domenica 25 maggio 2025

“You don’t create, you die” , Adam Fuss

La frase “You don’t create, you die” attribuita ad Adam Fuss non è soltanto un motto esistenziale: è una dichiarazione di necessità, un grido interiore che rivela quanto per l’artista l’atto del creare non sia una scelta, ma una forma di sopravvivenza. In queste parole si concentra un’urgenza che va oltre l’arte e tocca l’essenza stessa dell’essere. Non si tratta solo di fare arte per comunicare o per lasciare un segno: si tratta di respirare, di rimanere vivi, di non sprofondare nel nulla. Creare, per Fuss, è una condizione ontologica: non si crea perché si ha qualcosa da dire, si crea per non morire.

Adam Fuss, nato nel 1961 in Inghilterra, ha costruito la propria ricerca artistica su un rapporto profondissimo con la luce, il tempo e l’idea stessa di traccia. La sua fotografia non è mai documentaria, né narrativa nel senso tradizionale: è un attraversamento. Usando procedimenti fotografici antichi come il dagherrotipo, il photogramma e la camera oscura, Fuss restituisce immagini che sembrano fantasmi del visibile, manifestazioni di una realtà ulteriore, quella che non si lascia afferrare dagli occhi ma solo dallo spirito o dalla memoria. Il suo lavoro sfugge alla meccanica del dispositivo fotografico moderno e ritorna alla sorgente magica dell’immagine.

È significativo che gran parte delle opere di Fuss siano realizzate senza l’uso dell’obiettivo: l’oggetto si imprime direttamente sulla carta fotosensibile, attraverso un contatto diretto con la luce. Questo gesto primordiale — quasi un’impronta più che una rappresentazione — collega il lavoro di Fuss a una lunga tradizione esoterica dell’immagine, dove ciò che appare non è tanto ciò che si vede, ma ciò che si manifesta. Il serpente che si arrotola, l’acqua che vibra, il neonato immerso in un alone di luce: ogni immagine è una soglia, un battito, una sorta di eco visiva del sacro.

All'interno di quella frase, dunque, “You don’t create, you die”, si coglie quanto per Fuss l’atto creativo sia un combattimento contro l’annichilimento. Non creare significa soccombere, farsi travolgere dal silenzio, cadere nel vuoto dell’inconsistenza. La creazione diventa quindi una forma di resistenza — non solo contro la morte biologica, ma contro la morte interiore, contro il cinismo, contro l’inerzia dello spirito. Ogni opera di Fuss è un’esplorazione del confine tra la presenza e l’assenza, tra ciò che vive e ciò che si sta spegnendo. L’arte diventa un modo per trattenere ciò che sfugge, per fissare l’invisibile nel visibile, per dare forma a ciò che non ha nome.

Fuss ha spesso dichiarato il suo interesse per la dimensione spirituale, al limite del mistico. La sua produzione non è mai decorativa o illustrativa: è un continuo interrogare la natura effimera dell’esistenza. Molte delle sue serie fotografiche — dai celebri dagherrotipi ai photogrammi su larga scala — sembrano elaborate in uno stato di trance, come se l’artista si fosse posto in ascolto di qualcosa di remoto e misterioso, per lasciarlo affiorare attraverso la luce. Le immagini che ne derivano non illustrano, ma interrogano: pongono domande sul corpo, sul tempo, sulla materia, sul vuoto, sulla nascita e sulla morte.

L’idea che la creazione sia una forma di salvezza non è nuova nella storia dell’arte, ma in Fuss assume un valore quasi biologico. L’arte, per lui, non è uno strumento né un linguaggio: è una condizione vitale, un’esigenza che pulsa sotto la pelle. Creare diventa un atto di esorcismo, una via per mantenere il contatto con ciò che è perduto, con ciò che muore ogni giorno. “You don’t create, you die” non è, dunque, uno slogan: è una forma di verità nuda. E chi guarda le sue opere lo percepisce con forza: ogni immagine, ogni traccia di luce, ogni frammento di ombra è un piccolo esorcismo, una lotta silenziosa per restare, per resistere, per non scomparire.


Adam Fuss: fotografia come apparizione del sacro

C’è un’idea, un’urgenza, che attraversa l’intera opera di Adam Fuss come una fiamma silenziosa: l’idea che senza il gesto creativo si muoia. Non una morte retorica, ma una perdita reale, ontologica. “You don’t create, you die” non è uno slogan da artista tormentato; è una dichiarazione mistica, un atto di fede nell’arte come atto di incarnazione — come modalità privilegiata per attraversare e riscrivere la soglia tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Ogni fotografia di Fuss è un’epifania, e l’epifania è sempre sacra, anche quando prende forma nella carne, nel sangue, nell’acqua.

Fuss si muove fuori dal paradigma moderno della fotografia come documento, come verità catturata: è piuttosto erede di una tradizione alchemica, pre-fotografica, che ritiene la luce una forza rivelatrice — non solo fisica, ma spirituale. E il supporto sensibile, che sia carta fotosensibile, dagherrotipo o acquerello bagnato, diventa un velo della realtà, una soglia sottile fra l’immanenza e il mistero.

Adam Fuss va letto come artista esoterico: non nel senso dell’occultismo da salotto, ma nel senso gnostico e sapienziale di chi lavora per immagini che non rappresentano il mondo, ma lo trasmutano. Il sacro, in lui, non è un tema: è una modalità del reale.


La fotografia come reliquia: My Ghost

La serie My Ghost può essere considerata una vera e propria meditazione visiva sul concetto di reliquia. In un’epoca come la nostra, in cui il culto delle immagini si è secolarizzato in feticismo digitale, Fuss restituisce all’immagine la sua funzione primaria: rendere presente l’assenza. Le sue fotografie sono, in senso profondo, immagini-reliquia: oggetti che conservano una traccia reale di un corpo, di un contatto, di un passaggio. E come le reliquie, non servono per essere guardate, ma per essere venerate.

In My Ghost il soggetto è spesso il corpo infantile — ma attenzione: non il bambino come soggetto della rappresentazione, bensì il bambino come emanazione luminosa. I fotogrammi ottenuti con acqua e luce diventano impronte metafisiche, icone di una purezza non perduta ma trascesa. Ogni immagine porta in sé una tensione tra dolcezza e inquietudine, come se stessimo osservando l’impronta lasciata da un’anima che ha attraversato il mondo e lo ha appena lasciato.

Fuss qui lavora per sottrazione: rinuncia alla messa a fuoco, all’individualità, all’identificabilità. Eppure queste immagini ci toccano nel profondo, perché risvegliano in noi un’intuizione dimenticata: che ogni corpo è un’apparizione, e che ogni vita lascia una traccia luminosa che sopravvive alla carne.

In quest’ottica, My Ghost è una preghiera per immagini. Una sequenza di elegie visive che ci ricordano che la fotografia — come l’amore, come la morte — non è mai oggettiva: è sempre un atto di comunione.


Il rito come immagine: Invocation

Con Invocation, Adam Fuss entra nel territorio più esplicitamente rituale della sua opera. Se My Ghost era un requiem sussurrato, Invocation è una liturgia visiva. Non c’è nulla di illustrativo in queste immagini: sono atti visivi, strumenti di trasmutazione. Il titolo ci suggerisce già il registro: “invocazione” è parola rituale, magica, teurgica. Chi invoca, chiama. Ma ciò che viene evocato non è mai sotto il nostro controllo: è qualcosa che ci attraversa.

La forma ricorrente del serpente è centrale in questa serie. Il serpente — simbolo ambiguo per eccellenza — incarna la rigenerazione, il sapere, il pericolo, il desiderio. Nelle immagini di Fuss, la sua presenza non è narrativa, ma archetipica. Non racconta storie, ma risveglia forze. E la sua apparizione è sempre doppia: bellezza e minaccia, vita e morte, carne e spirito.

Fuss lavora con il fotogramma come uno sciamano con la sabbia: dispone i corpi, lascia che la luce incida, trasforma la superficie in uno specchio di ciò che sta oltre. L’immagine non è mai solo visiva: è corporea, magnetica, energetica. Ogni stampa è un talismano.

E ciò che colpisce è come l’artista riesca a far emergere il sacro non attraverso l’iconografia religiosa, ma attraverso un linguaggio quasi pagano, primordiale, orgiastico. C’è Dioniso, in queste fotografie. C’è il tantrismo e la stregoneria. Ma c’è anche l’eco lontana di Piero della Francesca e delle mistiche medievali: perché in fondo il sacro non ha tempo, né cultura, né forma definita. È ciò che ci eccede.


L’acqua, l’arca, il corpo: Ark

Con Ark, Fuss sembra voler portare la sua fotografia oltre la soglia dell’umano: verso uno stato pre-linguistico, intrauterino, cosmico. L’acqua è l’elemento centrale — ma non è un’acqua descrittiva, non è una piscina o un fiume: è l’acqua del mito, del battesimo, della gestazione. I bambini fotografati immersi in questa luce liquida sembrano galleggiare tra due mondi, come esseri non ancora pienamente incarnati.

Il titolo stesso, Ark, è una chiave potente. L’arca è rifugio e soglia. È il contenitore del sacro (l’Arca dell’Alleanza), ma anche il vascello del diluvio, la navicella che traghetta la vita attraverso il disastro. È la placenta dell’umanità, il suo utero salvifico.

In queste fotografie i corpi non sono identità: sono forme. Non sono persone: sono figure. E nella loro sospensione — spesso in posizioni fetali o ambigue — evocano uno spazio altro, dove il tempo non scorre e la morte non ha ancora nome. L’acqua diventa così il vero soggetto delle immagini: acqua come grembo, come oblìo, come passaggio.

Il gesto di Fuss, ancora una volta, è sottrarre. Non ci dà la realtà: ci dà l’immagine della soglia. E questo è il compito più alto dell’arte sacra. Ark è un viaggio attraverso la luce, ma anche un ritorno al buio fecondo da cui ogni cosa nasce.


L'arte come sopravvivenza spirituale

Guardare le immagini di Adam Fuss significa entrare in uno spazio liminale: tra il visibile e l’invisibile, tra la materia e l’energia, tra la vita e la sua dissoluzione. Le sue fotografie non ci chiedono di capire, ma di ascoltare. Sono immagini che non vogliono essere spiegate, ma accolte — come si accoglie un presagio, un sogno, un oracolo.

Fuss non è solo un fotografo: è un mistico visivo. Non costruisce immagini, ma lascia che accadano. E il suo lavoro ci ricorda qualcosa che la nostra epoca ha quasi dimenticato: che creare non è un atto estetico, ma un atto spirituale. E che ogni vero artista è, in fondo, uno sciamano: colui che attraversa le ombre per riportare la luce.


"You don’t create, you die": il gesto fotografico come bisogno esistenziale

Quando Adam Fuss dice “You don’t create, you die”, non è una provocazione, né una posa da artista tormentato. È un’affermazione che va presa alla lettera. Per lui, davvero, il gesto del creare coincide con quello del respirare, e la sua intera opera, dagli esperimenti con la pellicola agli struggenti dagherrotipi, è una lunga meditazione sul fatto che, se non lasci una traccia, se non trasformi quello che ti attraversa in qualcosa di visibile, allora è come se non fossi mai stato.

Ma attenzione: questa “traccia” non ha nulla a che fare con la documentazione, con l’archiviazione del reale, come spesso accade nella fotografia tradizionale. In Fuss la fotografia non cattura: evoca. È una forma di invocazione. Di apparizione. Spesso lavora senza macchina fotografica: usa la luce direttamente sulla carta sensibile, o materiali antichi come il dagherrotipo, che richiedono tempo, pazienza, presenza. Niente è automatico, niente è immediato. È come se volesse rallentare il tempo, riportarlo a una dimensione primordiale, in cui ogni immagine ha un peso, una gravità, una responsabilità.

Pensiamo alla serie dei dagherrotipi: sono immagini che sembrano emerse da un altro mondo. Non tanto perché antiche nella forma, ma perché profondamente diverse nella sostanza. Non raffigurano: incarnano. Un corpo in un dagherrotipo di Fuss non è un modello, ma una presenza. E non è importante riconoscere chi sia, ma percepire che c’è stato. Il corpo come evento. Come ferita e rivelazione.

Nel dagherrotipo intitolato Christ, ad esempio, non vediamo un Gesù riconoscibile, non c’è croce, non c’è aureola. Eppure il riferimento è chiaro. È il corpo come sacrificio, come dono. Il corpo nudo, umano, vulnerabile. Quello che colpisce non è tanto la religiosità esplicita, quanto il fatto che l’immagine si pone come un’epifania. L’uomo che vediamo sembra fluttuare, sfuggire, dissolversi nella luce che lo colpisce. È una figura che si offre, che non ha difese. E questa offerta, questa nudità assoluta, è ciò che rende il lavoro di Fuss così intensamente spirituale, anche quando non parla di religione in senso stretto.

Anche Love e Death funzionano così: sono immagini che ci dicono qualcosa di essenziale sull’esperienza umana. L’amore non è descritto come erotismo, ma come esposizione. Un corpo che ama è un corpo che si espone al rischio, che si fa vedere, che si apre. La morte, allo stesso modo, non è un evento macabro, ma una trasformazione. I corpi nei dagherrotipi sono immobili, ma sembrano vibrare. C’è qualcosa che resta, che non si consuma. Come se la luce fosse riuscita a trattenere l’anima di chi è passato di lì. La fotografia, per Fuss, è una forma di reincarnazione. Il corpo non viene conservato, viene ritrasmesso.

E poi c’è un altro elemento fondamentale: la lentezza. Nella società in cui tutto scorre velocissimo, dove le immagini si consumano in pochi secondi, Fuss ci chiede di fermarci. Di guardare davvero. Le sue immagini non si possono scorrere con un dito. Bisogna stare lì. Aspettare. Lasciarsi toccare. Non è un’esperienza estetica, è quasi una liturgia.

In questo senso, il suo lavoro è molto vicino a quello di Francesca Woodman. Anche lei lavorava con il corpo, con la luce, con lo spazio. E anche in lei c’era questa urgenza di lasciare un segno, una presenza. Ma mentre Woodman sembra voler scomparire dentro le sue immagini, farsi fantasma, Fuss lascia che il corpo emerga, anche solo per un attimo. Il gesto è simile, ma le traiettorie sono diverse. In Woodman c’è il diario, la stanza, la solitudine. In Fuss, la camera è il mondo. L’immagine si fa rito collettivo, memoria condivisa.

Un altro confronto illuminante è con Bill Viola, che lavora col video ma ha una sensibilità molto affine. Viola rallenta il tempo, lo sospende, lo trasforma in qualcosa di liquido. Anche lui, come Fuss, si interroga su vita, morte, amore, presenza. Entrambi fanno un’arte che non è narrativa, ma esperienziale. Che chiede allo spettatore di abbandonare le proprie difese e lasciarsi attraversare. Che usa il corpo non per sedurre, ma per mettere in contatto. Tra vivi e morti, tra visibile e invisibile, tra presente e assenza.

E qui arriviamo al cuore del discorso. Quello che Fuss ci chiede non è solo di guardare. È di essere presenti. Di esserci. Di accettare che l’immagine non è solo ciò che vediamo, ma ciò che ci guarda, che ci interpella, che ci coinvolge. Le sue fotografie non sono decorative, non sono belle nel senso tradizionale. Sono vere. Sono vive. Sono reliquie laiche. Oggetti carichi di tempo, di memoria, di dolore, di grazia.

In un mondo dove tutto si consuma, Fuss crea immagini che resistono. Che hanno bisogno di essere toccate, guardate con lentezza, amate. E che, soprattutto, ci ricordano che se non creiamo, moriamo. Perché creare, in fondo, non è altro che un modo per restare. Per dire: “sono stato qui”. Per non svanire.


Adam Fuss: luce, corpo, spirito. Un pellegrinaggio fotografico tra gnosi e tantrismo

Ci sono artisti che operano all’interno del mondo dell’arte, e artisti che lo trascendono, non per disprezzo o distanza, ma per urgenza. Adam Fuss è tra questi. Non produce immagini per esprimere un concetto, né per illustrare un pensiero. Le sue opere non parlano “di qualcosa”: sono qualcosa. Sono manifestazioni di una presenza altra, di un altrove che si rivela attraverso materia, luce, liquido, carne. Il suo lavoro si colloca esattamente in quel crocevia dove la fotografia smette di essere rappresentazione e diventa epifania. E come ogni epifania autentica, esige una soglia, un passaggio, un rischio.

