sabato 10 maggio 2025

Non erano solo amici: l’amore epico (e queer)

Fuoco e simmetria: Eros, educazione e potere nell’eros greco

Non c’era bisogno di proclami né di rivendicazioni, nella Grecia arcaica, per legittimare l’amore tra uomini: non esisteva un lessico dell’orgoglio, né una categoria fissa come “omosessuale” o “eterosessuale”. Eppure, ciò che oggi sarebbe oggetto di dibattito pubblico, censura, proibizione o conquista, allora si declinava in gesti, rituali, ruoli. Era presente nel cuore della cultura ellenica come una grammatica naturale, impressa nel corpo e nella mente dei cittadini, nel tessuto stesso delle relazioni sociali e pedagogiche. Se ci si immerge nel mondo antico con attenzione e senza anacronismi, si scopre che la sessualità greca — soprattutto quella maschile …ai tempi del mito, non esisteva la necessità di etichettare, patologizzare o occultare. L’amore – nel suo senso più esteso e ambiguo – si esprimeva in una varietà di forme che oggi potremmo considerare “non conformi”, ma che allora erano parti organiche della vita sociale, politica e culturale. In effetti, ciò che noi oggi chiamiamo “omosessualità” era vissuto senza la cornice identitaria moderna: non esistevano “omosessuali” in senso stretto, bensì pratiche, relazioni, affetti che si inscrivevano in un ordine di significati molto più complesso.

Le figure di Achille e Patroclo, tanto discusse e dissezionate, si fanno allora simbolo di una cultura che, pur costruita su diseguaglianze e ruoli rigidi, permetteva agli uomini di esprimere legami profondi, affettivi ed erotici, senza scandalo. Il dolore lancinante di Achille alla morte dell’amato è un momento di tale forza tragica che scuote l’intera “Iliade”: un lamento funebre che spezza le gerarchie guerriere e fa del giovane semidio un uomo in lacrime, nudo nella sua fragilità. È in quel pianto che l’eros tra uomini si rivela pienamente umano.

Ma se Achille è l’eroe del lutto amoroso, altri personaggi ci offrono ulteriori sfaccettature. Zeus, il padre degli dei, che rapisce il bellissimo Ganimede per farne il suo coppiere nell’Olimpo, è esempio supremo di un amore divino che travalica i limiti umani. Qui il potere assoluto si unisce all’estetica del desiderio: Ganimede non è solo un bel corpo, ma un corpo scelto, elevato, trasportato oltre i confini della terra. In questa apoteosi dell’efebia si legge la volontà di fissare un modello: la bellezza giovane, maschile, è degna degli dei.

All’interno della polis, invece, il rapporto tra erastes e eromenos divenne presto strumento pedagogico e istituzionale. Non si trattava solo di educare il giovane alla guerra o all’eloquenza, ma di fargli apprendere cosa significasse essere un cittadino. L’erastes era guida, modello, amante e precettore. Il piacere condiviso aveva una funzione formativa, e l’aspetto erotico era solo una componente – non marginale, ma nemmeno totalizzante. Il pais, il giovane, non era mai una semplice preda: doveva scegliere, resistere, accettare secondo una logica che regolava l’onore.

Non sorprende, allora, che alcune delle più affascinanti narrazioni mitiche siano costruite proprio su questo asse pedagogico-sentimentale. Apollo e Admeto, Dioniso e Ampelo, Eracle e Ila: figure in cui l’amore tra uomini si intreccia con la bellezza, la morte, la rinascita, la metamorfosi. Il corpo del giovane, nelle mani del dio o dell’eroe, diventa soglia tra il mondo umano e quello divino. È offerta, ma anche promessa. È simbolo di una bellezza che non può durare, e proprio per questo va celebrata.

Diverso il destino dell’amore tra donne. In un mondo che confinava le donne tra le mura domestiche, le passioni femminili avevano scarsa voce pubblica. Solo Saffo, la voce che si leva da Lesbo come un’eccezione, riesce a cantare la propria passione per le ragazze del tiaso. I suoi versi sono crepitanti di desiderio, delicatezza, assenza. Ma la sua figura, sin dall’antichità, venne distorta: le si cucirono addosso storie eteronormative, tentativi di cancellare l’evidenza. Fino all’assurda leggenda del suicidio per amore di un uomo, come a dire: non poteva essere altrimenti.

