. Le relazioni nei suoi romanzi sono mai lineari, sempre disturbate, costantemente attraversate da un non detto. Spesso, ciò che lega due personaggi non è l’amore o l’amicizia ma l’invidia, la dipendenza, la fascinazione, il ricatto emotivo. Forme indirette, non codificate di legame.

In L’anima persa, il rapporto fra Tino e Fabio è intriso di una pulsione voyeuristica. Il giovane assorbe il trauma dello zio recluso come un magnete: ne diventa sensibile, attratto, fino a identificarvisi. Il desiderio qui non ha nome, ma si manifesta come contaminazione psichica. In Racconto d’inverno il desiderio si muove tra la pietà e la rabbia. Il buio e il miele fa del corpo dell’altro un campo di tensione in cui l’erotismo si maschera da servitù, da dovere, da sottomissione. Sono tutte forme del desiderio queer non dichiarato, perché non previsto nel lessico dell’epoca.


L’impossibilità di confessare

Il mondo di Arpino è profondamente cattolico, ma non nel senso della devozione: è un universo dove il peccato non si cancella, e il senso di colpa è una seconda pelle. In questo clima, confessare un desiderio deviante – e quindi anche omosessuale – sarebbe impossibile. Ma proprio questa impossibilità genera racconti obliqui, personaggi scissi, nevrosi ricorsive. Il queer, da Arpino, non è detto: è rimosso, ma non per questo meno presente. Al contrario: è proprio il rimosso a costituire la materia narrativa.

Ogni storia arpinesca è, in fondo, un coming out mancato. Un desiderio abortito. Un amore che non si può nominare, ma che organizza tutta la trama.


Il queer come metastasi della norma

La grandezza di Arpino, da questo punto di vista, è che non costruisce mai contro-modelli liberatori. Non ci sono gay positivi, né amori che si affermano. Ma in ogni sua opera la norma sessuale si sgretola, implode. Il maschio arpinesco è in crisi, e il suo crollo trascina con sé la famiglia, l’educazione, la società. L’autore non ha bisogno di scrivere “queer” per esserlo: la sua è un’opera intrinsecamente sovversiva, perché mostra la decomposizione dei codici.


Il corpo maschile come campo minato

In tutti questi autori, anche se con esiti e intenzioni diverse, il corpo maschile diventa il luogo privilegiato della crisi. Il maschio non è più soggetto dominatore, ma campo di fragilità, ferite, eccessi, desideri incongrui. Ecco allora che Giovanni Arpino – pur senza mai scrivere un romanzo esplicitamente omosessuale – si rivela affine, in modo obliquo ma nitido, agli altri interpreti della decadenza della maschilità italiana.


Brancati: l’ossessione della virilità come grottesco

Vitaliano Brancati è forse il precursore di questa crisi, con la sua satira della virilità fascista e postfascista. In opere come Il bell’Antonio (1960) l’impotenza diventa simbolo dell’impossibilità maschile di corrispondere al mito della potenza. È una narrativa ancora eterosessuale, ma dove la performance del maschio è sempre fallita, e il desiderio è già spostato, frustrato, deragliato. Come Arpino, anche Brancati racconta il corpo maschile come maschera e come condanna.


Testori: il desiderio che brucia il linguaggio

Con Giovanni Testori, invece, entriamo in un’altra orbita: qui il desiderio omosessuale è esplicito, ma sublimato in forma sacrale e tragica. In Il Fabbricone o nella serie dei Segreti di Milano, l’amore per i ragazzi diventa una passione totalizzante, che si esprime in una lingua scomposta, lacerata, lussuriosa e mistica insieme. È un mondo di macerie e redenzione carnale, dove il desiderio è colpa e salvezza.

Con Arpino c’è una differenza cruciale: Testori urla ciò che Arpino silenzia. Ma entrambi trattano il corpo del giovane come spazio di vertigine, fascinazione e rovina. Entrambi pongono la relazione uomo-uomo come qualcosa che smuove le fondamenta dell’identità, anche quando non è mai detta (come nel caso di La ragazza di via Millelire, dove il silenzio fra due maschi vale più di ogni dichiarazione).