Fuss lavora lì dove l'immagine non è più superficie ma rito, dove ogni gesto tecnico è anche un atto sacro. È per questo che il suo universo dialoga così profondamente con due tradizioni mistiche che, pur distanti, si somigliano nella loro tensione verso una verità incarnata: il tantrismo orientale e la gnosi cristiana ed eretica. Due visioni che vedono il corpo non come ostacolo, ma come via; la carne non come errore, ma come enigma divino; la materia non come caduta, ma come traccia dell’invisibile. Adam Fuss è un mistico che usa la fotografia come uno yogi usa il respiro: non per decorare il reale, ma per attraversarlo.

Il corpo come soglia: il tantrismo e la pelle come icona

Nel tantrismo, soprattutto quello shivaita del Kashmir, si afferma con forza l’idea che la realtà ultima — il Brahman — non sia separata dal mondo dei sensi, ma si manifesti proprio attraverso di essi. L’esperienza mistica non è distacco ma immersione, il divino non va cercato “oltre” il corpo, ma dentro il corpo. In questa prospettiva, ogni gesto è potenzialmente sacrale, ogni contatto può essere iniziazione. E il corpo stesso è un tempio — non in senso metaforico, ma come spazio reale dove si celebra l’unione con il tutto.

Nelle fotografie di Fuss questa intuizione è palpabile. Non c’è nulla di voyeristico, nulla di edonistico. I corpi che affiorano nelle sue lastre, che si imprimono nel buio con tracciati di luce argentea, sono icone viventi. La pelle non è mai un limite, ma un tramite. È come se ogni figura fosse colta nel momento in cui smette di essere “sé” e diventa forma pura, simbolo, apparizione. Anche quando il corpo è assente, come nella serie delle “impronte” lasciate dall’acqua o dal calore, la sua eco permane. È il segno che resta del passaggio. Come un sutra inciso sul nulla.

Il neonato come figura cosmica: acqua, tempo, reincarnazione

Una delle immagini più celebri e toccanti dell’opera di Fuss è quella del neonato immerso nell’acqua. In molte delle sue fotografie, questi corpi minuscoli galleggiano sospesi, come se fossero appena nati o sul punto di nascere ancora. L’acqua li avvolge, li culla, li trasfigura. Ma quella non è acqua qualunque: è acqua primordiale, simbolo universale dell’origine, della rinascita, della dissoluzione.

Nel tantrismo l’acqua è Shakti, il principio femminile della creazione. Nella gnosi è il “mare del mondo”, la sostanza da cui l’anima cerca di emergere. In entrambi i casi, il liquido non è passivo: è vivo, cosciente, generante. Fuss lo sa bene. Quei neonati non sono individui, ma archetipi. Sono l’umanità intera nel suo momento più vulnerabile e, insieme, più prossimo al divino. Sono l’attimo in cui lo spirito si incarna e l’anima prende forma.

È impossibile non pensare al rito del battesimo, ma anche ai bagni sacri delle tradizioni orientali, o al simbolismo alchemico del ritorno all’elemento “acqua” come dissoluzione dell’io. Ogni fotografia è una piccola anabasi, un’uscita dal tempo ordinario. Come se Fuss ci dicesse che non c’è nulla di più sacro del momento in cui si comincia a diventare.

Il serpente, la kundalini, l’energia che sale

Un altro motivo ricorrente nella sua opera è quello del serpente. Serpenti vivi, lasciati liberi su carta fotosensibile, che con il loro movimento imprimono linee sinuose e arabeschi misteriosi. Anche qui, niente è decorativo. Il serpente non è scelto per il suo fascino esotico, ma per ciò che significa. Nella simbologia tantrica, il serpente rappresenta la Kundalini: l’energia latente alla base della spina dorsale che, se risvegliata, ascende verso l’illuminazione. È l’energia sessuale e spirituale al tempo stesso, indissolubilmente unite.

Ma il serpente è anche, per la gnosi, la figura della conoscenza che salva, della Sophia perduta che guida l’anima nel suo ritorno alla luce. È il serpente che parla ad Eva, non come tentatore, ma come rivelatore. Nelle correnti gnostiche, Eva è spesso una figura luminosa, un’alleata dell’uomo, non la causa della sua caduta. Fuss sembra aderire a questa visione. I suoi serpenti non sono minacciosi. Sono maestri silenziosi. Tracciano sentieri che non sappiamo leggere, ma che parlano al nostro inconscio.

La luce come pneuma: manifestazione dell’invisibile

E infine c’è la luce. Ma non la luce come fenomeno ottico, né come semplice strumento. In Fuss, la luce è l’anima stessa dell’immagine. È spirito, pneuma, soffio divino. Nei Vangeli gnostici si legge: “Ciò che è nato dallo spirito è spirito”. E ogni fotografia di Fuss sembra obbedire a questa legge. Le sue immagini non sono create per essere viste, ma per essere meditate. Non mostrano, ma rivelano. E lo fanno sempre in modo parziale, delicato, come se temessero di bruciare ciò che svelano.

L’uso di tecniche arcaiche — come il dagherrotipo, con la sua sensibilità estrema — è un’altra forma di rispetto per la luce. Non si tratta di dominare il medium, ma di ascoltarlo. Di lasciare che sia la luce a decidere cosa mostrare. Come in un rituale tantrico, dove il controllo cede al flusso, e il gesto tecnico diventa liturgia. Fuss non usa la luce. Le si affida.

Creare per non morire: la fotografia come via di salvezza

Tutto questo conduce alla frase emblematica che lui stesso ha pronunciato: “You don’t create, you die”. Una dichiarazione che non ha nulla di narcisistico o di egocentrico. Al contrario: è un’affermazione radicale di fragilità. L’arte, per Fuss, non è espressione, né rivendicazione. È resistenza spirituale. È il modo in cui l’anima sopravvive alla dispersione. Come gli gnostici che, perduti in un mondo materiale opaco, cercavano nel ricordo della luce un varco verso la verità, anche Fuss crea immagini non per piacere, ma per non perdersi.

E come nel tantrismo, dove il corpo è il veicolo stesso della liberazione, così nella fotografia di Fuss ogni atto tecnico diventa incarnazione del divino. L’artista è un tantrika dell’immagine: entra nel mondo sensibile per aprirlo, per ferirlo di luce, per farne trasparire l’invisibile. Ogni opera è un passaggio. Ogni forma è una reliquia. Ogni gesto è un saluto all’eterno.


Adam Fuss e la fotografia come esperienza dell’assenza e della presenza

L’opera di Adam Fuss rappresenta un punto di svolta nella storia della fotografia contemporanea, soprattutto perché non si limita a documentare o rappresentare il mondo visibile, ma tenta un’indagine profonda su ciò che la fotografia può evocare oltre la mera immagine. Il suo lavoro si sviluppa lungo un asse che potremmo definire ontologico: non si tratta di riprodurre il reale, ma di accedere a una sorta di realtà invisibile, a una dimensione in cui la presenza si manifesta attraverso la sua stessa mancanza.

Il celebre aforisma che gli si attribuisce, “You don’t create, you die” — “Tu non crei, tu muori” — è la chiave per comprendere questa sua poetica. Non è la mano dell’artista a forgiare un’immagine ex novo, ma è l’artista che si annulla, che si perde in un processo in cui l’immagine nasce dall’assenza, dal sacrificio, da un distacco profondo. La fotografia, allora, diventa un atto di morte e rinascita, di distruzione e di rivelazione: una forma di morte rituale, per usare un’espressione antroplogica, necessaria per generare nuova vita, nuova luce, nuova visione.

My Ghost: tra memoria, lutto e metafisica

Uno dei cicli più intensi e rappresentativi di questa ricerca è senza dubbio My Ghost. In queste opere, Fuss porta all’estremo la sospensione tra presenza e assenza. I suoi fotogrammi — ottenuti senza l’uso della macchina fotografica — catturano l’ombra, l’eco, il fantasma di ciò che non c’è più o di ciò che non è mai stato completamente manifesto.

L’uso di piccoli vestiti per bambini, delicati e quasi impalpabili, disposti sulla carta fotosensibile, ci offre un’esperienza emotiva unica e struggente. Il corpo umano è ridotto a traccia, a forma senza sostanza, un fantasma che rimanda al tema universale del lutto, ma anche a una metafisica della tenerezza e della memoria. Qui la fotografia si fa icona del dolore e della speranza, strumento che testimonia l’esistenza di un’anima e la sua fragilità.

Il gesto di fotografare, in questo caso, non è mera riproduzione, ma un rituale sacro. Come in una pratica mistica, l’artista si fa tramite di una presenza assente, un mediatore tra il visibile e l’invisibile. My Ghost ci invita a contemplare non ciò che vediamo, ma ciò che sentiamo e immaginiamo al di là del visibile, in uno spazio liminale dove l’anima appare e scompare.

Ark: l’archetipo della culla-nave e il simbolismo universale

La serie Ark rappresenta un altro momento fondamentale di questa ricerca. Qui, Fuss si concentra sulla forma archetipica della culla, ma la trasforma in un simbolo più ampio e profondo: la culla diventa arca, nave sacra, grembo originario che contiene la potenzialità dell’universo.

La culla è il luogo della nascita e della protezione, ma anche della morte e della rinascita. Il suo significato si estende ben oltre la realtà quotidiana per toccare le grandi narrazioni mitiche e religiose: l’arca di Noè, la barca solare egizia, il grembo femminile come luogo di creazione e di salvezza. In Ark, questa immagine si fa spazio sacro, luogo di passaggio e trasformazione, un contenitore vuoto che invita lo spettatore a riflettere sul senso della vita, del tempo e della memoria.

L’oscurità che avvolge queste fotografie e la luce che ne scolpisce i contorni non sono casuali. Sono una meditazione sul ciclo eterno della nascita e della morte, sull’interdipendenza tra presenza e assenza. L’arca è simbolo di speranza e di fragilità, ma anche di mistero e di trascendenza, una figura universale che attraversa tutte le culture e i tempi.

La spirale: geometria del sacro e del divenire

Uno dei temi iconografici più ricorrenti e misteriosi in Adam Fuss è quello della spirale, che compare spesso nelle sue fotografie sotto forma di impronte, disegni, motivi creati con la luce e il fumo. La spirale è un simbolo carico di significati profondi, presente in molte tradizioni spirituali e culturali.

Nel pensiero tantrico, la spirale rappresenta il movimento della kundalini, l’energia vitale che risale dalla base della colonna vertebrale verso la coscienza superiore. Nell’alchimia, la spirale è l’immagine del processo di trasformazione interiore: dal caos primordiale (nigredo) alla luce dell’oro filosofale. Nel contesto gnostico, simboleggia la discesa della Sophia e la risalita verso il pleroma, la casa divina.

Fuss cattura questa forma in immagini che sembrano sospese nel tempo e nello spazio, in un movimento che non è mai lineare, ma circolare, ritmico, infinito. Le sue spirali non sono solo forme visive, ma esperienze visive: danze di luce e ombra che suggeriscono il percorso spirituale dell’essere umano, il suo viaggio dalla materia allo spirito.

Dialoghi invisibili: Man Ray, Francesca Woodman e Minor White

La poetica di Fuss si inscrive in una tradizione che attraversa il Novecento, dialogando idealmente con altri grandi maestri della fotografia che hanno cercato di oltrepassare il mero realismo per raggiungere una dimensione più profonda.

Man Ray, con i suoi rayographs, aveva intuito il potere evocativo della luce e dell’ombra come strumenti di creazione di immagini che sfuggono alla logica della rappresentazione. Francesca Woodman, nei suoi autoritratti eterei e spesso dissolventi, aveva esplorato la fragilità dell’identità e la relazione tra corpo e spazio. Minor White, con la sua idea di “fotografia come poesia”, vedeva nell’immagine fotografica una porta verso la spiritualità, un mezzo per comunicare sensazioni interiori e verità nascoste.

Adam Fuss riprende e rinnova queste idee, spingendo la fotografia verso un territorio dove l’immagine non è più oggetto, ma soggetto spirituale. Come Bill Viola nei suoi video meditativi, anche Fuss ci invita a una contemplazione che va oltre il visibile, verso una esperienza dell’essere.

Il vuoto sacro: la dimensione dello spazio invisibile

Un aspetto centrale nell’opera di Fuss è la valorizzazione del vuoto. Il vuoto non è qui inteso come assenza semplice, ma come presenza potenziale, come uno spazio carico di energia e significato.

Nelle sue fotografie, le zone di luce e ombra, le aree bianche o nere, non sono vuoti privi di senso, ma spazi che invitano a una meditazione profonda. Come nella filosofia orientale, dove il vuoto è origine e fine di ogni cosa, così nelle immagini di Fuss lo spazio “vuoto” diventa luogo di rivelazione, di nascita e di morte.

Questo spazio è come una membrana, una pelle sottile tra mondi, un’interfaccia tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Nel silenzio di queste superfici si manifesta una presenza assente, un’eco lontana, un riflesso di ciò che l’occhio umano da solo non può cogliere.


L’arte di Adam Fuss ci invita a una trasformazione radicale del modo in cui concepiamo la fotografia e l’immagine. Non più mero strumento di rappresentazione, ma portale verso mondi invisibili, luogo di incontro tra vita e morte, luce e ombra, presenza e assenza. La sua ricerca è un cammino iniziatico che chiede allo spettatore non solo di guardare, ma di sentire, di meditare, di abbandonarsi a un’esperienza che è insieme estetica e spirituale.

Questo dialogo tra l’arte, la filosofia, la mistica e la sensibilità contemporanea fa di Adam Fuss un artista unico, capace di creare immagini che sono, in senso pieno, visioni: non solo fotografie, ma visioni dell’anima e della luce.


Adam Fuss e la tradizione mistica: gnosis, tantra e alchimia

L’opera di Adam Fuss non è solo una questione estetica o tecnica, ma si situa in un contesto di pensiero e pratica che affonda le radici nelle grandi tradizioni spirituali e mistiche dell’umanità. In particolare, possiamo leggere molte delle sue immagini come una sorta di icona contemporanea che riprende e rielabora simboli e concetti propri della gnosi, del tantra e dell’alchimia.

La Gnosis: il viaggio dall’ignoranza alla luce

La gnosi è una tradizione spirituale antichissima che si fonda sull’idea di una conoscenza diretta, intuitiva, della realtà divina, una conoscenza che trascende la mera fede o il dogma. Questa esperienza gnoseologica si basa sull’idea di un viaggio interiore, di un passaggio dall’oscurità all’illuminazione, dalla materia allo spirito.

Nei lavori di Fuss questo viaggio si traduce in immagini che sembrano emergere dal buio profondo, dove la luce non è mai semplice illustrazione, ma una forza viva, dinamica, quasi tangibile. Le sue spirali luminose, le impronte eteree, le figure fantasmatiche rimandano a questa idea di un percorso iniziatico, a una rivelazione che non è mai totale, ma sempre parziale, fuggevole, un lampo nell’oscurità.

La fotografia diventa così un mezzo di conoscenza, un oracolo che svela la presenza nascosta dietro le apparenze, e che invita lo spettatore a un’esperienza diretta e soggettiva del sacro. L’atto stesso di guardare diventa un rituale, una pratica meditativa.

Il Tantra: l’energia e la danza della creazione

Il riferimento al tantra si coglie soprattutto nella modalità con cui Fuss lavora con la luce e il movimento, nelle forme circolari e spiraliformi che compongono molte sue immagini. Il tantra è una tradizione che vede l’universo come un gioco di energie in continua trasformazione, in cui la dualità tra maschile e femminile, spirito e materia, luce e ombra si dissolve in una danza cosmica.

Le fotografie di Fuss sono simili a mandala di luce, figure che sembrano pulsare di energia, vibrare nel tempo e nello spazio. La luce non è mai statica, ma in movimento, flusso, respiro, come se fossimo testimoni di una danza invisibile che plasma l’universo.

Questa dimensione energetica rende le sue immagini non solo oggetti estetici, ma esperienze vitali, inviti a partecipare a un processo di trasformazione interiore. Guardare una fotografia di Fuss equivale a entrare in contatto con un’energia primordiale, un’energia che è insieme creativa e distruttiva, luce che nasce dalla morte.

L’Alchimia: trasformazione e rinascita

L’alchimia è la disciplina spirituale per eccellenza che simboleggia la trasformazione dell’anima attraverso processi di morte e rinascita, di purificazione e illuminazione. Nell’alchimia, la materia si trasmuta in spirito, il piombo in oro, e questo processo si riflette nel lavoro di Fuss nella tensione tra presenza e assenza, tra visibile e invisibile.