Questa sistematica cancellazione è una delle chiavi per comprendere come la cultura greca, pur accettando certi tipi di rapporti omoerotici, mantenesse al centro la supremazia del maschio adulto, attivo, cittadino. Le donne, persino quelle amate da altre donne, dovevano comunque rientrare nell’ordine simbolico del possesso. Non c’era spazio per un amore tra donne che potesse sovvertire tale gerarchia. Persino Platone, pur elevando l’amore tra uomini a forma spirituale, descrive le donne che desiderano altre donne come “tribadi”, bestiali, incontrollabili.

Eppure, anche nelle maglie di questa disparità, qualcosa resiste. I frammenti saffici sono testimoni di un’altra possibilità: quella di una relazione fatta di sguardi, corpi, complicità. Il tiaso non era solo una scuola per il matrimonio, ma un’area liminale, un altrove affettivo, un luogo di libertà. Forse per questo l’antichità ha tentato di silenziarlo. Forse per questo, oggi, ancora ci emoziona.

L’amore omosessuale nell’antica Grecia non era solo tollerato: era codificato, valorizzato, rappresentato. Ma ciò avveniva in un sistema di potere ben preciso, dove l’identità non era mai libera dal ruolo, dal genere, dall’età. I legami tra uomini potevano essere glorificati – basti pensare ad Alessandro ed Efestione, eredi di una lunga tradizione –, ma dovevano rispettare determinati parametri. E se l’omosessualità maschile poteva farsi mito, rito, celebrazione, quella femminile restava spesso ombra, sussurro, frammento. Non per questo meno intensa. Anzi, forse, proprio per questo più struggente.


I. Alessandro ed Efestione: amore imperiale, amore assoluto

Tra le macerie fumanti della battaglia di Isso, mentre i corpi dei Persiani cadono sotto il passo inesorabile della falange macedone, Alessandro non cerca il bottino, né la gloria. Cerca Efestione. Sempre. Il legame tra i due uomini è più che un’amicizia: è un’alleanza di corpi, anime e destini, cresciuta fin dall’adolescenza tra le lezioni di Aristotele e le esercitazioni militari nel palazzo di Pella. La loro è una relazione che ha la struttura di un patto sacro, un sodalizio inscindibile che si nutre tanto della carne quanto dello spirito.

Efestione, spesso relegato a ruolo secondario nelle cronache ufficiali, è in realtà il contraltare perfetto dell’eroe. Dove Alessandro è slancio, conquista, esuberanza, Efestione è misura, fedeltà, profondità. Non vi è impresa in cui non lo accompagni; non vi è decisione, anche la più estrema, che non venga ponderata attraverso il suo sguardo. Quando entrano a Susa e Alessandro, nel gesto teatrale delle nozze di massa, sposa la figlia di Dario, Efestione ne prende la sorella: un doppio matrimonio simbolico, politico e affettivo. Non due amanti che si separano per dovere dinastico, ma due uomini che, attraverso le nozze parallele, rinsaldano l’unione sotto gli occhi del mondo.

Il dolore che esplode alla morte di Efestione è tale da scuotere ogni convenzione. Alessandro, già da tempo trasfigurato in figura quasi divina, si lacera di pianto, si strappa i vestiti, rifiuta il cibo, uccide il medico. Ordina che ogni casa nella capitale persiana sia in lutto, che il fuoco sacro venga spento – un gesto riservato solo alla morte di un re. La pira funebre di Efestione, alta come una montagna, ornata d’oro e statue, brucia per giorni. Non è un funerale: è una catarsi apocalittica, l’ultima grande liturgia di un amore che ha governato un impero.

Il parallelo con Achille e Patroclo non è solo suggerito, ma dichiarato. Alessandro, nella sua ossessione per l’eroe omerico, si identifica pienamente in Achille, e vuole per sé e per Efestione la stessa eternità del mito. Quando scende a Troia, compie offerte sulla tomba di Patroclo. E sarà Efestione, non a caso, a ricevere gli onori di quell’antico eroe. Il re non accetta che la morte possa separarlo dall’amato: nella sua visione del mondo, Efestione è parte della sua essenza. E forse, proprio per questo, Alessandro morirà poco dopo. È come se, bruciato da un lutto che non trova pace, il suo corpo avesse deciso di non esistere più.