Tondelli: l’omosessualità come forma di vitalismo fragile

Pier Vittorio Tondelli è il primo a scrivere con orgoglio di sé, dei suoi amori, dei suoi desideri. Ma lo fa sempre attraverso una strategia di confessione intima e parziale, mai del tutto pacificata. In Camere separate il lutto e il desiderio si intrecciano in un racconto che è tutto perdita, tutto malinconia. Tondelli costruisce una maschilità sensibile, sentimentale, spesso in rovina, ma senza rinunciare alla bellezza del desiderio.

Arpino, rispetto a Tondelli, resta nel non detto. Ma le loro ossessioni si sfiorano: il corpo del maschio giovane, la vergogna, il silenzio, l’educazione sentimentale attraverso il trauma.


Bellezza: la bellezza come lotta

Dario Bellezza è forse il più radicale. La sua poesia – e la sua prosa – è un grido contro l’ipocrisia borghese, contro l’omofobia interiorizzata, contro l’impossibilità di essere. In Lettere da Sodoma o in Io la figura del ragazzo omosessuale è martire e carnefice, oggetto e soggetto di un desiderio mai riconciliato con il mondo. Qui la scrittura si fa atto politico, confessione oscena, rivolta etica.

Rispetto ad Arpino, Bellezza è fuoco. Ma c’è in entrambi l’intuizione che il desiderio sia ciò che rovina, che incrina, che disgrega l’identità. Anche se Arpino lo fa con gli strumenti del romanzo psicologico, e Bellezza con quelli della lirica disperata.


Arpino come autore queer retroattivo

Leggere Arpino oggi significa riconoscere in lui un autore queer “per omissione”, un narratore che ha attraversato i territori del desiderio senza mai mapparli apertamente. Il suo contributo sta proprio nell’essere stato un cronista della frattura, un cantore del maschio che non sa più essere uomo, perché abita un tempo che non ha parole per il suo desiderio.

Mentre Testori gridava, Tondelli scriveva lettere d’amore, Bellezza bestemmiava e Brancati ridicolizzava, Arpino suggeriva. E in questa discrezione, quasi inconfessata, sta oggi tutta la sua potenza queer.


“Profumo di donna” (Dino Risi, 1974)

Adattamento di Il buio e il miele (1969), è il più celebre tra i film tratti da Arpino, grazie anche alla magnifica interpretazione di Vittorio Gassman. Il protagonista, Fausto, ufficiale cieco, è un uomo che rifiuta la compassione, che usa l’arroganza e la sessualità come ultima maschera di una devastazione interiore.

Qui Risi amplifica la contraddizione tra virilità ostentata e abisso depressivo, giocando su un erotismo plumbeo: Fausto, pur dichiarandosi eterosessuale, ha una relazione intensissima col giovane accompagnatore Ciccio (uno Stefano Sandrelli enigmatico, quasi un alter ego). Il loro rapporto ricalca la coppia maschio adulto/ragazzo della letteratura greca, ma traslata in un’Italia che non sa più leggere la bellezza senza la colpa.

Nel film si sente fortissimo il sottofondo queer: la gelosia muta, il bisogno di controllo, l’incapacità di separarsi. Arpino qui viene messo a nudo, e Gassman ne fa un monumento alla maschilità dolente, spingendo la voce e il corpo fino al ciglio della nevrosi.


“La ragazza di via Millelire” (Salvatore Samperi, 1980)

Questo adattamento di un breve romanzo di Arpino (La ragazza di via Millelire, 1969) è più periferico ma altrettanto denso. Samperi, già autore di cinema erotico e scandaloso, racconta una storia dove la protagonista femminile è un enigma, ma lo sguardo più intenso è quello fra due uomini, tra amicizia e gelosia, tra necessità e ambiguità.

La ragazza, come spesso in Arpino, è catalizzatore ma non centro; il vero teatro è tra i corpi maschili, che si sfiorano senza mai confessare. Samperi accentua questa tensione con una regia sensuale, quasi voyeuristica, più attenta alla pelle dei personaggi che alla loro psicologia. È un film sull’adolescenza maschile e la paura del desiderio, sul bisogno di un’altra presenza maschile come guida, specchio, o abisso.