Le sue immagini, spesso caratterizzate da contrasti fortissimi di luce e ombra, evocano la nigredo, il momento oscuro dell’opera alchemica in cui tutto sembra dissolversi nel caos. Ma in questa oscurità si intravede già la promessa della rinascita, la luce che comincia a emergere, la forma che prende corpo dall’ombra.

In particolare, le fotografie in cui l’artista cattura spirali di fumo, riflessi d’acqua o impronte di insetti sono come momenti di quella opus alchemico in cui la realtà si disfa e si ricompone, un invito a riconoscere nella trasformazione continua la sostanza stessa dell’essere.


La camera oscura come spazio sacro e rituale

Un altro elemento fondamentale per comprendere il lavoro di Adam Fuss è la sua profonda relazione con la tecnica fotografica tradizionale, in particolare con l’uso della camera oscura. Nel mondo ipertecnologico della fotografia digitale, il suo ritorno a metodi antichi assume un valore simbolico e rituale.

La camera oscura è, in termini letterali e metaforici, un luogo di oscurità, di isolamento dal mondo esterno, dove la luce entra solo attraverso un piccolo foro per proiettare immagini effimere. Questo spazio si presta a una lettura mistica: è come una caverna interiore, un ventre oscuro da cui nasce la luce, il luogo in cui la visione si genera dal nulla.

Per Fuss, lavorare con la camera oscura significa praticare un atto di pazienza, di attesa, quasi di fede. Il fotografo si fa custode della luce, mediatore tra l’ombra e il chiarore, e l’immagine che nasce è frutto di una tensione tra il visibile e l’invisibile, tra il corpo e l’anima, tra il mondo terreno e quello spirituale.

Questo approccio rende ogni fotografia non un semplice documento, ma un oggetto sacro, un frammento di tempo e spazio intriso di mistero. È un invito a rallentare, a contemplare, a entrare in uno stato di presenza consapevole, quasi meditativa.


L’impatto di Adam Fuss sull’arte contemporanea e sullo spettatore

L’opera di Adam Fuss, proprio per questa sua capacità di evocare dimensioni profonde e invisibili, ha avuto un impatto rilevante non solo nel campo della fotografia, ma più in generale sull’arte contemporanea. In un’epoca segnata dalla sovrabbondanza di immagini e dalla superficialità della percezione, il suo lavoro ci ricorda che l’immagine può ancora essere esperienza, può ancora toccare la parte più intima e spirituale dell’essere umano.

Lo spettatore che si confronta con le sue fotografie è chiamato a un atto di apertura, di ascolto e di sospensione del giudizio. Non si tratta di capire, ma di sentire, di lasciarsi attraversare da ciò che appare e da ciò che non appare. È un’esperienza di vulnerabilità e di accoglienza, un dialogo silenzioso tra chi guarda e ciò che è guardato.

Questa dimensione rende l’opera di Fuss universale, capace di parlare a chiunque sia disposto a oltrepassare la superficie e ad abbracciare il mistero. In un mondo sempre più frammentato e caotico, la sua arte diventa un’oasi di calma, un luogo di pace e riflessione, un invito a riscoprire la bellezza che nasce dall’ombra e dalla perdita.


Adam Fuss e la dimensione temporale nel video e nell’installazione

Sebbene Fuss sia noto soprattutto per la sua fotografia, l’idea di catturare il tempo e il divenire è centrale anche nel video e nell’arte installativa contemporanea. Mentre la fotografia tradizionale cristallizza un istante, un frammento di realtà, il video e l’installazione espandono questa fissità, introducendo la dimensione del fluire e della trasformazione continua.

La poetica di Fuss si lega profondamente a un’esplorazione del tempo come fenomeno spirituale. Le sue immagini, pur statiche, sembrano vibrare di un movimento interno, un’energia che sfugge alla fissità del supporto e si avvicina all’esperienza temporale che il video può raccontare. La spirale di luce, il vortice di fumo, la traccia di un insetto sul vetro sono come momenti sospesi di un processo che continua oltre il fotogramma.

L’installazione, poi, con la sua capacità di coinvolgere lo spettatore nello spazio, permette una fruizione immersiva che completa e amplifica questa esperienza. Immagina una sala buia in cui le immagini di Fuss si animano lentamente, la luce si muove, i riflessi si trasformano, e lo spettatore è circondato da un’atmosfera sospesa tra realtà e sogno. È una proiezione dello stesso spirito di Fuss, che invita a un’esperienza non solo visiva, ma corporea e sensoriale.


L’arte come processo rituale e trasformativo

Un altro punto di contatto con linguaggi come il video e l’installazione è il ruolo dell’arte come processo rituale, un atto di trasformazione che coinvolge non solo l’artista, ma anche lo spettatore.

Fuss, con il suo lavoro nella camera oscura, crea un rito di passaggio tra il caos e l’ordine, tra l’ombra e la luce, in cui l’immagine non è mai definitiva ma sempre in divenire. Analogamente, molte installazioni contemporanee si basano su elementi effimeri, su cambiamenti graduali, su materiali in trasformazione, come acqua, fumo, luce, suoni.

Questa convergenza dimostra come la fotografia di Fuss non sia un’isola, ma parte di un più ampio movimento artistico che sfida la tradizionale staticità dell’immagine e apre a modalità di fruizione partecipative e pluristratificate.


Un dialogo con altri artisti e tradizioni

Se consideriamo l’arte contemporanea più ampia, troviamo diversi artisti che lavorano in modi affini o complementari a Adam Fuss, in particolare nel loro uso della luce, del tempo e della spiritualità.

Pensiamo a James Turrell, maestro della luce come esperienza sensoriale e meditativa, le cui installazioni trasformano lo spazio in un’esperienza di contemplazione pura. Oppure a Bill Viola, che usa il video per esplorare temi di morte, rinascita e trascendenza attraverso movimenti lenti e simbolici.

La poetica di Fuss, pur nella sua radicale semplicità tecnica, si inserisce con forza in questo dialogo, contribuendo a ridefinire i confini dell’immagine fotografica e la sua capacità di trasmettere un’esperienza che va oltre il visibile.


Focus sull’opera: “My Ghost” (1986)

Una delle immagini più potenti e rappresentative di Adam Fuss è My Ghost (1986), una fotografia che racchiude in sé molte delle tensioni e dei contrasti presenti nella sua poetica.

Questa immagine mostra una forma nebulosa, luminosa, che sembra fluttuare nell’oscurità, un’apparizione quasi spettrale che allo stesso tempo evoca la presenza e l’assenza. L’effetto è ottenuto tramite la tecnica della camera oscura, ma anche da una sapiente manipolazione della luce e dei tempi di esposizione, che rendono l’immagine un’esplosione di energia luminosa ma al contempo evanescente.


La dualità presenza/assenza

In My Ghost, il titolo stesso suggerisce il tema della doppia natura dell’immagine: il “fantasma” è ciò che appare e scompare, ciò che è visibile ma anche sfuggente, un’ombra di qualcosa che non è più presente. Questa dualità è centrale nella filosofia di Fuss: ogni immagine è la testimonianza di un momento di passaggio, di trasformazione, tra il mondo materiale e quello invisibile.

La luce nella fotografia non è solo un mezzo per “illuminare” l’oggetto, ma diventa essa stessa un soggetto, un’entità autonoma che pulsa e respira. È come se la luce fosse l’anima della cosa ritratta, il suo spirito che si manifesta per un attimo e poi si dissolve.


Il tempo come dimensione spirituale

My Ghost ci parla anche del tempo, ma non in senso lineare o cronologico. Il tempo in Fuss è circolare, sospeso, un presente che si dilata fino a includere passato e futuro. L’immagine è un “attimo eterno”, un momento di rivelazione che sfida il flusso continuo del tempo ordinario.

La tecnica della camera oscura, che permette una esposizione lunga e la sovrapposizione di immagini, rende possibile questo effetto: il fotografo cattura non solo un singolo istante, ma un insieme di momenti fusi in un unico segno.


Spiritualità e contemplazione

Guardare My Ghost è un’esperienza quasi meditativa. L’immagine invita a rallentare lo sguardo, a entrare in uno stato di attenzione quieta, a lasciarsi attraversare dalla sensazione di mistero. Non si cerca una narrazione esplicita o un significato definito, ma si apre uno spazio in cui lo spettatore può incontrare il proprio senso di trascendenza.

L’opera diventa così una sorta di icona laica, un frammento di sacralità contemporanea, capace di parlare a un pubblico ampio e variegato, che può riconoscere in essa la propria ricerca di senso.


Confronto con James Turrell e Bill Viola

Se pensiamo a James Turrell, il quale trasforma la luce in spazio sensoriale e luogo di incontro con il divino, vediamo un’analogia profonda: anche Fuss utilizza la luce non come semplice illuminazione, ma come materia vivente, capace di creare una presenza.

Con Bill Viola, maestro del video meditativo, la connessione è nel tempo dilatato e nella spiritualità che permea l’opera. Mentre Viola usa il movimento e il suono per accompagnare lo spettatore in un viaggio interiore, Fuss lo fa attraverso immagini fisse che vibrano di energia e presenza invisibile.


My Ghost incarna perfettamente l’idea che la fotografia, nella visione di Adam Fuss, sia un atto di creazione ma anche di dissoluzione, un momento in cui si muore e si rinasce insieme all’immagine. È un invito a vedere oltre la superficie, a toccare con lo sguardo ciò che è ineffabile, a partecipare a un rito visivo che collega il presente al mistero eterno.


L’immagine come presenza spirituale

In My Ghost, l’immagine non è semplicemente una rappresentazione, ma diventa una presenza, quasi un’entità viva che si manifesta nello spazio dell’osservatore. Non è un ritratto, né un paesaggio, ma un’apparizione luminosa che sfida la materialità della fotografia stessa.

Questa presenza è ciò che rende l’opera vicina a concetti propri delle tradizioni mistiche e spirituali: un’apparizione che si fa simbolo di ciò che è invisibile e oltre la comprensione razionale. Qui, la luce si comporta come una sorta di energia vitale, un soffio che anima la materia e la trasfigura.

L’opera si può leggere come una meditazione visiva sulla transitorietà e sull’impermanenza della vita: ciò che vediamo è un’eco, una traccia di qualcosa che è già passato o che sta per svanire. Ma proprio in questa caducità risiede una forma di eternità, perché l’immagine cattura quel frammento di tempo in cui tutto si sospende.


Camera oscura e il rito della creazione

La tecnica di Fuss, che lavora direttamente con la camera oscura, è fondamentale per comprendere l’approccio rituale al processo creativo. Nella camera oscura, l’immagine non è semplicemente catturata; si genera attraverso l’interazione tra luce, materia fotosensibile e tempo di esposizione.

Questo processo richiama un rito alchemico, dove si trasforma una sostanza grezza in qualcosa di prezioso e misterioso. Come in un rito, l’artista deve attendere, accogliere l’incertezza e la sorpresa, lasciando che l’immagine emerga dal buio senza controllo completo.

La dimensione temporale del lavoro di Fuss è quindi duplice: da un lato è legata al tempo concreto dell’esposizione e del procedimento fotografico; dall’altro è un tempo simbolico, un tempo sacro che sospende la linearità e apre a un’esperienza di presente eterno.


Il tempo come spirito e come materia

Il modo in cui Fuss rappresenta il tempo è inedito rispetto alla fotografia tradizionale. Non è più un semplice “istante catturato”, ma una spirale di tempo, una sovrapposizione di momenti che si fondono e si espandono nello spazio dell’immagine.

Questo concetto si avvicina alle teorie filosofiche di Henri Bergson, che vede nel tempo una durata vissuta, un flusso continuo che non si può ridurre a un insieme di istanti separati. Fuss traduce questa idea in una forma visiva: la sua immagine è un organismo temporale, che pulsa e respira.

La luce stessa, in questo contesto, diventa simbolo di spirito, quella forza invisibile che anima la materia e che trascende la fisicità delle cose. Come scriveva Platone, la luce è metafora di verità e conoscenza: qui, però, non è solo simbolo, ma realtà sensibile.


L’effimero e l’eterno: una dialettica essenziale

Il paradosso che permea My Ghost è quello tra l’effimero e l’eterno. La forma luminosa appare come un fantasma, fragile e destinata a svanire, ma proprio in questa fragilità c’è un’immutabilità: l’immagine sopravvive nel tempo dello spettatore, diventa memoria, traccia.

In questo modo, Fuss sfida la tradizionale opposizione tra vita e morte, presenza e assenza, suggerendo una continuità misteriosa tra questi poli. L’immagine fotografica è allora un ponte che collega mondi diversi: il visibile e l’invisibile, il presente e l’eterno.


Il ruolo dello spettatore: partecipazione e contemplazione

La visione di Fuss non si esaurisce nell’opera stessa, ma coinvolge profondamente chi guarda. Lo spettatore non è un semplice osservatore passivo, ma partecipa a un rito visivo che apre uno spazio di contemplazione e riflessione.

Questo è un punto che avvicina l’opera di Fuss alle pratiche meditative e contemplative di molte tradizioni religiose e filosofiche, dove la luce, il silenzio, il tempo sospeso diventano strumenti per l’incontro con il mistero e con sé stessi.


Un’opera contemporanea e universale

Nonostante la sua profondità spirituale, l’arte di Adam Fuss parla un linguaggio contemporaneo e universale. Non è vincolata a specifiche iconografie religiose, ma evoca un senso di sacralità laica che può risuonare in contesti culturali diversi.

In questo modo, My Ghost diventa un’opera che unisce tradizione e innovazione, scienza e mistica, tecnica e poesia, aprendo una via nuova per la fotografia contemporanea come mezzo di esperienza esistenziale.


Procediamo ora in tre direzioni intrecciate: il riverbero della dimensione spirituale in altre opere di Adam Fuss; i riferimenti filosofici che ne illuminano la struttura profonda (Bergson, Platone e non solo); e infine il confronto con le correnti contemporanee – New Media Art e Video Arte – che, pur divergendo nei mezzi, condividono alcuni orizzonti poetici e concettuali.


1. Il respiro del sacro in altre opere di Fuss

L’intera produzione di Adam Fuss si può leggere come una lunga meditazione sulla presenza dell’invisibile, sull’incontro tra materia e spirito, sulla vulnerabilità dell’esistenza e la sua misteriosa permanenza. Questa poetica si manifesta in modo emblematico non solo in My Ghost, ma anche in opere come le serie dei rayogrammi di bambini nell’acqua, delle orme di serpente, dei cuori di cavallo, o delle forme generate da ali di farfalla e fuochi d’artificio.

Nella serie con i bambini immersi nell’acqua (1999), ad esempio, l’acqua diventa mezzo amniotico, simbolo della vita prenatale e del ritorno all’origine. Il corpo infantile non è mai completamente visibile: è una presenza affiorante, un essere in formazione che galleggia tra due mondi, quello sensibile e quello spirituale. Qui la fotografia diventa un battesimo visivo, un’immagine che non fissa, ma lascia fluire.

Nella serie “Ark” (2006), in cui Fuss fotografa cuori di cavallo su lastre dagherrotipiche, il corpo animale – simbolo dell’energia e della sacralità arcaica – appare come icona cristologica: carne e luce si fondono, evocando la Passione, la morte, la redenzione. L’opera tocca la potenza ieratica del simbolo, senza mai cadere nella retorica.

Oppure si pensi alle orme di serpente impresse sulla carta fotosensibile. Anche qui la fotografia diventa rivelazione diretta: non rappresenta l’animale, ma la sua traccia, il suo passaggio, quasi un gesto pittorico primordiale. È una fotografia senza macchina fotografica, una forma di scrittura automatica e oracolare, dove la materia lascia parlare il tempo.

Tutto il lavoro di Fuss dunque incarna la dimensione spirituale attraverso segni, tracce, energie, e si avvicina a un’estetica dell’epifania: l’immagine non raffigura, ma manifesta.


2. Risonanze filosofiche: da Platone a Bergson (e oltre)

Platone: la luce come idea, l’immagine come ombra viva

In Platone, e in particolare nel Fedro e nella Repubblica, la luce è metafora della verità. L’anima aspira a uscire dalla caverna delle illusioni per contemplare le idee, ovvero le realtà eterne e immutabili. Fuss, però, non riproduce il modello gerarchico platonico, bensì lo rovescia: l’immagine fotografica non è l’ombra illusoria, ma l’apparizione che, proprio perché effimera, rivela l’idea nella sua assenza. L’immagine non simula, ma indica. È l’impronta di un’idea in fuga.