In questo, il loro rapporto ci parla ancora oggi. Non perché “fossero gay”, ma perché si amarono con una radicalità assoluta, senza difese, senza maschere, senza compromessi. In un mondo in cui il potere rischia sempre di fagocitare l’intimità, l’amore tra Alessandro ed Efestione sopravvive come una fiamma purissima: scandalosa, perché verissima.


II. Saffo: la voce interdetta

E poi c’è Saffo. Sola su quell’isola di Lesbo, circondata da giovani donne e da canti che odorano di miele e di mare, Saffo scrive. Non per gli uomini, non per la posterità, non per l’Iliade. Ma per le ragazze che danzano con lei, che intrecciano corone, che sussurrano parole di fuoco prima di essere date in sposa. Il tiaso, luogo di educazione e culto, diventa nella sua voce una zona franca del desiderio. Una palestra di eros e di nostalgia. Ogni poesia è una fitta al cuore, ogni parola una scheggia d’anima.

“Mi sembra uguale agli dei… chi siede accanto a te e ti ascolta parlare.” Così comincia una delle odi più celebri. Ma non è un uomo a parlare: è una donna che guarda un’altra donna, e ne canta la bellezza come qualcosa che toglie il respiro, scuote le membra, rende la pelle di fuoco. Le immagini che usa sono tanto carnali quanto eteree: il tremito, il sudore, il buio negli occhi. Non è lirismo svenevole, ma consapevolezza corporea, erotica, vertiginosa.

Saffo non ha bisogno di giustificare il suo amore. Non lo spiega, non lo difende. Lo canta. E in questo è rivoluzionaria: la sua poesia non cerca l’approvazione, ma l’adesione emotiva. È un invito, a volte un addio, più spesso un urlo silenzioso. Le sue allieve passano, si sposano, vanno via. E lei resta, con le lettere, i fiori secchi, le parole sospese. Come in un tempo che non passa.

Ma il mondo non ha saputo tollerare questa voce. Già in epoca antica si cerca di normalizzarla: si inventano amori eterosessuali, si fabbricano miti consolatori. Il più insidioso è quello del suicidio per Faone: l’uomo bellissimo che la respinge, e che la spinge a gettarsi in mare. Una parabola perfetta per zittire una donna che ha amato altre donne con troppa intensità. Come a dire: alla fine, tutto si aggiusta nell’eterosessualità. Ma non è vero.

I frammenti che ci restano – lacerati, bruciati, mutilati – sono ancora così potenti da sopravvivere a millenni di censura. “Ti voglio, ma qualcosa mi trattiene.” Basta questo per capire che il desiderio non ha tempo, non ha scuse, non ha patria. Saffo è la prima poeta dell’amore lesbico, e lo è con una lucidità che non ha eguali. Non fa proclami, non teorizza, non polemizza. Scrive. Con una voce che non si spegne.

Ecco allora che l’antica Grecia, spesso evocata come modello di libertà sessuale, si rivela ambivalente: glorifica l’amore tra uomini purché conforme a un ordine; nasconde o storpia quello tra donne. Ma basta ascoltare Alessandro che piange per Efestione, o leggere i versi di Saffo che sussurra “tu dormi, ma il mio cuore veglia”, per capire che l’eros queer ha sempre cercato la sua via. Anche quando il mondo lo voleva muto.


III. Saffo: il ritorno della voce. Da Renée Vivien a Monique Wittig

Saffo non è mai davvero scomparsa. È stata nascosta, mistificata, amputata, eppure la sua voce ha attraversato i secoli come un’eco indomabile. La Saffo che riemerge nell’età moderna non è più (solo) l’aedo lirico di Lesbo: diventa un simbolo, una maschera, un campo di battaglia per la rappresentazione del desiderio femminile, del corpo lesbico, della resistenza poetica al patriarcato. In questa riscrittura continua, è soprattutto la letteratura queer femminile a rivendicarla come antenata. Ma un’antenata refrattaria alla genealogia maschile, perché fondata su un altro principio: l’eros tra donne come gesto politico, e poetico, insieme.