“Anima persa” (Dino Risi, 1977)

Ne abbiamo parlato in profondità: qui Risi spinge il romanzo Un’anima persa (1966) verso il gotico, ma resta fedele a Arpino nel tratteggiare la casa veneziana come corpo mentale, come labirinto psichico. Fabio, il giovane protagonista, è lontano dai codici maschili tradizionali: è osservatore, passivo, seducibile. La sua giovinezza borghese è fragile, come in Arpino.

Gassman, zio malato e nascosto, è l’altro volto di Fabio: la maschilità in rovina, repressa, incarcerata. Il loro legame, fatto di sguardi, frasi sospese e paura, è l’eco queer più potente di tutto il cinema tratto da Arpino. Fabio non ha bisogno di dire: il desiderio esiste nello sguardo che scivola, nella paura che attrae, nella follia come specchio.


Gassman regista: “Di padre in figlio” (1982)

Qui entriamo nel territorio metacinematografico: anche se non tratto da Arpino, questo film è la confessione postuma di tutte le sue interpretazioni tratte da Arpino. Co-diretto con il figlio Alessandro, è una messa in scena della crisi del patriarca, del maschio-attore che ha esaurito il suo ruolo. Gassman qui diventa simbolo stesso della mascolinità che si decompone, ma che tenta una trasmissione, forse un’eredità.

È un film che sembra scrivere l’ultimo capitolo di Profumo di donna, dove la cecità è sostituita dalla consapevolezza, e il ragazzo non è più soltanto oggetto ma testimone. Lo si potrebbe vedere come una risposta filmica ad Arpino, una sua metamorfosi: dalla tragedia alla diagnosi.


Il cinema come lente involontariamente queer di Arpino

Il cinema ha amplificato, a volte tradito, spesso portato alla luce la carica erotica e psichica nascosta nei romanzi di Arpino. Registi come Risi e Samperi hanno intuito la centralità del corpo maschile nel suo mondo narrativo, e attori come Gassman lo hanno incarnato fino allo spasimo. In questa lente filmica, Arpino diventa un autore queer non per ciò che ha detto, ma per come è stato interpretato: come cantore della rovina del maschio normativo, della casa come trappola identitaria, del desiderio come eco invisibile.

Spostiamo ora il baricentro dal sottotesto queer in Arpino e nei suoi adattamenti a ciò che è avvenuto dopo, quando lo sguardo queer ha smesso di mimetizzarsi per emergere come linguaggio autonomo, esplicito, e talvolta ideologico. Da Ozpetek a Guadagnino, passando per Bellocchio, Timi e i più giovani, si è consolidata una nuova estetica dell’identità fluida, dove la fragilità maschile, l’ambiguità sessuale e la nostalgia queer diventano strutture portanti e non più fantasmi laterali.


Ferzan Ozpetek: la casa come teatro queer

Ozpetek è forse il più diretto erede del mondo di Arpino filtrato da Risi: basti pensare a come in La finestra di fronte o Le fate ignoranti la casa torni a essere luogo del segreto, dello svelamento e del desiderio. Le sue case sono come quelle di Anima persa, ma disinfettate dalla paura e riconsegnate all’utopia della convivenza affettiva.
Nel suo cinema la comunità queer è famiglia ricostruita, i corpi si cercano senza più dover passare per la malattia mentale o la colpa borghese: Ozpetek libera la narrazione dal filtro psichiatrico e trasforma la queerità in quotidianità visiva, in silenzi amanti, in piatti cucinati, in fotografie appese.

La malinconia resta, ma è una dolcezza elegiaca: mentre in Arpino il desiderio queer era sotterraneo, nell’universo di Ozpetek si manifesta come una nostalgia condivisa, una lingua comune fra generi e generazioni.


Luca Guadagnino: la carne, il tempo, il doppio

Se Ozpetek lavora sulla memoria collettiva, Guadagnino scava nella sensualità del tempo e della pelle. In Call Me by Your Name troviamo il riflesso della letteratura queer europea ma anche l’eco remota di quei giovani osservatori di Arpino, testimoni silenziosi del desiderio altrui, come Fabio in Anima persa o Ciccio in Profumo di donna.
Elio, protagonista del film, è fabbricato sul vuoto, sul languore, sull’attesa: il suo corpo non è né maschile né femminile, ma puro vettore del desiderio.