Le sue immagini diventano così forme della memoria (in senso platonico): echi di ciò che l’anima ha già visto, ma non può più trattenere del tutto. Una fotografia come anamnesi, come ricordo di un’altra vita.

Bergson: il tempo come durata fluente

Henri Bergson, in Matière et mémoire e in L’évolution créatrice, concepisce il tempo come durée, una continuità indivisibile che si vive interiormente, non come somma di istanti ma come flusso ininterrotto.

Fuss mette in atto questa visione con una fotografia che non cattura l’istante, ma lo lascia espandere: la lunga esposizione, l’assenza di un momento preciso, la qualità quasi liquida delle immagini evocano proprio la continuità bergsoniana. Le sue fotografie non sono scatti, ma eventi temporali che contengono il passato e il presente insieme.

Walter Benjamin: l’aura e il rito

Anche il pensiero di Walter Benjamin può illuminare Fuss, specialmente nella sua riflessione sull’“aura”, cioè l’unicità dell’opera d’arte come esperienza irripetibile nel tempo e nello spazio. L’uso di tecniche antiche (dagherrotipo, rayogrammi) da parte di Fuss è una forma di resistenza alla riproducibilità tecnica: ogni opera è un corpo unico, impregnato di tempo e di presenza. Si torna a una fotografia auratica, dove lo spettatore è chiamato a un’esperienza quasi liturgica.


3. Confronti: Fuss e le correnti contemporanee (New Media Art, Video Arte)

New Media Art: l’immaterialità e l’interattività

La New Media Art lavora spesso con installazioni digitali, ambienti interattivi, intelligenze artificiali, e linguaggi computazionali. È un’arte che tematizza l’immaterialità, la rete, la fluidità del dato. Ma proprio per questo, in un certo senso, Adam Fuss ne rappresenta l’ombra silenziosa.

Se i nuovi media dissolvono il corpo nell’interfaccia, Fuss ne recupera la sacralità. Se la New Media Art guarda al futuro tecnologico, Fuss evoca l’origine arcaica. Ma entrambi – paradossalmente – sfidano la fotografia tradizionale. Entrambi cercano il superamento dell’immagine fissa verso una esperienza temporale e partecipativa.

Video Arte: il tempo visivo come esperienza interiore

Artisti come Bill Viola hanno esplorato il tempo rallentato, l’esperienza spirituale e la morte come soggetti video. Viola e Fuss condividono una matrice simbolica: entrambi parlano di nascita, morte, soglia, trascendenza. Entrambi vedono il mezzo non come uno strumento documentario, ma come via per accedere a uno spazio altro, quasi rituale.

Fuss, però, fa questo senza movimento, senza narrazione, nel silenzio. Il suo tempo è quello dell’immobilità attiva, del germoglio che non si vede crescere ma cresce. È qui che si sente la sua radicale originalità: fa della fotografia una forma di meditazione estatica, al pari della musica di Arvo Pärt o dei video di Viola.


Fotografia come soglia tra mondo e spirito

In Adam Fuss, la fotografia ritorna al suo nucleo primordiale: la luce che tocca la materia e ne rivela il mistero. Non c’è spettacolo, né documentazione. C’è una domanda profonda sul tempo, sulla morte, sull’invisibile che abita la vita.

È un artista fuori moda e fuori tempo, e per questo profondamente contemporaneo: perché ci costringe a fermarci, a guardare ciò che non si mostra, a ritrovare il sacro in un mondo di immagini esauste. In un’epoca in cui tutto è istantaneo, Fuss crea immagini che durano, che chiedono tempo e restituiscono silenzio.:


Confrontare Adam Fuss con artisti come Francesca Woodman e Hiroshi Sugimoto significa immergersi in un territorio in cui la fotografia smette di essere una semplice immagine, per diventare qualcosa di più profondo, misterioso e a tratti spirituale. È come se, attraverso linguaggi diversi, ognuno di loro ci stesse suggerendo che ciò che conta davvero in una fotografia non è tanto quello che si vede, ma quello che non si riesce a vedere, quello che resta nascosto, eppure palpita.

Adam Fuss, per esempio, ci parla usando tracce. Le sue opere non sono fotografie nel senso convenzionale del termine. Spesso non c’è neppure una macchina fotografica. C’è la carta fotosensibile, c’è la luce, c’è qualcosa – un corpo, un serpente, un neonato immerso nell’acqua – che lascia la propria impronta. E quella traccia diventa immagine. Non vediamo davvero un serpente, ma vediamo l’essere serpente, la sua vibrazione, il passaggio di qualcosa di vivo. È come se la fotografia, per lui, fosse un atto magico, un modo per catturare l’anima delle cose.

Potremmo dire che la spiritualità di Fuss è molto terrena, molto incarnata. Parla della nascita, della morte, del corpo. Ma lo fa con uno sguardo quasi mistico, come se ogni gesto fosse parte di un rituale antico. È una spiritualità che somiglia al soffio vitale di certe religioni animiste, in cui ogni oggetto, ogni forma, è attraversata da un’energia invisibile.

Con Francesca Woodman entriamo in un’altra dimensione. Più intima, più inquieta, ma non meno intensa. Le sue fotografie ci mostrano quasi sempre il suo corpo – ma un corpo che si dissolve, che si fonde con l’ambiente, che diventa ombra, fantasma, sogno. Francesca sembra giocare con la propria immagine come una ninfa che si nasconde nel bosco. E la fotografia diventa per lei un linguaggio esoterico, carico di simboli, di gesti segreti. Non ci dà mai una figura intera, definitiva. Piuttosto, ci offre l’idea che l’identità sia qualcosa di sfuggente, che non si possa mai davvero afferrare. E forse è proprio qui che la sua spiritualità si manifesta: nella scomparsa, nella fragilità, nel silenzio. È una spiritualità del limite, della perdita. Una sorta di metafisica della sparizione.

E poi c’è Hiroshi Sugimoto, che a suo modo è ancora diverso. Le sue fotografie sono piene di tempo, ma un tempo immobile, sospeso. Pensiamo ai suoi teatri, fotografati con esposizioni lunghissime: tutto il film che viene proiettato si condensa in un solo scatto, e alla fine resta solo uno schermo bianco. È come se ci dicesse: “questa è la luce, nient’altro”. E quella luce diventa una porta sull’eternità. Sugimoto ci invita a contemplare, a restare fermi davanti all’immagine come davanti a un’icona. Non c’è narrazione, non c’è dramma: solo il silenzio, la forma, il vuoto. E proprio in quel vuoto si apre lo spazio del sacro.

Quello che colpisce, mettendo insieme questi tre artisti, è che tutti e tre sembrano allontanarsi dalla fotografia come semplice riproduzione della realtà. Nessuno di loro vuole mostrarci “com’è” il mondo. Vogliono invece farci sentire qualcosa. Una vibrazione, un’assenza, un oltre. In un certo senso, potremmo dire che usano la fotografia come una via per trascendere l’immagine stessa.

Ma ciascuno lo fa a modo suo. Adam Fuss ci porta nel cuore palpitante della materia, ci fa sentire la vita come un flusso continuo. Francesca Woodman ci parla di identità che si sgretolano, di presenze che diventano assenze. E Sugimoto ci invita al silenzio, alla contemplazione, alla meditazione.

Certo, si potrebbe dire che la loro è una fotografia spirituale, ma senza religione. Non c’è dogma, non c’è dottrina. C’è piuttosto un bisogno profondissimo di senso, un desiderio di toccare ciò che è immateriale, ineffabile. In tempi come i nostri, così saturi di immagini, così veloci, così rumorosi, i loro lavori ci ricordano che guardare può ancora essere un atto sacro. E forse, in questo gesto silenzioso, sta la vera potenza della fotografia.

Continuiamo allora, come in un racconto che lentamente si apre, dove ogni artista aggiunge una sfumatura, una possibilità diversa di intendere la fotografia come esperienza dello spirito, come atto meditativo, come soglia.

James Turrell, a rigor di termini, non è propriamente un fotografo, eppure è impossibile escluderlo da questo discorso. La luce, per lui, non è solo mezzo ma materia, non solo strumento ma oggetto stesso dell’opera. Quando entri in una delle sue installazioni, il tempo rallenta, il corpo quasi si dissolve, e lo sguardo viene chiamato a contemplare l’invisibile. I suoi spazi di luce — che siano “Skyspaces” o ambienti immersivi come quelli del Roden Crater — sono templi laici, in cui si sperimenta una sorta di epifania ottica. E se Fuss cattura la luce sulla carta fotosensibile, Turrell la costruisce nello spazio, la plasma, la fa accadere.

La spiritualità di Turrell affonda le radici nella sua educazione quacchera: il silenzio, la contemplazione, la ricerca della luce interiore diventano nel suo lavoro forme concrete, esperienze percettive che ci mettono in contatto con qualcosa che sta oltre l’occhio. In questo senso, il dialogo con Fuss è fortissimo: entrambi si muovono in territori dove la luce è rivelazione, ma mentre Fuss la lascia imprimere le tracce della vita e della morte, Turrell la trasforma in architettura dell’assoluto.

Bill Viola, dal canto suo, ha portato questa tensione spirituale dentro il linguaggio del video. Le sue opere sono spesso lente, quasi ipnotiche: figure che si muovono nell’acqua, corpi che bruciano, madri che partoriscono, anziani che si dissolvono nella luce. La sua estetica è profondamente influenzata dalla mistica cristiana, dalla poesia zen, dalla pittura rinascimentale. In Viola la spiritualità è incarnazione e ascensione insieme: il corpo è sempre presente, ma attraversato da una forza che lo oltrepassa.

Se Fuss lavora con il tempo come traccia, Viola lo dilata, lo sospende, lo rende quasi eterno. Le sue immagini in movimento sono come icone viventi, e lo spettatore è chiamato non a consumarle, ma a meditarle. L’opera diventa allora un esercizio spirituale, un modo per avvicinarsi al mistero della vita e della morte. E, come in Fuss, non c’è mai una risposta definitiva, ma piuttosto un’apertura, una tensione verso qualcosa che resta inafferrabile.

Paolo Gioli, infine, è forse il più sperimentale del gruppo, e anche il più enigmatico. La sua ricerca lo porta a costruire macchine fotografiche artigianali, a lavorare direttamente sulla pellicola, a creare immagini che sembrano affiorare dal sogno o da un’altra dimensione del tempo. Il suo sguardo è archeologico e insieme visionario. Come Fuss, Gioli è ossessionato dal corpo, ma lo frammenta, lo smaterializza, lo reinventa attraverso tecniche che sfuggono al controllo dell’autore.

La spiritualità di Gioli non è mai esplicita, eppure attraversa ogni suo gesto. È una spiritualità dell’alchimia, della trasformazione. Ogni immagine è un laboratorio in cui la carne diventa luce, la materia si trasfigura. E soprattutto, c’è in lui una fede quasi mistica nella potenza originaria della fotografia, nella sua capacità di generare visioni non filtrate dalla tecnologia, ma nate da un contatto diretto con l’energia stessa del mondo.

Tutti questi artisti — Fuss, Turrell, Viola, Gioli — sembrano mossi da una medesima urgenza: restituire all’immagine un valore sacro. Non sacro in senso religioso, dogmatico, ma nel senso più profondo del termine: ciò che è separato, ciò che richiede attenzione, rispetto, silenzio. In un’epoca in cui la fotografia è diventata consumo istantaneo, superficie, simulacro, loro ci ricordano che l’immagine può ancora essere un luogo in cui lo spirito si interroga, si perde e si ritrova.

E in fondo, se ci pensiamo, è proprio questo che rende il lavoro di Adam Fuss così importante: non solo la bellezza delle sue immagini, ma la loro capacità di riattivare in noi una domanda antica — quella sulla presenza, sul tempo, sul mistero di esistere.

Avanti allora, come se ci addentrassimo ancora di più nel sottosuolo vivo e inquieto che alimenta le immagini di Adam Fuss — quel sottosuolo filosofico dove la luce si fa pensiero e il tempo si fa domanda. Perché Fuss non è un artista che si possa comprendere soltanto attraverso il dato visivo: le sue immagini, per quanto silenziose e apparentemente semplici, sono cariche di tensione metafisica, di intuizioni che ci riportano a un’antica e mai risolta disputa tra il visibile e l’invisibile, tra l’apparire e l’essere.

Un primo riferimento inevitabile è Henri Bergson, filosofo del tempo vissuto come durata. Bergson contrapponeva il tempo scientifico, quello misurabile, fatto di istanti successivi, al tempo reale, vissuto interiormente come flusso, come continuità indivisibile. Ebbene, le immagini di Fuss, soprattutto quelle realizzate con il dagherrotipo o con la camera oscura, sembrano proprio emergere da questa durata bergsoniana: non registrano un istante, ma sedimentano una presenza, lasciano che la luce si faccia carne del tempo. Un corpo immerso nell’acqua, il profilo trasparente di un bambino, un serpente che si avvolge in se stesso: tutto è sospeso, ma non immobile; tutto è tempo che si è depositato come cenere sacra su una superficie.

C’è poi, ovviamente, Platone, con il suo Mito della Caverna. L’intera poetica di Fuss può essere letta come una risposta personale e radicale a quella parabola antica: l’idea che ciò che vediamo non sia che l’ombra di una verità più profonda, accessibile solo attraverso uno sguardo che sappia superare l’apparenza. In questo senso, la sua fotografia non è mai descrittiva, non è mai "documento": è sempre ricerca del noumeno, della forma invisibile dietro le cose. Come Platone, Fuss crede in un ordine che si manifesta solo a chi ha occhi per vedere — e i suoi occhi sono quelli del mistico, non del cronista.

Ma ci si potrebbe spingere anche più avanti, verso pensatori come Maurice Merleau-Ponty, che ha fatto del corpo il centro della percezione. Fuss, che fotografa il corpo senza macchina fotografica, imprimendone l’impronta diretta sulla superficie sensibile, ci invita a riflettere sulla fotografia come atto incarnato, come toccare attraverso la luce. Il corpo, nei suoi lavori, non è mai distante: è sempre presenza reale, urgenza fisica. Anche quando si tratta di un semplice battito d’ali, il suo passaggio è sempre corporeo. È un pensiero incarnato, dunque, quello che ci propone.

E ora veniamo al confronto con la New Media Art, che potrebbe sembrare, a prima vista, lontanissima da Fuss: una corrente spesso digitale, interattiva, tecnologicamente complessa, che si alimenta di codici, algoritmi, realtà aumentata. Eppure, a ben vedere, alcune domande sono le stesse. Anche nella New Media Art troviamo una riflessione sul tempo, sulla presenza, sulla coscienza. Anche lì si cerca spesso di superare la visione superficiale per accedere a un piano più profondo della realtà.

Pensiamo, per esempio, a Rafael Lozano-Hemmer, che lavora con installazioni luminose e biometriche, in cui la presenza del visitatore attiva l’opera. Il respiro, il battito cardiaco, la voce diventano parte dell'immagine. È un modo diverso, tecnologicamente mediato, per parlare di presenza e assenza, di vita e di traccia — un campo che Fuss, con mezzi analogici, esplora da sempre. O pensiamo a Harold Cohen e al suo AARON, uno dei primi programmi di intelligenza artificiale applicati alla pittura: la domanda lì è su cosa significhi "creare", su dove sia la soggettività, sull’invisibile dentro la macchina. Fuss, in modo opposto ma parallelo, ci chiede cos’è il gesto creatore quando non c’è occhio che scatta, ma solo luce che lascia un segno.

La differenza è forse nello stile, nella temperatura emotiva. La New Media Art tende spesso al freddo, al cerebrale, al concettuale. Fuss è invece profondamente sensibile, quasi medianico. Ma in entrambi i casi, l’opera non è più qualcosa da guardare, bensì un luogo dove accade qualcosa — un’interrogazione, un passaggio, una rivelazione.

Potremmo concludere dicendo che Fuss è un artista pre-digitalissimo e post-tecnologico insieme. Pre-digitale, perché lavora con procedimenti antichi, con l’arte della camera oscura e della lunga esposizione. Post-tecnologico, perché ci mostra che la fotografia può ancora essere — malgrado o proprio grazie alla sua semplicità materiale — uno strumento per pensare, per sentire, per vedere ciò che sta oltre.