Renée Vivien, la poetessa anglo-francese vissuta tra 1877 e 1909, è forse la prima a compiere un gesto radicale: restituire Saffo al suo corpo lesbico, e farlo in versi. Nei suoi poemetti, la figura di Saffo è una sacerdotessa sensuale, dolorosa, attraversata da un desiderio che non chiede mai il permesso. La Vivien non si limita a tradurla: la reinventa, ne fa il modello di una sensibilità tutta femminile, tutta diversa. E proprio in questa distanza dalla norma, dalla mascolinità dominante, la Saffo di Renée Vivien brilla come un’icona impossibile da addomesticare.

Per Vivien, Lesbo non è solo un’isola antica, ma una utopia erotica, un luogo dell’anima dove la donna ama la donna senza vergogna. Ogni verso della poetessa è una dichiarazione d’indipendenza dalla cultura eteronormativa. E la morte di Saffo – riletta non come castigo, ma come sacrificio eroico e persino mistico – diventa il sigillo di un’esistenza votata all’assoluto dell’amore femminile. La stessa Vivien finirà per bruciarsi in questa fedeltà: anoressia, dipendenze, un’esistenza intera consacrata alla parola saffica come destino.

Negli anni Settanta del Novecento, con Monique Wittig, Saffo cambia ancora pelle. Non è più solo la poetessa tragica, ma la testimone di un ordine simbolico altro: un ordine che non contempla la donna come oggetto del desiderio maschile, ma come soggetto desiderante e narrante. In Les Guérillères, la Wittig evoca un universo matriarcale, dove l’eredità di Saffo è disseminata in ogni parola, ogni rito, ogni gesto di ribellione femminile. La sua poesia viene spezzata, riformulata, reinserita come lingua viva di un possibile futuro.

Nella teoria lesbofemminista di Wittig, Saffo diventa anche un nome di rottura: non una musa da citare, ma un corpo da incarnare. È lo spazio in cui la donna si riappropria della propria voce, sottraendosi alla grammatica patriarcale. Per Wittig, “la donna lesbica non è una donna”, perché esce da quella definizione costruita interamente dall’uomo. Allora Saffo, in questa lettura, è già oltre: è un essere libero, sovversivo, un mostro sacro che non può più essere rinchiuso in nessun mito di morte per amore di un uomo.

Anche nella cultura pop queer, Saffo è ricomparsa ciclicamente come icona. Basti pensare alle citazioni nella musica di cantautrici come Ani DiFranco o alla grafica delle zine lesbiche degli anni ’90, dove il suo nome era un marchio identitario. E oggi, con la crescente attenzione alle identità fluide e non binarie, la poetessa di Lesbo viene riscoperta ancora una volta come figura di soglia: non più solo lesbica o donna, ma voce intersexuale del desiderio, poetessa del limine, dea della frattura.

Così, ogni volta che leggiamo anche solo un suo frammento – “Eros scuote il mio cuore come vento sul monte che abbatte le querce” – ci troviamo di fronte non a un reperto, ma a un respiro vivo, un codice di trasmissione del desiderio non conforme. Ogni generazione queer ha trovato in lei uno specchio, una madre segreta, un punto di fuga.

E allora forse Saffo non ha bisogno di essere interpretata, né protetta. Basta lasciarla parlare. E ascoltarla con la pelle.


IV. Saffo tra visione e visibilità. Dalla pittura accademica all’immaginario queer

Saffo è uno spettro che ritorna. Non ha un volto preciso, eppure è ovunque: nella pittura, nella fotografia, nella videoarte, nei fumetti, nelle performance queer. Ogni epoca l’ha desiderata e riscritta a modo proprio. Ma è soprattutto il suo corpo poetico – quello che resiste alla classificazione, alla didascalia, alla mimesi – ad aver sedotto gli occhi degli artisti.

Nel XIX secolo, mentre la filologia classica amputava sistematicamente ogni traccia del suo desiderio saffico, la pittura accademica metteva in scena una Saffo romantica, dolente, prossima al suicidio. La “Saffo e Faone” di David d’Angers (1835) e la “Saffo suicida a Leucade” di Charles Mengin (1877) sono due esempi emblematici: la poetessa è nuda, disperata, posta su uno sfondo di paesaggio eroico, affacciata al precipizio come una figura già vinta. Il mito patriarcale impone qui una narrazione espiatoria: Saffo non può sopravvivere al rifiuto di Faone, l’uomo. Il suo desiderio femminile viene quindi narrato come sublimazione tragica o come follia.