Guadagnino reinventa l’adolescenza queer senza più la necessità del trauma: il dolore non è punizione, ma esercizio di stile, archetipo romantico. Rispetto al mondo tragico di Arpino, siamo nella piena estetizzazione del desiderio, nel corpo come opera d’arte, nella malinconia come lusso.

Nel suo remake di Suspiria, Guadagnino spinge ancora oltre: la sessualità non è più personale, ma geologica, rituale, politica. Qui il queer diventa matrice occulta del potere, come già lo era in Anima persa (dove la casa era viva, pulsante, stregata).


Dal sottotesto all’ipertesto queer

Il cinema italiano post-Arpino si muove dal non detto al detto, dal simbolico al dichiarato. Dove negli anni ’70 bastava un gesto, uno sguardo fra zio e nipote, oggi si costruiscono interi film sulla confessione, sulla messa in scena identitaria.
La queerità, da codice cifrato, è diventata l’asse portante del discorso narrativo.
Pensiamo a L'uomo che ama (Gabrielle Muccino, 2008), dove il protagonista maschile è totalmente spossessato della sua virilità classica, o a La solitudine dei numeri primi (Saverio Costanzo, 2010), in cui l’amicizia fra i due protagonisti ha una tensione queer taciuta, ma onnipresente.


Il corpo queer come centro del nuovo immaginario

Se Arpino parlava di personaggi maschili in fuga dal proprio corpo, il cinema queer contemporaneo li mette al centro: pensiamo a Filippo Timi che, sia in Vincere di Bellocchio che nei suoi progetti personali, ha lavorato su una maschilità esplosa, teatrale, barocca, per poi ricostruirla come canto queer.
Anche artisti come Andrea Adriatico (Gli anni amari, Il vento, di sera) e i più recenti autori indipendenti italiani (Giovanni Cioni, Gabriele Biasi, Niccolò Gentili) lavorano su un immaginario non più codificato né colpevole, dove la queerità è vissuta come spazio di pensiero e non più solo come categoria identitaria.


Da Arpino all’oggi, genealogia di un’intimità interrotta

Arpino, nel suo silenzio, nel suo pudore malinconico, ha lasciato un segno. Il suo mondo di ragazzi fragili, uomini spezzati e case che parlano è diventato codice. Quei romanzi che non potevano ancora dirsi queer oggi risuonano come precursori di un linguaggio che il cinema ha saputo leggere, tradurre e poi trascendere.

Ozpetek e Guadagnino non sono solo eredi: sono traduttori postumi di un segreto, e creatori di una nuova mitologia del desiderio — più morbida, più libera, più visibile. Ma quella “anima persa” continua a vivere, sotto le superfici, nei silenzi, tra una carezza e una fuga.

Continuiamo a intrecciare questo itinerario queer italiano — da Arpino a Guadagnino — con il percorso parallelo (e talvolta divergente) del cinema europeo. Un confronto con autori come Fassbinder, Téchiné, Almodóvar permette di valutare se il cinema italiano queer sia parte integrante di una genealogia continentale o piuttosto un corpo separato, insulare, segnato da una rimozione più profonda, un'estetica del pudore e del ritardo.


Rainer Werner Fassbinder: l’epica del trauma queer

Fassbinder lavora su ciò che in Arpino e nei suoi adattamenti era ancora implicito, sussurrato, spaventato. La sua opera, soprattutto tra Il diritto del più forte (1975) e Querelle (1982), affronta l’identità queer come luogo tragico di conflitto sociale e psichico, senza mediazioni borghesi.
Nei suoi film, la casa non è rifugio come in Ozpetek, ma campo di battaglia: tra amanti, tra classi, tra pulsioni. Fassbinder esplode i vincoli familiari, denuncia le relazioni come strutture di potere, e racconta la sessualità omosessuale come una gabbia d’oro e sangue.

Confrontato con l’Italia, il suo sguardo è più crudo, meno estetizzato, più politico, eppure condivide con Arpino una tenerezza per i personaggi ai margini, per i corpi stanchi, per chi ama nel posto sbagliato.