Ma approfondiamo allora quella che potremmo chiamare la “vena orientale” nel lavoro di Adam Fuss — non tanto come adesione a una religione o a una pratica codificata, quanto come sintonia profonda con una visione del mondo che risuona con il pensiero buddhista, taoista e zen, soprattutto nei modi in cui questi sistemi interpretano la ciclicità dell’esistenza, la transitorietà delle forme e l’insondabilità dell’essere.

Fuss ha dichiarato più volte di non aderire a una religione in senso stretto, ma nei suoi lavori emerge con forza una sensibilità che potremmo definire mistica, nel senso più originario del termine: quella di chi cerca l’unione con ciò che è nascosto, ineffabile, non riducibile al linguaggio. In questa prospettiva, i concetti orientali di impermanenza (in sanscrito anicca) e di vuoto fertile (lo śūnyatā buddhista, o il wu taoista) diventano chiavi di lettura estremamente feconde per comprendere le sue immagini.

Prendiamo, ad esempio, la serie delle fotografie di bambini nell’acqua, o quella dei serpenti: in entrambe è evidente il movimento sotterraneo di un pensiero che non teme il passaggio, il divenire, ma anzi lo assume come condizione necessaria della bellezza. La creatura immersa nell’acqua è nel pieno della trasformazione; non è né prima né dopo la nascita, ma in una soglia. E il serpente, con il suo continuo mutare pelle, è un simbolo archetipico di rigenerazione, di morte che è in realtà metamorfosi. Non c’è compiacimento estetico in queste immagini, ma una sorta di meditazione visiva sull’impossibilità di fissare la vita: ogni forma è transitoria, ogni immagine è un’onda che si ritrae.

Questa visione si avvicina moltissimo al pensiero zen, dove l’atto della creazione artistica è inteso non come produzione, ma come rivelazione di un flusso già esistente. L’artista non è colui che impone una forma al reale, ma colui che si fa strumento attraverso cui il reale si manifesta. E questo è esattamente ciò che Fuss fa quando rinuncia alla macchina fotografica, affidandosi alla luce, all’acqua, al calore, alle reazioni chimiche: egli non “scatta”, ma “riceve”. È come un monaco che copia un sutra non per affermare sé stesso, ma per lasciarsi attraversare da qualcosa di più grande.

È in questa ottica che possiamo comprendere meglio l’ossessione di Fuss per la nascita e la morte. In molte sue opere troviamo riferimenti espliciti all'inizio e alla fine della vita, ma mai in modo didascalico o narrativo. La nascita è, per lui, un’apparizione improvvisa: un evento cosmico, più che biologico. Nei dagherrotipi che ritraggono bambini appena nati, o nei lavori in cui utilizza la placenta come soggetto, c’è sempre un senso di mistero, di irriducibilità. La nascita non è un punto di partenza, ma un’apertura verso l’ignoto. Allo stesso modo, la morte non viene mai rappresentata con toni drammatici, ma come una dissoluzione della forma, una sparizione lieve, come accade nel buddismo tibetano, dove la morte è solo una transizione, una fase del bardo, il passaggio da uno stato all’altro dell’essere.

Un’opera come The Ark (1995), una grande immagine di un bambino nell'acqua, è esemplare in questo senso: il corpo sembra fluttuare in uno spazio che non è né terrestre né celeste, un limbo liquido che ricorda tanto l’utero quanto il fiume della morte. Il titolo stesso evoca la salvezza, ma anche l’ambiguità dell’inizio e della fine: l’arca è rifugio e transito, nascita e fine del mondo. È lo stesso tema che ritorna in molte fotografie di Fuss: l’idea che ogni apparizione contenga in sé la propria sparizione, e che ogni assenza lasci una traccia viva.

Se volessimo trovare un punto di connessione con il pensiero taoista, potremmo dire che Fuss fotografa il Dao stesso, o meglio: le sue increspature. Il Dao, come sappiamo, è ciò che non si può nominare, ma che permea tutto, il principio fluido e impalpabile del reale. Le sue immagini, fatte di trasparenze, dissolvenze, gesti minimi e materiali effimeri, sono esattamente ciò che Laozi potrebbe definire “una forma del senza forma”.

Ecco perché la sua fotografia è così profondamente antinarrativa: non racconta, non descrive, non spiega. Fa silenzio. Invita lo spettatore a sostare in un tempo diverso, più vicino alla contemplazione che all’analisi. In questo senso, Fuss potrebbe essere avvicinato a un altro grande artista spirituale: James Turrell, che usa la luce per generare esperienze di percezione pura, e al quale Fuss è legato da un analogo amore per l’indicibile. Ma mentre Turrell costruisce spazi di immersione totale, Fuss si muove su una scala più intima, quasi auratica, cercando nel piccolo il riflesso dell’eterno.

E infine, non possiamo dimenticare che in molte filosofie orientali il vuoto non è un’assenza, ma una pienezza potenziale. Il vuoto come spazio di nascita, come grembo cosmico. Le superfici nere dei suoi dagherrotipi, che si accendono improvvisamente di luce e forma, sono questo vuoto: lo śūnyatā che si fa visione. Non c'è messaggio, se non la presenza muta della vita stessa.

Procediamo allora in questa direzione che si fa sempre più densa, quasi mistica, come lo spazio nero e lucente dei dagherrotipi di Adam Fuss. Ci troviamo ora di fronte a due figure fondamentali della mistica occidentale — Plotino e Meister Eckhart — che, sebbene lontani nel tempo e nello stile, condividono un’idea centrale che ci aiuta a penetrare ancor più a fondo nella dimensione spirituale della fotografia di Fuss: l’idea che l’Uno (o Dio) non possa essere colto attraverso il pensiero discorsivo, ma solo attraverso un’esperienza diretta, estatica, spogliata da ogni forma. E che l’immagine, se intesa come epifania e non come rappresentazione, possa diventare veicolo di questa ascesi.

Plotino, filosofo neoplatonico del III secolo, concepisce l’intero universo come emanazione dell’Uno: una sorgente inconcepibile, assolutamente semplice, dalla quale tutto discende per gradi, come onde da una fonte luminosa. Il ritorno all’Uno avviene non attraverso il ragionamento, ma tramite una purificazione dello sguardo, un’ascesi dell’anima che si libera delle molteplicità sensibili per ricongiungersi alla sua origine. In questa visione, la bellezza non è mai solo sensibile: è ciò che nell’apparenza risplende di una presenza invisibile. Una fotografia di Fuss, allora, non è mai solo ciò che mostra — un serpente, un neonato, una piuma, un’esplosione d’acqua — ma ciò che traspare attraverso l’apparenza, e che ci invita a un movimento verso l’unità perduta. È un segno che conduce all’Uno.

C’è in lui una chiara eco di questa impostazione neoplatonica: la luce che imprime il supporto fotografico non è solo fenomeno fisico, ma logos luminoso che fa emergere un ordine nascosto, come se la forma fosse chiamata a partecipare, anche solo per un istante, a qualcosa che la trascende. Le sue immagini, spesso realizzate senza obiettivo, sono letteralmente tracce luminose dell’invisibile, come se la materia si lasciasse attraversare da una forza che non si può nominare. E questo ci porta dritti a Meister Eckhart, il mistico renano del XIII secolo, per il quale l’unione con Dio avviene nel deserto interiore, nel vuoto assoluto del pensiero, laddove l’anima “lascia essere Dio in sé”, smette di nominare, smette di volere.

Eckhart parla spesso di uno sguardo spogliato, un vedere senza oggetto, un lasciar fluire ciò che è. Questo è sorprendentemente simile alla poetica visiva di Fuss, che toglie l’io dall’atto fotografico: niente macchina, niente cornice, niente scelta del punto di vista. Solo un disporsi. Un’offerta. La sua arte è, in questo senso, una preghiera visiva: non un’invocazione rivolta a un’entità esterna, ma un’apertura radicale all’ignoto. Le sue opere non chiedono di essere comprese, ma abitate — come si abita un mantra, o una meditazione.

Pensiamo alla serie My Ghost, in cui l’ombra di un bambino si staglia sul fondo lattiginoso della carta fotografica. La figura non è nitida, ma emerge come eco, come apparizione. Non si tratta di un ritratto, ma di un’affermazione del mistero della presenza: un esserci fragile, transitorio, eppure sacro. È l’immagine come reliquia, come luogo in cui qualcosa è accaduto, e continua ad accadere. Come scriveva Eckhart, “l’anima deve imparare a vedere senza vedere”. E Fuss ci costringe a fare lo stesso: ci priva del racconto, dell’identità, della narrazione, per lasciarci nudi di fronte alla sola cosa che conta — l’accadere stesso della visione.

Ma qui la preghiera non è fatta di parole. È una preghiera muta, quasi cosmica, come quella che si ritrova anche nella poesia di Rilke o nei silenzi di Rothko. È il silenzio che si fa forma, l’ascolto che si fa immagine. In questo senso, le fotografie di Fuss sono icone negative: non raffigurano il divino, ma lo ospitano, come un’icona bizantina rovesciata, dove la luce non viene dipinta ma lasciata filtrare. Sono finestre sull’invisibile, in cui l’assenza non è mancanza, ma condizione di apparizione.

Il confronto con la New Media Art, in questo contesto, diventa ancora più interessante. Mentre molti artisti contemporanei utilizzano il digitale per moltiplicare le possibilità espressive, Fuss — paradossalmente più radicale — torna a processi arcaici proprio per avvicinarsi a ciò che resiste al controllo, all’intervento, al progetto. È come se ci dicesse che per toccare l’essenza non servano più strumenti, ma meno. Non sovrapporre, ma togliere. Non costruire, ma essere lì, con l’immagine, come si è con la fiamma di una candela. Per questo le sue opere sono esperienze spirituali prima ancora che estetiche: non si guardano, si contemplano.

Andiamo avanti addentrandoci ancor più nel vortice di questa esperienza visiva, dove l’immagine smette di essere semplice superficie e si fa luogo d’incontro tra tempo, memoria e presenza. Il legame tra l’opera di Adam Fuss e la memoria spirituale — nel senso profondo e non lineare in cui la intendeva Agostino d’Ippona — apre una nuova traiettoria interpretativa che ci permette di cogliere la sua fotografia come esercizio di anamnesi, ovvero di ritorno a un’origine perduta ma sempre inscritta nell’anima.

Per Agostino, la memoria non è solo archivio dei ricordi, ma uno spazio interiore in cui l’anima si apre a Dio. Nelle Confessioni, egli esplora la propria interiorità come un vasto palazzo della mente, in cui sono custoditi non solo i dati sensibili, ma anche le idee eterne, i numeri, le emozioni, le esperienze che ancora non sono accadute ma che attendono di accadere. È in questo spazio che Dio si rende presente, non come oggetto esterno, ma come luce interiore che tutto illumina. Fuss sembra avvicinarsi a questa concezione: le sue fotografie non sono testimonianze del reale, ma apparizioni che provengono da una memoria primordiale, da una zona della coscienza dove nascita e morte, visibile e invisibile, sono già in dialogo.

In opere come quelle della serie Ark, dove animali morti (serpenti, colombe, topi) vengono fotografati a contatto diretto con il supporto fotosensibile, l’immagine non è mai macabra né illustrativa. È, piuttosto, traccia di un passaggio, reliquia di qualcosa che è avvenuto in silenzio. In esse si deposita un tempo non cronologico, un tempo kairos, irripetibile, che si avvicina al concetto agostiniano di presentia aeternitatis: quel presente eterno in cui l’anima si affaccia sulla soglia del divino. L’immagine fotografica, in Fuss, è proprio questa soglia.

In questo senso, il paragone con l’estasi visiva di artisti come Mark Rothko e Anish Kapoor si rivela estremamente fecondo. Rothko, nei suoi tardi monocromi, non offre né figura né narrazione, ma solo campi di colore che vibrano come superfici vive. Le sue tele, profondamente influenzate dalla mistica ebraica, sono finestre su una presenza che si fa assenza, su un silenzio che pulsa. Osservare un Rothko significa entrare in una sospensione del tempo, in uno spazio dove il colore non rappresenta nulla ma invita, avvolge, assorbe. Allo stesso modo, Fuss lavora per sottrazione: rimuove la macchina, il controllo, la messa in scena, per far sì che l’immagine accada da sé — per impronta, per contatto, per epifania.

Kapoor, d’altra parte, crea cavità, spazi concavi, abissi scultorei che sfidano la percezione e invitano l’occhio a perdersi. Le sue opere in pigmento scuro o specchi convessi portano lo spettatore a confrontarsi con il vuoto, con il non-luogo dell’esperienza spirituale. Anche in lui, come in Fuss, l’arte è esperienza del limite, del punto in cui il visibile si dissolve nel suo contrario. Kapoor stesso ha dichiarato: “Voglio fare un luogo che non sia un luogo”. Anche Fuss sembra voler creare immagini che non siano immagini, ma soglie, passaggi, preghiere silenziose.

La fotografia diventa allora una forma di meditazione, un esercizio spirituale che riconnette il corpo al tempo, il tempo all’eterno, l’eterno al gesto più umile — come far cadere una goccia d’acqua su una lastra, o posare un neonato su un panno fotosensibile. La luce che attraversa queste immagini non è solo fisica, ma ontologica: illumina ciò che non ha nome, ciò che non si può catturare. Come nella memoria spirituale di Agostino, in cui ogni immagine è eco di qualcosa che ci precede e ci abita.

Proseguiamo allora inoltrandoci in territori ancora più sfumati, dove l’immagine non è più traccia di qualcosa che fu, ma accadimento del vuoto, fessura percettiva, eco dell’invisibile. Il lavoro di Adam Fuss si lascia attraversare con sorprendente coerenza da ciò che, nella cultura zen, è espresso dal concetto di mu — un termine che può essere tradotto, solo approssimativamente, come “non-essere”, “assenza” o “negazione aperta”. Ma mu non significa semplicemente “niente”: è una risposta che, negando la dualità, apre alla totalità. È il rifiuto del sì e del no, del pieno e del vuoto come opposti, per giungere a una comprensione che è al di là del linguaggio, nel silenzio dell’intuizione.

Questa estetica dell’assenza vibra profondamente nel metodo e nella materia delle opere di Fuss: l’uso della camera oscura, della luce naturale, della chimica elementare della fotografia diretta è una forma di sottrazione che non impoverisce, ma libera. L’immagine non è costruita, ma lasciata emergere; non imposta, ma attesa. Le sue fotografie di acqua, per esempio, non sono rappresentazioni dell’acqua, ma la sua stessa traccia luminosa. In esse non c’è riflesso, ma immersione. Come nel mu, il gesto creativo è un passo indietro: non si tratta di aggiungere forma al mondo, ma di lasciar parlare ciò che è già presente, e che sfugge.

In questo senso, Fuss si avvicina sorprendentemente alle riflessioni di Jean-Luc Nancy sull’“iconicità debole”. Per il filosofo francese, nell’epoca contemporanea l’immagine non può più essere idolo, presenza forte, piena. Non può pretendere di mostrare l’assoluto, ma deve diventare ciò che lui definisce immagine-debole: fragile apparizione, sospensione del senso, esposizione all’invisibile. L’“icona debole” è quella che, pur offrendosi allo sguardo, si sottrae alla presa, rimane aperta, interrogativa, quasi preghiera. Esattamente come le immagini di Fuss, che non ci spiegano nulla ma ci espongono a un enigma.

Si pensi ancora alle fotografie dei bambini — neonati, spesso, ripresi su superfici fotosensibili: non ritratti, ma epifanie, orme di una presenza appena discesa nel tempo. Non ci dicono chi sono, non ci danno biografia: ci mettono in contatto con il mistero stesso del venire al mondo. Lì si compie quella soglia dell’essere che Nancy chiama ex-peausition, la pelle come superficie che espone, ma anche come ciò che vela e contiene il segreto del vivente. In Fuss, come in Nancy, l’immagine è vera solo se resta incompiuta, indifesa, esposta all’alterità.

Questa visione così radicalmente aperta all’enigma dell’essere ha sorprendenti consonanze con l’arte funeraria egizia. A prima vista, il confronto potrebbe sembrare azzardato, ma se si guarda in profondità, si coglie come anche in quella tradizione l’immagine fosse pensata non come semplice rappresentazione, ma come strumento ontologico, presenza attiva, sopravvivenza dell’anima. Nella cultura dell’Antico Egitto, il ritratto del defunto, scolpito o dipinto nel sarcofago, non era un ricordo, ma una duplicazione dell’essere, una sua proiezione nell’eternità. L’immagine conteneva la possibilità del ritorno, la permanenza dello spirito (ka), e per questo doveva essere essenziale, icastica, capace di durare.