Ma proprio questa iconografia malinconica è stata sovvertita, a partire dalla seconda metà del Novecento, da artiste e artisti queer che hanno voluto scollare il volto di Saffo dall’icona sacrificale, per restituirle il corpo desiderante, ironico, guerrigliero.

Nel fotomontaggio queer, ad esempio, Saffo ricompare come body double della performer lesbica, in un gioco di specchi dove il tempo si deforma. Nel progetto Portrait of Sappho (1985) della fotografa statunitense Tee A. Corinne, pioniera della visibilità erotica lesbica, Saffo non è più figura storica, ma maschera erotica, corpo collettivo, evocato attraverso collage di corpi femminili in abbraccio, sovrapposizioni calligrafiche dei suoi versi, ombre proiettate sulla pelle.

Nel fumetto lesbico underground, come nelle riviste americane On Our Backs o nella francese Ah! Nana, la sua immagine viene destrutturata in chiave punk e anarchica: è una dominatrice, una piratessa del desiderio, una guida spirituale, o anche una performer drag. Saffo diventa camp, cioè eccessiva, posticcia, proprio per resistere al canone.

Nella pittura contemporanea, alcune artiste come Judy Chicago, nel monumentale The Dinner Party (1979), la includono tra le grandi madri della genealogia femminile: il suo nome è iscritto tra i 999 nomi incisi sul pavimento di porcellana. Eppure non c’è un volto: la Saffo di Chicago è un nome che grida dal sottosuolo, tra i tanti cancellati dalla storia maschile.

Artiste italiane come Ketty La Rocca o Letizia Battaglia, pur senza raffigurare direttamente Saffo, hanno contribuito a riformularne lo spazio immaginativo: il corpo femminile come testo poetico e politico, non più oggetto da contemplare ma soggetto da ascoltare, con la voce rotta, scandalosa, insubordinata.

Nella videoarte queer degli anni Duemila, infine, si moltiplicano i riferimenti frammentari: Saffo è una citazione, un tatuaggio, una frase scritta con il rossetto sullo specchio, un’apparizione glitch. In Sappho’s Slit di Sarah Pucill (2001), il volto della poetessa viene ricostruito con labbra, specchi, aperture, in un cortocircuito visivo tra eros, linguaggio e vuoto. Il suo corpo è un passaggio. Una fenditura di luce.

Nell’epoca del post-genere, Saffo non è più soltanto la lesbica originaria: è un codice queer trans-temporale, una figura di rottura e moltiplicazione. Qualcosa che non si lascia rappresentare del tutto, ma che continua a sedurre chi cerca una genealogia non lineare, non normata, non pacificata.

Saffo, insomma, non si guarda: si guarda attraverso. È la lente di una visione altra. Lì dove l’arte smette di illustrare e comincia a desiderare.


V. Alessandro ed Efestione, Saffo: l’amore queer tra impero e insubordinazione

Esistono due archetipi profondamente diversi – e profondamente queer – nel modo in cui la cultura occidentale ha immaginato e mitizzato l’amore tra persone dello stesso genere: da una parte, il modello eroico-militare, maschile, epico, incarnato da Alessandro ed Efestione; dall’altra, quello poetico, femminile, intimo e rivoluzionario, rappresentato da Saffo. Due poli apparentemente opposti, ma che, nel loro scarto, rivelano la varietà e la ricchezza della sensibilità omoerotica.

Alessandro ed Efestione sono legati da un amore che si fa strumento di legittimazione del potere. Il loro vincolo, ispirato a quello tra Achille e Patroclo, entra nella storia con la potenza del mito e il prestigio della guerra. L’eroismo dei loro corpi maschili si fonde con una visione del desiderio come sodalizio glorioso, capace di superare le frontiere del sentimento privato per diventare gesto politico, monumentale. Alessandro non si limita ad amare Efestione: lo piange come Achille, lo onora come un re, lo impone come parte della propria immagine imperiale. In questo amore c’è la potenza della tragedia classica: la morte dell’amato è la condizione dell’eternità del sovrano. Il queer qui è sontuoso, marmoreo, nobile: entra nei templi, marcia con gli eserciti, parla in greco a Babilonia.