André Téchiné: l’identità come deriva temporale

Téchiné, soprattutto in film come Les roseaux sauvages (1994), racconta la formazione dell’identità queer in bilico tra adolescenza, memoria storica e desiderio. Il suo tocco è francese, ma il tono è affine a Guadagnino: la campagna, la scuola, l’amico ambivalente, i primi turbamenti sessuali…
Come in Call Me by Your Name, il tempo è la vera ossessione queer: si ama fuori tempo, si guarda sempre indietro, si desidera ciò che sta per sparire.

Rispetto al cinema italiano, Téchiné ha una maggiore consapevolezza politica dell’identità, ma mantiene quella forma lirica e malinconica che in Arpino era ancora inconsapevole. Il queer in Téchiné è transizione, non definizione.


Pedro Almodóvar: il trionfo queer come grammatica filmica

Almodóvar è forse l’opposto speculare di Arpino: dove l’autore piemontese è tutto censura, malinconia e nevrosi, Pedro è barocco, performativo, orgoglioso.
La sua filmografia dagli anni ’80 a oggi (La legge del desiderio, Tutto su mia madre, La mala educación, Dolor y gloria) è una dichiarazione queer continua, in cui il trauma viene sublimato nel melodramma, la vergogna nella performance, e la marginalità in centro narrativo assoluto.

Rispetto al cinema italiano, Almodóvar ha riscritto il canone nazionale in chiave queer, cosa che in Italia nessuno ha mai davvero fatto. Guadagnino e Ozpetek si sono inseriti nel linguaggio cinematografico esistente; Almodóvar, invece, lo ha riscritto da capo.


L’Italia queer: un’isola in ritardo?

Il cinema queer italiano, se messo accanto a queste esperienze europee, appare più timido, più estetico che politico, più incline alla malinconia che alla rivolta. Questo non è necessariamente un difetto: è una forma espressiva radicata nella cultura cattolica, nella retorica della vergogna, nel culto della discrezione.

Arpino è l’archetipo di questa Italia queer inconsapevole: non poteva scrivere ciò che sapeva, e ha lasciato che il non detto costruisse un mondo a metà strada tra incubo e carezza. Ozpetek e Guadagnino, suoi eredi, hanno tentato di tradurre questo sussurro in musica visibile, ma senza mai raggiungere la radicalità identitaria di Fassbinder o Almodóvar.


Prospettive: verso una queerità mediterranea?

Il confronto europeo rivela che il cinema italiano ha costruito una queerità a parte, più dolce, più emotiva, meno esplosiva. Ma questa differenza è anche una risorsa culturale: nei suoi silenzi, nei suoi fantasmi, il queer italiano racconta l’intimità come territorio colonizzato dal trauma, ma anche come possibile elegia.

Forse è giunto il momento — nel cinema, nella scrittura, nell’arte — di riconnettere questi codici, far dialogare l’anima persa di Arpino con la mala educación di Almodóvar, il pathos di Elio con la rabbia di Franz Biberkopf, in una genealogia queer mediterranea che smetta di avere paura del proprio desiderio.

Costruire una "storia queer del cinema italiano" è un progetto complesso e ambizioso, che implica un ripensamento radicale di come la sessualità, l'identità e la marginalità siano stati rappresentati nel contesto culturale italiano, che ha tradizioni particolarmente robuste nel campo del cinema, ma anche una storia di censura, controllo sociale e omofobia istituzionale. La storia queer del cinema italiano non può essere ridotta a un semplice catalogo di film con tematiche omosessuali, ma deve affrontare le intersezioni tra sessualità, classe, genere e politica, esplorando come il cinema ha raccontato — o non ha raccontato — il desiderio, la solitudine, il corpo e l'altro.

Il cinema come "non detto"

Il primo passo per costruire questa storia queer è riconoscere che molti film italiani, pur non dichiarando esplicitamente la loro "omosessualità", contengono comunque una forte carica di inquietudine e ambiguità sessuale. In questo senso, si potrebbe dire che la storia queer del cinema italiano è fatta tanto di ciò che non è stato mostrato quanto di ciò che è stato esplicitamente rappresentato. Qui entra in gioco l'approccio semiotico e interpretativo, che considera i film non solo come oggetti di rappresentazione, ma anche come luoghi di riflessione sociale e politica.