Anche le immagini di Fuss, pur nella loro fragilità, aspirano a questa funzione spirituale. Non sono semplici impronte ma icone medianiche, corpi di passaggio tra questo mondo e l’altro. Il serpente, l’uovo, l’acqua, il bambino: sono emblemi universali, sintomi del ciclo, segnali di una continuità che sfida la morte. Se le immagini funerarie egizie servivano a custodire l’anima, le immagini di Fuss sembrano custodire il senso del passaggio stesso, la tensione fra vita e oltrevita, fra luce e tenebra. La fotografia, come nell’Antico Egitto, diventa non tanto mimesis quanto magia: un’azione che protegge, collega, trasforma.

Forse è proprio in questo intreccio di estetica zen, pensiero fenomenologico e iconografia arcaica che si svela il senso più profondo dell’opera di Fuss: l’immagine non come oggetto da guardare, ma come rito da attraversare, come spazio sacro in cui ciò che vive e ciò che muore non sono più opposti, ma fasi dello stesso respiro.

Inoltriamoci ora in due direzioni che si richiamano a vicenda: da un lato, la teoria deleuziana del divenire immagine, intesa come processo metamorfico che dissolve la centralità del soggetto e apre alla pluralità del sensibile; dall’altro, la dimensione alchemica e iniziatica del lavoro di Adam Fuss, che si manifesta tanto nei materiali quanto nei simboli, in un percorso visivo che appare sempre come trasformazione del visibile in rituale di conoscenza.

Per Gilles Deleuze, l’immagine non è mai semplicemente “ciò che si vede”, ma un campo di forze, un flusso di trasformazioni. La sua filosofia dell’immagine si oppone tanto alla concezione rappresentativa quanto a quella iconografica classica: per Deleuze, ciò che conta è il divenire, non l’ente. In questo senso, il suo pensiero ha un’affinità profonda con il cinema sperimentale, con le pratiche visive che non costruiscono un significato, ma che si fanno evento, mutazione. La fotografia di Fuss è esattamente questo: un campo in cui la luce non disegna ma trasmuta, dove i soggetti (l’acqua, il bambino, l’animale, l’organo vitale) non sono mai definitivi, ma divenienti, porosi, aperti al loro altro. In queste immagini, non c’è mai uno stato, ma una soglia.

Fuss si muove allora come un alchimista visivo, manipolando la luce e il tempo non per creare immagini, ma per attraversarle. La fotografia non è mai riproduzione, ma passaggio di stato. Si pensi, ad esempio, alla serie dei fotogrammi d’acqua: non si tratta di “vedere” l’acqua, ma di assistere a un evento di luce che è già trasfigurazione. Come nella fase alchemica della solve et coagula, ciò che si scioglie si prepara a ricomporsi: l’immagine non è mai stabile, è materia in fermento. Questo approccio “magico” alla fotografia, che non teme di evocare l’oscuro, l’informe, il germinale, trova sorprendenti affinità anche con l’idea di immagine-tempo deleuziana: l’immagine non è lo specchio del mondo, ma il luogo in cui tempo e corpo si incontrano per divenire qualcosa d’altro.

Da qui emerge anche la dimensione iniziatica dell’opera di Fuss. Ogni sua fotografia è un varco, una prova, un enigma. L’iniziazione, in tutte le tradizioni, è un passaggio da uno stato a un altro, ma è anche uno scardinamento della percezione, un trauma del senso che prepara a una nuova visione. Le immagini di Fuss sono iniziatiche perché mettono in crisi lo sguardo: non si comprendono immediatamente, non si “leggono”, ma si sentono. Sono sacrali nel senso più profondo, perché non mostrano il sacro, ma lo generano. L’immagine, in quanto traccia di un evento invisibile, si fa allora simbolo vivo, non decorativo ma attivo, proprio come nei testi ermetici o nei diagrammi tantrici.

Se vogliamo, Fuss riesce a costruire una mistica dell’immagine che non è religiosa ma ontologica. L’immagine è l’unico luogo in cui l’Essere può ancora manifestarsi, sia pure in forma frammentaria, instabile, effimera. E questa sua apertura ontologica, questa sua tensione verso il senso, lo avvicina sorprendentemente anche all’universo di Francis Bacon, che secondo Deleuze dipingeva non l’uomo, ma il corpo-senza-organi, la carne che si fa intensità. Anche in Fuss non c’è mai volto, mai identità, ma solo forme in tensione, curve luminose, filamenti, esplosioni di energia silenziosa.

Ed è qui, forse, che la fotografia di Fuss tocca il suo vertice: quando smette di essere immagine e si fa luogo iniziatico, sacrario del divenire. In essa si compie una trasmutazione della materia, come nel processo alchemico che non trasforma il piombo in oro, ma l’oscurità in coscienza, il caos in luce. Le sue immagini non ci parlano di qualcosa: sono il rito stesso del passaggio, il momento in cui la materia si fa spirito e il visibile si apre all’invisibile.

Entriamo allora nel vivo di un confronto filosofico che può illuminare la poetica di Adam Fuss in modo più profondo, attraverso due grandi temi: la fenomenologia della carne in Merleau-Ponty e la riflessione sul tempo e la rivelazione nella filosofia di Giorgio Agamben.

Partiamo da Merleau-Ponty, il cui pensiero si fonda sull’idea che la percezione non sia un semplice ricevere dati esterni, ma un incontro incarnato con il mondo, mediato dalla carne. La carne, per Merleau-Ponty, non è solo il corpo fisico, ma quel tessuto sensibile che connette soggetto e mondo, visione e materia, presenza e apertura. La percezione non è mai una mera rappresentazione: è un evento di contatto vivo, di scambio continuo, in cui il soggetto è sempre immerso in un mondo che si manifesta e si nasconde, che appare e sfugge.

Ora, pensando a Fuss, la sua fotografia sembra incarnare esattamente questa fenomenologia della carne. Le immagini di Fuss non sono oggetti fermi, ma sensazioni incarnate, visioni in cui la luce attraversa la materia vivente in un gioco incessante di rifrazioni e dissolvenze. L’acqua, il corpo, il sangue, il feto sono resi in modo tale da mostrare non la loro forma chiusa, ma la loro sensibilità, il loro essere in relazione fluida con lo spazio e con il tempo. Qui la carne non è materia morta, ma corpo-vissuto, un crocevia di percezioni e sensazioni in movimento.

In questo senso, la fotografia di Fuss va oltre il semplice immagine statica: diventa un evento percettivo che coinvolge lo spettatore non solo a livello visivo ma corporeo, emotivo, quasi tattile. Guardare un’immagine di Fuss è come toccare l’immateriale, sentire il fremito della vita nascosta dietro la superficie luminosa. La carne di Merleau-Ponty si traduce qui in una carne della luce, un corpo che pulsa nella fotografia, una presenza che è insieme visibile e invisibile, concreta e ineffabile.

Passando ora al rapporto tra tempo e rivelazione, Giorgio Agamben fornisce una chiave illuminante. Nella sua riflessione filosofica, il tempo non è semplicemente un continuum misurabile, ma un luogo di potenzialità e di attesa, un momento in cui si può aprire uno spazio per la rivelazione, per l’emergere di un senso nascosto. Agamben parla di un tempo sospeso, un tempo messianico, in cui l’istante si dilata e diventa apertura al non ancora detto, al non ancora visto.

Questa idea si rispecchia nella fotografia di Fuss, che spesso cattura momenti sospesi, eventi che non sono semplicemente “istantanei”, ma trasformativi, in cui il tempo si fa liquido e si perde in una sorta di eterno presente. I fotogrammi d’acqua, le immagini di neonati o di organismi in divenire, sembrano congelare un attimo che è simultaneamente passato, presente e futuro, un attimo che si apre a una rivelazione interiore, a una luce che squarcia l’oscurità del tempo lineare.

La fotografia di Fuss non racconta una storia, non narra un evento definito, ma apre una soglia in cui il tempo si dissolve e si trasforma in esperienza rivelativa. Lo spettatore è chiamato a partecipare a questo tempo dilatato, a vivere quel momento di sospensione in cui qualcosa si mostra ma resta misterioso, in cui la luce non illumina solo il visibile, ma anche ciò che è nascosto dietro e dentro la materia.

Il dialogo tra la fenomenologia della carne di Merleau-Ponty e la nozione di tempo-rivelazione di Agamben nel lavoro di Fuss si traduce così in un invito radicale: la fotografia non è solo immagine, ma evento di presenza, di partecipazione sensibile e temporale, un rito in cui la carne e il tempo si incontrano per trasformare lo sguardo e aprire una porta sul senso profondo dell’esistere.

Proseguendo nella nostra esplorazione, è essenziale soffermarsi su come i processi tecnici di Adam Fuss non siano mai meri strumenti, ma si configurino piuttosto come veri e propri riti materiali attraverso cui la fotografia si fa evento, rivelazione, carne visiva. Fuss non utilizza la macchina fotografica nel senso tradizionale, ma predilige tecniche primarie come il fotogramma o il dagherrotipo, strumenti che rimuovono la distanza tra soggetto e mezzo, tra luce e superficie, tra tempo e materia.

Nei suoi celebri fotogrammi — come quelli dei bambini immersi nell’acqua o dei serpenti che guizzano in spazi oscuri — l’immagine nasce da un contatto diretto tra oggetto e superficie fotosensibile, senza la mediazione di una lente. In questo gesto tecnico, quasi liturgico, la fotografia non registra, ma imprime; non cattura, ma lascia affiorare. È un atto di esposizione radicale, una sorta di “scrittura della luce” che risuona profondamente con la nozione fenomenologica di presenza come incarnazione e con l’idea agambeniana di rivelazione come potenza sospesa.

In questo senso, la tecnica di Fuss si fa filosofia incarnata: ciò che viene impresso sulla carta sensibile non è tanto l’oggetto rappresentato quanto la traccia del suo esserci, del suo esserci stato in quel punto, in quell’istante, in quella tensione tra luce e buio, tra apparizione e sparizione. È qui che il lavoro di Fuss si avvicina al pensiero di Georges Didi-Huberman, il quale ha sottolineato come l’immagine sia sempre un sopravvivente, un frammento di presenza che attraversa il tempo e ci parla non della cosa in sé, ma del suo trapassare, del suo rivelarsi nel mentre che svanisce.

Didi-Huberman, come Agamben, insiste sulla nozione di immagine come reliquia, come resto vivo e vibrante di qualcosa che è stato e continua a parlare. E Fuss, con le sue immagini ottenute attraverso processi lenti, delicati, quasi alchemici, ci mostra proprio questo: la fotografia come apparizione spirituale, come corpo che resiste al tempo e alla morte. È il caso delle sue serie dedicate all’acqua e alla nascita, ma anche di quelle sui dagherrotipi di teschi o di oggetti arcaici, che sembrano provenire da un altrove temporale e simbolico.

La lentezza dei suoi processi è già di per sé un atto di resistenza alla velocità della cultura visuale contemporanea. Fuss si sottrae alla logica della riproduzione seriale, alla frenesia digitale, e si affida a una temporalità contemplativa, rituale, in cui ogni immagine è un’offerta, un dono, un mistero da attraversare. In questo senso, il suo lavoro è anche una critica implicita alla New Media Art, che spesso enfatizza l’interattività o l’informazione piuttosto che l’intensità percettiva e spirituale.

E tuttavia, proprio nella sua ostinata anacronia, Fuss si rivela paradossalmente contemporaneo: perché ci ricorda che la fotografia non è solo ciò che mostra, ma ciò che ci costringe a rallentare, a vedere di nuovo, a sostare. È qui che possiamo chiamare in causa anche Walter Benjamin, con la sua nozione di aura: quell’alone di irrepetibilità che si sprigiona da un’opera e che ci chiama in uno spazio-tempo unico. Fuss lavora esattamente in questa zona auratica, ma lo fa non per riprodurla, bensì per farla riemergere dal profondo della materia.

Inoltre, nel suo uso del dagherrotipo, Fuss si inserisce in una genealogia che risale alla nascita stessa della fotografia, ma la piega a una nuova consapevolezza: quella di un tempo espanso, liturgico, in cui l’immagine diventa soglia fra visibile e invisibile. Questa soglia è anche il luogo della trasformazione, e qui si potrebbe citare Bachelard e la sua poetica degli elementi: l’acqua, il fuoco, l’aria che nei lavori di Fuss non sono semplici fondali ma forze attive, vettori simbolici e spirituali.

E c’è da notare come Fuss lavori sulla memoria non come archivio, ma come ciò che ritorna nell’immagine in forma di presenza vibrante. Una memoria che non accumula, ma riaccende, come nella riflessione agostiniana sulla memoria spirituale — dove ciò che è ricordato non è più, ma è ancora nel cuore, nella visione, nella luce. Le immagini di Fuss sembrano interrogare proprio questo: che cosa sopravvive, che cosa permane nel vedere, quando la materia è stata abbandonata, ma la luce è rimasta?

Ma addentriamoci nell'opera di Adam Fuss, seguendo le sue serie fotografiche più emblematiche come impronte di un rito, e aprendo via via il discorso sul concetto più ampio di immagine rituale e del suo ritorno — o forse della sua sopravvivenza carsica — nella sensibilità contemporanea.

Tra i lavori più noti e paradigmatici di Fuss c’è senz’altro la serie "Invocation", dove il soggetto è il corpo nudo di un bambino immerso nell’acqua, catturato attraverso il fotogramma. L’immagine non è nitida: appare quasi liquida, evanescente, come se il corpo stesso fosse fatto d’acqua e di luce. Qui, il gesto fotografico si trasforma in un battesimo visivo, in un rito che segna una soglia: la nascita, certo, ma anche l’uscita dalla materia verso una dimensione simbolica. Il corpo del neonato non è rappresentato: è offerto, donato alla luce. L’acqua diventa grembo cosmico, la carta fotosensibile una placenta alchemica. E il fotografo, in questo contesto, è officiate di un’azione che trascende il visibile.

Una seconda serie fondamentale è quella dei dagherrotipi di teschi, dove la tecnica arcaica del dagherrotipo viene applicata non per la celebrazione della vita borghese — come avveniva nell’Ottocento — ma per interrogare la materia della morte come principio di visibilità. Queste immagini non hanno nulla di macabro: sono iconostasi del tempo, ritratti della soglia. La morte, nei dagherrotipi di Fuss, non è negazione, ma silenzio rivelatore. Il teschio diventa una presenza che non ci guarda, ma ci convoca. E ancora una volta, non si tratta di “fotografare” qualcosa, ma di creare lo spazio della sua apparizione. Come se il dagherrotipo, con il suo tempo di esposizione lunghissimo, evocasse uno spirito piuttosto che registrare una cosa.

Passiamo poi alla serie degli snakes — serpenti striscianti lasciati liberi su grandi fogli fotosensibili. È forse l’opera più vicina a una liturgia profana. Il serpente, simbolo arcaico di trasformazione e rigenerazione, si muove sulla superficie sensibile come uno scriba primordiale. Non c’è controllo, non c’è cornice: solo movimento, luce, e tracciato. Il risultato sono forme astratte ma potentemente evocative, in cui il corpo del serpente è divenuto segno, cifra, calligrafia del sacro. Il serpente come linea viva che scrive una lingua dimenticata.

L’immagine, in Fuss, è sempre rituale, nel senso più profondo del termine: non rappresenta, ma riattiva. Ogni sua opera è uno spazio-tempo separato, consacrato, un “altare” visivo in cui si dà luogo a qualcosa che eccede il visibile. Qui risuona il pensiero di Mircea Eliade: il rito come ripetizione dell’archetipo, come attualizzazione del tempo sacro. E Fuss, con la sua fedeltà ai gesti lenti, al contatto diretto, alla luce che svela e brucia, compie esattamente questo tipo di riattivazione.

Nel mondo dell’arte contemporanea, dominato spesso dall’ironia, dalla provocazione, o dalla meta-riflessione, il lavoro di Fuss si staglia come una testimonianza anacronica e radicale di una spiritualità non confessionale, ma profondamente incarnata. È in questo senso che la sua opera si collega a una più ampia valenza mistica dell’immagine nella contemporaneità. Pensiamo a James Turrell, a Bill Viola, ad Anish Kapoor: tutti artisti che, in modi diversi, restituiscono all’immagine o alla forma un potere di soglia, di apertura su uno spazio altro.