Saffo, al contrario, agisce nel sottile, nell’indicibile, nel fruscìo delle foglie dell’alloro. Il suo amore non fonda regni, ma scuote interiorità. È poesia, non potere. È molteplice, non binario. L’amore tra donne che lei canta – tenero, sensuale, ironico, frammentato – è un’eresia che resiste alla monumentalizzazione. Nessun Faone la redime, nessuna guerra la consacra. Al centro del suo mondo non c’è il dominio, ma il tremito. La sua arte è fragile e indistruttibile: sopravvive come scheggia, come brano, come assenza che urla. Saffo è la madre clandestina di tutte le genealogie queer femminili: non alza statue, ma lascia sussurri.

Eppure, proprio nel loro contrasto, Alessandro ed Efestione da un lato, e Saffo dall’altro, compongono un affresco completo delle modalità queer di abitare il tempo. Loro sono il queer del potere; lei, il queer dell’intimità rivoluzionaria. Loro incidono la storia con la spada e il lutto; lei la corrode dal margine, con l’inchiostro e l’eco.

Non sono antitetici, ma complementari: uno si erge nel sole di Gaugamela, l’altra sussurra sulla scogliera di Lesbo. Entrambi, però, resistono all’eteronormatività del racconto canonico. Entrambi dimostrano che il desiderio può avere mille volti: regale o eversivo, epico o ellittico, pubblico o segreto.

L’amore queer, in fondo, si muove tra questi due estremi: tra il marmo e la sabbia, tra l’urlo del condottiero e il balbettio della poetessa. E continua, ancora oggi, a raccontarci di un’altra possibilità di essere. Di sentire. Di esistere.


Epilogo. Tra lesbo e babilonia: il presente queer, tra rovine e rinascite

Se Alessandro ed Efestione hanno camminato sotto il sole cocente dell’Asia in un abbraccio regale e Saffo ha composto i suoi versi all’ombra dei mirti, oggi il desiderio queer cammina in mezzo alle rovine. Ma non quelle morte della storia: piuttosto, quelle vive e fumanti di un mondo che si sta disgregando e ricostruendo insieme. Babilonia brucia, Lesbo trema, eppure qualcosa insiste. Sopravvive. Rinasce.

L’amore queer oggi ha perso ogni illusione di epica. Non conquista regni, ma corpi. Non innalza templi, ma esce dai gabinetti di scuole cattoliche, dai profili Instagram, dalle periferie. Non ha bisogno di essere riconosciuto dalla Storia, perché è già sovversivo nella sua esistenza quotidiana. Il bacio tra due ragazzi fuori da una discoteca di provincia, la carezza tra due donne anziane su una panchina, la voce rotta di un adolescente non-binario che dice “io”: ecco la nuova poesia saffica, ecco il nuovo lutto di Alessandro. Senza eserciti. Senza ode. Eppure tremendi.

Il queer di oggi vive nell’assenza di monumenti, ma anche nella consapevolezza che nessun monumento può contenerlo. Si riflette nei corpi che cambiano genere, nel linguaggio che si fa instabile, nei pronomi che si moltiplicano come amanti in una notte greca. È un’eredità spezzata, ma vitale: un frammento di papiro che dice ancora, ostinatamente, “brilla per me la tua presenza”.

C’è qualcosa di saffico nei corpi che sfuggono all’ordine, e qualcosa di alessandrino in chi pretende visibilità, gloria, riconoscimento. E se Saffo e Alessandro ci parlano ancora, è perché ci hanno lasciato non un modello, ma una tensione: tra l’amore che vuole essere detto e quello che deve restare sussurro; tra l’identità come conquista e l’identità come mistero.

Oggi, tra TikTok e tragedia, tra rivendicazioni e rimossi, l’amore queer si reinventa. Non chiede più di essere accettato: chiede di essere ascoltato. Non si accontenta di esistere: vuole brillare. Non come un monumento, ma come una ferita luminosa.

Forse è questo, in fondo, il lascito più potente: non l’amore perfetto, eterno, canonico – ma l’amore che sopravvive malgrado tutto. Come un canto spezzato. Come un giovane re in lacrime. Come una ragazza che scrive il nome di un’altra sulla sabbia.