Il contesto politico e culturale

La storia queer del cinema italiano deve essere letta all'interno di un contesto culturale e politico che ha sempre visto il cinema come uno strumento di normativizzazione, e la sessualità queer come qualcosa da controllare o nascondere. Dalla Legge Merlin (1958) che aboliva le case di tolleranza, alla lunga influenza della Chiesa cattolica, il cinema ha operato come spazio di mediazione tra la visione tradizionale e conservatrice della sessualità e le spinte di innovazione, protesta e contestazione che sono arrivate soprattutto negli anni '60 e '70. Qui la questione diventa non solo di rappresentare la queerità, ma di decostruire il significato di "normale".

Cinema e ambiguità di genere

Nel cinema italiano, il passaggio dal realismo neorealista alla commedia all'italiana ha mostrato un profondo mutamento anche nel trattamento dei ruoli di genere e delle identità sessuali. Le figure più ambigue, come quelle interpretate da attori come Nino Manfredi, Marcello Mastroianni o Vittorio Gassman, possono essere viste come anticipazioni di modelli di sessualità fluida, in cui il corpo maschile, pur non esplicitamente omosessuale, è trattato come una posizione intermedia, dove l'ambiguità diventa protagonista. Qui si innesta il percorso di una storia queer che non si definisce solo attraverso le storie di amore gay o lesbico, ma attraverso un'erosione dei confini tra il maschile e il femminile, tra l'orientamento sessuale e il desiderio.

La "visibilità" queer nel cinema italiano contemporaneo

Con l'avvento di registi come Ferzan Özpetek, Luca Guadagnino, e altri, il cinema italiano ha visto una progressiva visibilità per i temi e le figure queer, ma sempre sospesa tra la tradizione e la modernità. I film contemporanei trattano l’omosessualità non come una devianza, ma come una parte integrante della narrazione e della cultura. Tuttavia, anche se la visibilità è aumentata, resta una certa prudenza nell’affrontare la queerità in tutta la sua complessità. Ad esempio, Guadagnino, pur trattando un tema chiaramente gay in Call Me by Your Name, non inserisce mai l’omosessualità all'interno di una dimensione politica esplicita, ma la rende piuttosto un tema di trasformazione e crescita personale. Questo approccio lo avvicina a una certa estetica "indiretta" che trova eco nei modelli cinematografici italiani del passato, dove l'omosessualità veniva trattata in modo simbolico e allegorico, piuttosto che dichiarato apertamente.

Oltre la visibilità: un cinema di identità fluide

Un altro elemento fondamentale nel costruire una "storia queer del cinema italiano" è il passaggio dal concetto di visibilità a quello di fluidità identitaria. Se una volta l'omosessualità veniva trattata come una identità fissa, oggi i film italiani queer si concentrano su identità in evoluzione, dove la sessualità non è qualcosa di definito una volta per tutte. Pensiamo ai film di Tondelli o alle opere più recenti come Slam di Andrea Molaioli, dove il corpo e l’identità sessuale si mescolano, rifiutando un’interpretazione tradizionale e stabilizzata. Questo approccio di fluidità identitaria è probabilmente il terreno fertile per un cinema queer che vada oltre la mera rappresentazione e sfidi le convenzioni, aprendo spazi per forme di sessualità che non sono necessariamente dichiarate o etichettate.

Il futuro della storia queer del cinema italiano

Guardando al futuro, la storia queer del cinema italiano sarà probabilmente legata al continuo dialogo con i linguaggi globali, ma anche alla possibilità di un linguaggio autonomo, che sappia integrare le esperienze italiane con le narrazioni internazionali. Il passaggio a una nuova identità filmica, che sappia mescolare la nostalgia e la ricerca di autenticità dei film di Guadagnino con la contemporaneità di un mondo sempre più fluido e globalizzato, offrirà spazi di sperimentazione.

Questa storia non sarà mai lineare né definita da una singola visione, ma dovrà necessariamente fare i conti con un cinema che oscilla tra desiderio e rimozione, tra visibilità e invisibilità, fino a ridisegnare, nei modi più sorprendenti, i confini stessi del possibile nel cinema e nella società.