Questa risorgenza del mistico visivo è forse una reazione alla saturazione iconica della nostra epoca. Quando tutto è visibile, il desiderio si sposta verso ciò che resiste, verso l’immagine che non mostra tutto, ma custodisce un silenzio, una profondità. Fuss non ci invita a guardare, ma a contemplare. Le sue fotografie sono icone laiche, strumenti di meditazione, di raccoglimento, di ascolto.

E in fondo, anche se la sua estetica è minimale, spoglia, a tratti quasi ascetica, essa non rinuncia mai alla bellezza. Una bellezza fragile, ambigua, fatta di chiaroscuri, di apparizioni in bilico. È una bellezza che ci guarda nel profondo, perché non ci distrae, ma ci trattiene. Non ci intrattiene, ma ci mette alla prova.

Apriamo mestamente un ulteriore fronte d’indagine, e addentriamoci in quella che potremmo chiamare l’area invisibile dell’opera di Adam Fuss: quel campo immaginale dove i suoi lavori si incontrano con le pratiche esoteriche, con la funzione rituale delle immagini votive, e con l’antica idea della soglia — non solo come spazio liminare, ma come condizione stessa dell’apparizione.

La fotografia, in Fuss, non è mai semplicemente una tecnica: è un atto, un’offerta, un’evocazione. In questo senso, il suo lavoro si inscrive in una lunga e sotterranea tradizione esoterica, dove la luce non è solo fenomeno fisico, ma veicolo di rivelazione. Si pensi, ad esempio, all’alchimia, e al concetto di “materia lucida”: ciò che, attraversato dalla luce, cambia stato, si trasmuta. Le immagini di Fuss — che siano teschi, serpenti, bambini, o spirali — partecipano proprio di questo processo trasformativo: la materia fotografata non viene semplicemente “rappresentata”, ma subisce una mutazione, un passaggio di stato, diventando icona di qualcosa che la trascende. La pellicola non registra, ma accoglie; il gesto fotografico non riprende, ma apre un varco. E in questo varco, si insinua — quasi sempre silenziosamente — il tempo.

È tempo sacro, certo, ma anche tempo personale, tempo perduto, tempo che ritorna: le fotografie di Fuss sembrano spesso nate da un lutto, o per scongiurarlo. In molte serie, soprattutto quelle che coinvolgono l’infanzia, si avverte un’eco struggente di perdita: i bambini non hanno volto, sono trasparenze, tracce. Come in una fotografia spiritica ottocentesca, l’invisibile è più presente del visibile. Fuss sembra dirci: ciò che amiamo di più, è ciò che non possiamo trattenere. E in questo, la sua poetica diventa un’elegia senza parole.

Non stupisce allora che le sue immagini siano votive nel senso più profondo del termine: sono offerte, reliquie, preghiere visive. Non oggetti da guardare, ma presenze da rispettare. Come nelle antiche tavolette votive greche o nelle immagini dei santi, il valore non sta tanto nella somiglianza, ma nella funzione. Le fotografie di Fuss non vogliono “essere” qualcosa: vogliono agire. Sono strumenti di meditazione, di contatto, di ricordo. E come nelle immagini votive, ciò che conta è il gesto che le accompagna: l’intenzione, la cura, il tempo.

Questo ci porta al cuore stesso della sua estetica: la semiotica della soglia. Fuss lavora sempre sulla soglia: tra visibile e invisibile, tra vita e morte, tra presenza e assenza. Ogni sua immagine è un portale. Non a caso, l’uso del fotogramma — tecnica primitiva, pre-fotografica — è il segno di un ritorno a un’origine, ma anche di una tensione verso il non detto. Il fotogramma è il negativo assoluto, la traccia pura: non registra un’immagine, registra un contatto. È lì che si gioca tutto: nel passaggio. L’immagine non è il risultato finale, ma il punto in cui qualcosa passa, si lascia intravedere, poi si ritrae.

Ecco allora che il lavoro di Fuss parla — senza alcun bisogno di parola — del tempo: non del tempo lineare, cronologico, ma del tempo kairos, il tempo dell’occasione, dell’apparizione. È il tempo in cui qualcosa accade perché deve accadere. È lo stesso tempo dell’amore: imprevisto, folgorante, irripetibile. E infatti, nelle sue immagini, l’amore è sempre accennato, mai esibito. È l’amore come attenzione, come presenza, come apertura al mistero dell’altro. Che si tratti del corpo di un neonato, di una piuma, di un serpente o di una spirale, ciò che Fuss ama è ciò che guarda con reverenza.

Ma se le sue immagini parlano d’amore, parlano anche — inevitabilmente — di perdita. Perché nulla di ciò che mostrano può essere trattenuto. La luce brucia, cancella, dissolve. Il teschio nei suoi dagherrotipi non è lì per spaventarci, ma per ricordarci la nostra natura di passaggio. E così, ogni immagine è anche un memento, un frammento di ciò che non tornerà, ma che per un attimo, grazie al gesto fotografico, si è residualmente offerto al nostro sguardo.

In un mondo in cui l’immagine è diventata merce, intrattenimento, messaggio, il lavoro di Adam Fuss resta radicalmente altro: un gesto arcaico e rivoluzionario di silenzio. Le sue immagini non gridano, non convincono, non persuadono: attendono. E nell’attesa, ci interrogano. Ci domandano cosa siamo disposti a vedere — e cosa siamo disposti a perdere — pur di tornare a sentire.

Ecco, un nuovo segmento, dove l’opera fotografica di Adam Fuss si apre a un dialogo sorprendente con il cinema contemplativo e, parallelamente, si rivela come uno dei nodi più sensibili — e segreti — dell’arte sacra contemporanea. In entrambe le direzioni, ciò che emerge è una nozione di immagine che non intrattiene, non informa, ma trasforma: un'immagine che non serve, ma serve a qualcosa, nel senso antico del sacro e del servizio.

Partiamo dal confronto con il cinema contemplativo — pensiamo a registi come Tarkovskij, Apichatpong Weerasethakul, Béla Tarr, Tsai Ming-liang, o ancora il primo Terrence Malick. Come in Fuss, anche in questi autori la temporalità è espansa, il ritmo è rallentato fino a toccare la soglia dell’immobilità, e soprattutto l’immagine non è più strumento di narrazione ma sede dell’accadere, luogo d’epifania. Tarkovskij parlava della scultura del tempo: Fuss, silenziosamente, sembra scolpire la luce con la stessa densità rituale. In entrambi i casi, l’immagine si dà come rivelazione, non come descrizione.

Così. Ii lavori di Fuss sembrano appartenere al cinema senza essere cinema. Ogni sua immagine è un fotogramma che contiene il fuori campo del mondo, ma lo contiene nel silenzio assoluto, come una stilla di luce sospesa. La spirale, il serpente, l’eco luminosa di un corpo infantile: sono apparizioni, non rappresentazioni. Come nei lunghi piani-sequenza di Béla Tarr, o nei vuoti abitati di Tsai Ming-liang, è il tempo stesso che diventa protagonista. E l’attesa — la sospensione — non è una condizione passiva, ma il luogo stesso dell’incontro con l’invisibile.

Questo ci porta naturalmente a un secondo snodo: l’influenza di Fuss sulle forme contemporanee di arte sacra. In un’epoca in cui il sacro fatica a trovare un linguaggio che non sia retorico o museale, Fuss indica una via nuova, o forse antichissima: quella di una iconicità senza dogma, capace di generare emozione mistica senza bisogno di simboli espliciti. Le sue immagini non raffigurano il divino, ma lo invocano. Non mostrano Dio, ma ci mettono in uno stato di attenzione verso il suo possibile passaggio.

Qui il legame con l’arte sacra è fortissimo, ma anche profondamente rinnovato. Le immagini di Fuss potrebbero essere collocate in una chiesa sconsacrata, in un tempio zen, in una sala cinematografica muta o in una stanza per meditazione: in tutti i casi, funzionerebbero come soglie. Ciò che conta non è il soggetto, ma il campo di risonanza spirituale che l’immagine genera. Ed è per questo che molti artisti contemporanei che si muovono in territori affini — come Anish Kapoor, Wolfgang Laib, Bill Viola — potrebbero dialogare naturalmente con lui, in una liturgia visiva condivisa, fatta di silenzi, di luce e di perdita.

Ma è proprio la luce il cuore di tutto. La luce come corpo mistico dell’immagine. Fuss non fotografa la luce: la fa agire. Nei suoi lavori, la luce non illumina: plasma, invade, consuma, trasfigura. È come se la luce stessa fosse il soggetto, e non il mezzo. Come in certi passaggi del Vangelo di Giovanni, o nella mistica ebraica del Tzimtzum, la luce ha un’intelligenza propria, un’intenzione, una volontà. E nel toccare la materia — un cranio, un neonato, un’ombra — la fa parlare in silenzio.

Potremmo anche dire che in Fuss l’immagine non è fatta di luce, ma che è luce incarnata. E qui il parallelo con la pittura di Rothko si fa inevitabile: non solo per l’intensità mistica del colore, ma per quella vocazione alla sparizione, alla soglia, all’oltre. Ogni immagine di Fuss è un’ascensione, un transito, un’evanescenza che lascia il cuore pieno di una presenza che non si può afferrare.

E se la luce è corpo mistico, allora ogni stampa fotografica diventa una reliquia luminosa. Non resta che avvicinarcisi con la stessa reverenza con cui si tocca una reliquia o si entra in un monastero: in punta di piedi, nel silenzio, accettando che non tutto sarà spiegato, ma che qualcosa — forse — ci trasformerà.

In un’epoca in cui l’immagine è diventata urlo — accelerazione, provocazione, slogan visivo — l’opera di Adam Fuss assume, silenziosamente, un valore politico radicale. Non gridare, non correre, non vendere: in un mondo in cui tutto ciò che è visuale è subordinato al marketing, alla performance o al trauma, Fuss sceglie il rallentamento, la sospensione, il mistero. E questa scelta, lungi dall’essere una fuga mistica, è un gesto di resistenza.

La sua fotografia è politica non perché denuncia, ma perché disobbedisce. Disobbedisce alle logiche dello spettacolo, alla dittatura dell’attualità, alla pornografia del dolore. In un sistema visivo saturato da immagini-merce, Fuss lavora fuori mercato, nel senso più profondo del termine: i suoi soggetti (l’acqua, la luce, la morte, il serpente, il neonato) non sono beni da consumare, ma presenze da contemplare. Le sue opere sono, letteralmente, inutili — e dunque libere.

Questo posizionamento lo pone, anche inconsapevolmente, all’interno di una critica ontologica della visione contemporanea. Se l’immagine digitale è diventata onnipresente, ma sempre più incorporea e incontrollabile, Fuss torna al gesto alchemico del contatto: la luce che incide la materia. Niente postproduzione, nessun filtro, nessun effetto: solo l’evento dell’immagine che si genera nel tempo reale dell’esistenza, in uno spazio che assomiglia più a un laboratorio ermetico che a uno studio fotografico.

C’è qualcosa di profondamente antagonista in questa pratica. In un mondo che ci abitua a scorrere centinaia di immagini al giorno senza mai soffermarci davvero, Fuss ci costringe a fermarci. Le sue fotografie non si capiscono subito. Non sono per tutti. Non raccontano, non spiegano, non chiedono like. Al contrario, chiedono silenzio, tempo, una forma di attenzione che è già una forma di preghiera laica. E in questo, sfidano direttamente l’economia dell’attenzione, forse più di molte immagini militanti.

Se oggi la velocità è il vettore ideologico della comunicazione, allora la lentezza diventa una contro-narrazione politica. E se il rumore visivo globale è parte del dispositivo di controllo e di normalizzazione dei corpi, allora il silenzio, il vuoto, il mistero possono ancora generare spazi di libertà.

Ancora, la fotografia di Fuss appartiene a quella linea d’ombra dell’arte contemporanea che lavora con l’invisibile per criticare l’ipervisibile: pensiamo a artisti come James Turrell, Agnes Martin, Doris Salcedo, o ai registi della slow cinema. Tutti, in modi diversi, hanno fatto del tempo, della luce e del silenzio luoghi di insurrezione sensibile.

C'è anche una forma di ecologia visiva nel suo lavoro: la sua è un’immagine a basso impatto, non invasiva, che non aggredisce l’occhio ma lo invita a mutare. In un mondo in cui l’immagine è usata per consumare, Fuss fotografa per trasformare — e questo è forse l’atto più politico che si possa compiere oggi con una macchina fotografica.

Confrontare Adam Fuss con artisti come Giuseppe Penone, Steve McQueen e Sophie Calle ci permette di estendere il discorso sulla fotografia come atto resistente, non tanto in senso ideologico o didascalico, ma nel senso più sottile e radicale del termine: come contro-forma del visibile, come politica della percezione.

Penone, con la sua estetica dell’impercettibile e del tempo biologico, condivide con Fuss una sensibilità tattile e contemplativa: entrambi lavorano sul limite tra presenza e assenza, tra corpo e natura, tra traccia e rivelazione. La scultura vegetale di Penone, in cui l’artista “ascolta” la crescita degli alberi o segue la morfologia della pelle, è affine al processo di Fuss, che lascia che la luce “accada” sul supporto fotosensibile. Entrambi producono immagini senza rappresentazione, che sono piuttosto delle emanazioni: segni di una relazione con ciò che eccede il linguaggio.

Steve McQueen, artista visivo oltre che regista, porta la questione su un terreno più marcatamente politico, ma con strumenti altrettanto meditativi. Pensiamo a opere come Static o Ashes: immagini che si muovono con lentezza, quasi con timore, di fronte a soggetti vulnerabili. Anche per McQueen, come per Fuss, il tempo è un corpo che si vede. In entrambi, la pratica artistica è un esercizio di sguardo radicale: non per mostrare, ma per portare alla soglia, per restituire una dignità allo spazio dell’invisibile.

Sophie Calle, invece, ci introduce nel territorio dell’intimo come resistenza. Il modo in cui Calle mette in scena l’assenza, la perdita, il dolore — attraverso fotografie, testi, reliquie affettive — risuona con la poetica di Fuss, sebbene in forma diaristica e autobiografica. In entrambi, c’è una liturgia del gesto, un tentativo di attraversare il tempo mediante un’immagine che si fa rito, non spettacolo.

Questa idea di immagine resistente trova una potente teorizzazione nella filosofia contemporanea. Jacques Rancière, nel suo concetto di partage du sensible, descrive l’arte come un atto di ridistribuzione dello spazio sensibile, un modo per ridefinire cosa è visibile e cosa no, chi può parlare e chi no. Le immagini di Fuss, nella loro apparente neutralità, operano esattamente su questo piano: spostano la soglia, ci obbligano a vedere l’invisibile, a sentire ciò che normalmente è rimosso.

In parallelo, Georges Didi-Huberman ci offre una chiave decisiva: l’immagine non è mai solo ciò che appare, ma ciò che sopravvive — una forma di resistenza del tempo nel tempo. Le fotografie di Fuss, che parlano di nascita e morte, di luce e oscurità, sono per Didi-Huberman vere e proprie immagini-matrice, capaci di mettere in scena la lotta tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che si mostra e ciò che si cela.

Esattamente Fuss lavora non per esibire, ma per evocare. Ogni sua immagine è un campo di forze, un luogo in cui l’evento accade senza che possa essere pienamente afferrato. E proprio per questo, le sue fotografie resistono: al tempo, all’interpretazione, alla mercificazione. Sono immagini che non si consumano, non si esauriscono. E questa loro incompiutezza, questa loro ritrosia, è il loro gesto più politico.

Parlare della fotografia come forma di sopravvivenza dell’anima ci porta al cuore più profondo — e perturbante — del lavoro di Adam Fuss. Le sue immagini non vogliono documentare né rappresentare, ma trasmettere. Sono soglie, apparizioni, epifanie silenziose. In questa dimensione sospesa tra il visibile e l’invisibile, si innesta un dialogo fecondo con il pensiero di Jacques Derrida e di Aby Warburg.

Partiamo da Derrida, e dalla sua ossessione per la traccia, per l’assenza che insiste dentro la presenza. In Mal d’archive (1995), Derrida esplora l’idea dell’archivio come forma di sopravvivenza, come luogo in cui ciò che non è più continua a scrivere, a inscriversi. La fotografia, per Derrida, è uno spettro: conserva l’impronta di ciò che è stato, ma al tempo stesso la distanzia, la sposta, la rende inafferrabile. È memoria che si fa fantasma, che si sottrae mentre si offre. E che resiste proprio perché non si lascia mai del tutto possedere.

Nel caso di Fuss, questa riflessione si fa tecnica. Il suo rifiuto della macchina fotografica tradizionale, il ricorso alla camera oscura, al dagherrotipo, al fotogramma diretto, sono pratiche che mettono in scena una assenza viva: non c’è un autore visibile, non c’è un soggetto che posa, ma qualcosa che si imprime — come in un rito. Il suo è un archivio animato, un’anima che pulsa dentro la materia sensibile della luce e della carta. Le immagini che ne nascono — placente, ombre d’acqua, serpenti, farfalle, bambini — sono icone di passaggio, resti vitali di qualcosa che non può essere detto, ma solo intravisto.

Da un’altra angolazione, anche Aby Warburg ha tentato, nel suo Atlas Mnemosyne, di dare corpo a questo pensiero visivo della sopravvivenza. Le immagini, per Warburg, non sono meri documenti di un’epoca, ma forme che sopravvivono, che attraversano il tempo come patosformeln, formule del pathos: tracce di emozioni, gesti, traumi e rivelazioni che si ripetono, si trasformano, ritornano. Fuss, in questo senso, è un artista warburghiano: le sue immagini non sono legate a un istante, ma all’energia che sopravvive all’istante. Non congelano il tempo, ma lo lasciano scorrere, si fanno varco, ritmo, fiume.

In una delle sue serie più note, Fuss imprime su carta la forma di una placenta. Non è un’immagine medica, né religiosa, né simbolica: è qualcosa che sta tra. La vita che non è ancora parola, la morte che non è ancora lutto. In quell’immagine c’è un’eco dell’inconscio collettivo, come avrebbe detto Warburg: una tensione tra il cosmo e il corpo, tra natura e spirito. L’immagine come placenta, dunque, come organo di trasmissione tra mondi.

Così, la fotografia si fa anima incarnata, e non nel senso spiritualistico del termine, ma come memoria che persiste nella materia, come evento che non si esaurisce nella visione. È qui che Fuss raggiunge la soglia della mistica — e anche quella del pensiero politico: perché ci costringe a ripensare cosa sopravvive e perché.

La sua arte sembra dirci che non è la memoria a salvare l’immagine, ma è l’immagine a salvare la memoria. E forse anche l’anima (ma proprio forse). E proseguendo questo percorso — che si muove come un filo tra immagine e sopravvivenza, tra memoria e rivelazione — il dialogo tra Adam Fuss, Aby Warburg e Walter Benjamin si fa sempre più ricco, stratificato, e talvolta vertiginoso.

Nel pensiero di Warburg, le immagini non sono mai inerti. Non sono segni da decifrare o documenti da collocare in una cronologia. Sono forme di vita, forze latenti, che si trasmettono come impulsi, come gesti congelati nel tempo, e che — all’improvviso — possono risorgere. Questa idea di Nachleben, la “sopravvivenza”, è centrale anche nel lavoro di Fuss. Le sue immagini non raccontano, non illustrano: ritornano, come memorie arcaiche che non abbiamo mai avuto, ma che riconosciamo.

Ogni sua fotografia sembra contenere una tensione interna, come le immagini dei pannelli dell’Atlante Mnemosyne: sono icone che si spostano tra epoche e linguaggi, ma sempre portandosi dietro un’emozione irrisolta, un’energia psichica. Fuss non costruisce immagini, ma le libera, come se già esistessero in un altrove temporale e lui fosse solo il medium attraverso cui si rendono visibili.

Con Benjamin, questo discorso si complica e si intensifica. Per Benjamin, l’immagine autentica non è mai l’oggetto della visione, ma un’interruzione del tempo. Nella sua filosofia della storia, l’immagine è ciò che spezza la continuità, ciò che illumina l’attimo come un fulmine nella notte. La fotografia di Fuss — pensiamo alla serie dei fotogrammi d’acqua, o alle immagini dei neonati — sembra esattamente questo: un arresto, ma non della vita, bensì del nostro sguardo frenetico. Un arresto che ci obbliga a sentire.

Benjamin parla di immagine dialettica, capace di contenere il passato come un “nucleo di tempo esploso”. Fuss lavora dentro questa frattura: le sue immagini non sono mai un’unità chiusa, ma una ferita luminosa, una fenditura in cui passato, presente e futuro si compenetrano. Sono templi visivi dove l’anima trova rifugio, e dove il trauma — personale o collettivo — può iniziare a trasformarsi.

Ed è qui che possiamo spingerci verso il rapporto tra immagine e trauma, tra luce e redenzione.

Il trauma, per sua natura, sfugge al linguaggio. È ciò che resta muto, ciò che non ha trovato una forma simbolica. Ma l’immagine — e soprattutto la fotografia come la concepisce Fuss — può diventare uno spazio di risonanza, un contenitore sacro. Pensiamo alla serie in cui ritrae animali morti, o l’eco spettrale dei bambini nei suoi dagherrotipi: non è mai pornografia del dolore, né sentimentalismo, ma una liturgia del silenzio. Il trauma viene evocato non per essere spiegato, ma per essere compassato: cioè sentito, accolto, attraversato.

La luce in Fuss non è mai tecnica, ma presenza reale. È una luce che non serve a mostrare, ma a toccare. Una luce che diventa carne, che ha una qualità tattile, quasi carnale. In questo senso, è anche luce redentrice: non perché salva, ma perché accompagna. È la luce che non giudica, ma che sta accanto, che illumina senza invadere.

Come in certe iconografie cristiane, la luce nei lavori di Fuss sembra provenire da un altrove — non tanto da Dio, quanto da un oltreumano, da un’energia che non si può nominare ma che insiste, che perdura. In questo senso, le sue immagini si pongono al crocevia tra il trauma come lacerazione e la redenzione come continuità sottile.

E allora la fotografia, per Fuss, è davvero un luogo di sopravvivenza dell’anima. Non un’illusione consolatoria, ma un atto di resistenza spirituale. Un modo per dire che anche nel mondo delle immagini-urlo, dove tutto grida, esiste ancora uno spazio per l’ascolto, per la soglia, per l’invisibile.

Allargare il discorso su come l’immagine possa farsi luogo di lutto e rinascita nella contemporaneità significa prendere sul serio l’idea che la fotografia — e più in generale l’immagine artistica — non sia solo un oggetto estetico o un veicolo di significati, ma uno spazio psichico, antropologico, e spirituale. Uno spazio dove il tempo si raddensa, dove le ferite possono venire accolte, e dove ciò che sembrava perduto può tornare a parlare — anche senza parole.

Nel lavoro di Adam Fuss, questa intuizione è centrale: ogni sua immagine sembra poggiarsi sull’assenza. Eppure quell’assenza — un corpo non visibile, un respiro che fu, una traccia — non genera vuoto, bensì un’intensità auratica, un’energia che abita la superficie come un fantasma benevolo. Le sue fotografie non commemorano, non fanno lutto nel senso tradizionale, ma creano uno spazio dove il lutto può prendere forma. Dove si può stare nella perdita, senza esserne annientati. È questo, forse, il suo gesto più radicale: trasformare l’immagine in soglia, in spazio abitabile dal dolore, ma anche dalla possibilità di una trasformazione.

Nella contemporaneità, questo gesto si fa tanto più urgente quanto più il mondo visivo è dominato da immagini che non lasciano tempo al lutto. Pensiamo alle immagini mediatiche della morte — spesso pornografiche, frenetiche, anestetizzanti. In quel rumore visivo, l’immagine non elabora: sovraespone, cancella, consuma. Fuss, come pochi altri, ci ricorda invece che la fotografia può essere una forma di meditazione, di transito, di rito.

Il suo approccio ha molto in comune con pratiche più ampie che stanno emergendo in arte e nella cultura visuale: altari visivi, archivi affettivi, installazioni come luoghi memoriali. Basti pensare all’opera di artisti come Doris Salcedo, che costruisce architetture del lutto per le vittime della violenza in Colombia, o Christian Boltanski, che ha fatto dell’assenza e della memoria la materia stessa della sua opera. Anche Sophie Calle, nei suoi progetti intimi e laceranti, ci mostra come l’immagine possa essere un corpo transitorio, un ponte fragile tra chi c’era e chi non c’è più.

Eppure, a differenza di questi artisti che lavorano spesso sul riconoscibile, Fuss agisce nella penombra dell’iconico. I suoi soggetti sono evanescenti: acque, fiamme, bambini, corpi non nominati. È proprio questo che rende le sue immagini così potenti nel fare spazio al lutto e alla rinascita: non nominano, ma evocano. Non dicono: questa è la morte, ma pongono la morte come presenza leggera, silenziosa, rituale.

In questa ritualità, l’immagine si fa atto. Non tanto un oggetto da contemplare, quanto una soglia da attraversare. E come ogni soglia, porta con sé il rischio e la possibilità della metamorfosi. È in questo senso che la fotografia di Fuss — e di chi, come lui, lavora nella zona liminale tra arte e spirito — può essere vista come luogo di rinascita: perché accoglie la vulnerabilità senza neutralizzarla. Perché restituisce alla luce la sua densità ontologica, facendola diventare non più strumento di rivelazione, ma materia incarnata del tempo.

Così, il lutto non è più un’assenza da rimuovere, ma un campo energetico che attraversa l’immagine. E la rinascita non è una resurrezione miracolosa, ma un mutamento di stato: dal visibile all’invisibile, dalla carne alla traccia, dalla parola al silenzio.

Proseguendo in questa esplorazione dell’immagine come luogo di lutto e rinascita, possiamo ora volgere lo sguardo verso altre pratiche visive contemporanee che assumono l’immagine come forma di cura. Non si tratta, qui, solo di arte-terapia o di estetiche legate al benessere. Si tratta piuttosto di una dimensione simbolica e relazionale dell’immagine: il suo essere dispositivo di ascolto, di accompagnamento, di transito nei territori fragili della coscienza.

Penso, ad esempio, all’opera di Jo Spence, che ha usato l’autoritratto fotografico per documentare e affrontare il proprio cancro, in un gesto insieme terapeutico e politico. La fotografia non è lì per “mostrare” una malattia, ma per trasformare la vulnerabilità in linguaggio. O alla pratica di Theresa Hak Kyung Cha, la cui opera Dictee attraversa la lacerazione coloniale, il trauma linguistico, e l’identità diasporica come corpo visivo e frammentario, in cui ogni immagine è una ferita aperta ma anche un atto di sopravvivenza.

C’è poi tutta una generazione di artisti e artiste che lavora sul corpo segnato, il corpo che porta memoria, come Zanele Muholi, Ana Mendieta, David Wojnarowicz. In ognuno di questi casi, l’immagine non è un semplice documento o una forma di rappresentazione, ma un campo performativo e trasformativo, in cui l’autorialità stessa si dissolve in una dinamica rituale e spesso collettiva.

Da qui possiamo aprire un secondo asse di riflessione: l’immagine come corpo sensibile, come tessuto percettivo in cui si iscrivono esperienze che eccedono la parola. In questa prospettiva, il dialogo con la medicina diventa fertile. Le neuroscienze parlano ormai di “memoria implicita” e di “corporeità sensoriale” come basi dell’esperienza affettiva. Ma l’arte lo sa da sempre: l’immagine tocca prima di essere capita. La sua cura è tattile, atmosferica, interstiziale. Una fotografia come quelle di Adam Fuss agisce per immersione, come un farmaco lento, che non guarisce ma accompagna, non cancella ma avvolge.

La psicanalisi, in particolare nelle sue derive più poetiche e junghiane, ha sempre riconosciuto all’immagine — non al segno, non al discorso, ma proprio all’immagine — una funzione simbolica e di mediazione tra coscienza e inconscio. L’immagine diventa qui una soglia archetipica, un luogo dove il dolore può essere figurato, quindi abitato, quindi lentamente integrato. Il “ritorno dell’immagine” nel sogno, nel sintomo, nell’arte, è ciò che permette una trasmutazione simbolica dell’esperienza. L’immagine, insomma, è già cura perché accoglie la scissione e la trasforma in figura.

In questo senso, molti lavori fotografici contemporanei operano all’interno di una spiritualità laica, in cui non si cerca un dio, ma una forma di presenza più intensa alla vita. È il caso di Christer Strömholm, con le sue immagini piene di silenzio e umanità, o di Vanessa Winship, i cui ritratti sembrano dirci che l’essere umano, guardato con attenzione, è già una preghiera. È anche il caso, in pittura e cinema, di figure come Agnes Martin o Andrei Tarkovskij, dove l’immagine è un campo energetico in cui la realtà si trasfigura in mistero.

L’immagine diventa così una forma di soglia sacra anche in assenza di un dio, un luogo dove la cura non è guarigione, ma presenza, condivisione del tempo. In questa ottica, la fotografia non è più una tecnica né un linguaggio: è una modalità dell’anima, una pratica del respiro, una lente per abitare il mondo con più delicatezza. E se tutto ciò ha risvolti profondamente politici, come accennato prima, è perché rallentare, custodire, guarire sono atti radicali nel mondo dell’accelerazione e della sovraesposizione.

Procediamo dunque, per quanto ancora potrò, con l’esplorazione del legame tra immagine e compassione, un binomio che si fa sempre più centrale nel panorama artistico contemporaneo, soprattutto quando l’arte diventa una forma di presenza terapeutica e di testimonianza sensibile in contesti estremi come guerra, migrazione e malattia.

L’immagine, in questi casi, non è mai neutrale o sterile: è un atto di radicamento empatico, un invito a fermarsi, a riconoscere l’umanità dell’altro — spesso ferito, vulnerabile, marginalizzato — e a creare con lui una sorta di dialogo silenzioso ma profondo. Questa funzione compassionevole si riflette nella scelta dei soggetti, nella modalità di rappresentazione, nel modo in cui l’opera si offre allo sguardo: non come pura testimonianza documentaria, ma come apertura a una comunicazione emotiva, che spesso diventa strumento di guarigione o di resistenza.

Un esempio emblematico è l’opera di James Nachtwey, fotoreporter che, più che mostrare la brutalità della guerra o delle crisi umanitarie, crea immagini che chiedono al fruitore di sostare in un tempo dilatato, di sentire il peso della sofferenza, ma anche la dignità che resiste. Le sue fotografie di zone di conflitto diventano così quasi icona profane di una compassione universale, una chiamata all’azione e alla riflessione etica. Similmente, la fotografa Lynsey Addario cattura la complessità delle vite sotto assedio con una delicatezza che evita lo spettacolo della tragedia e punta invece a restituire volti, storie, umanità.

Passando alla dimensione della migrazione, lavori come quelli di Gabriele Basilico o di Zanele Muholi mostrano come l’immagine possa diventare luogo di memoria e di accoglienza: non solo per documentare i flussi, ma per umanizzare chi è stato spesso ridotto a statistica o stereotipo. La fotografia diventa qui strumento di cura, perché apre uno spazio di riconoscimento e di empatia, opponendosi alla retorica della paura e dell’esclusione.

In campo medico, alcune pratiche artistiche hanno sperimentato un’arte che agisce direttamente sul corpo e sulla psiche, come nelle esperienze di Janine Antoni, che con la sua arte performativa indaga il corpo come campo di cura, o nelle collaborazioni tra artisti e medici che integrano immagini in processi di riabilitazione. Anche qui, la fotografia e l’arte visiva si fanno “strumenti di accompagnamento”, capaci di generare un dialogo nuovo tra dolore, speranza e trasformazione.

Dal confronto con queste pratiche concrete, possiamo aprire una riflessione più ampia sul rapporto tra iconografie sacre e arte contemporanea, soprattutto laddove il dolore e la cura diventano il centro dell’opera. L’arte sacra tradizionale ha da sempre utilizzato immagini come strumenti di mediazione tra l’umano e il divino, luoghi in cui il dolore — della Passione, della perdita — veniva trasformato in esperienza redentrice. Oggi, seppur spesso laico, questo rapporto non si è spezzato: molti artisti contemporanei continuano a elaborare un immaginario in cui il dolore non è solo sofferenza, ma porta verso una possibile trasformazione, una forma di cura estetica e spirituale.

Prendo come esempio il lavoro di Anselm Kiefer, le cui superfici materiche, piene di cenere e metallo, evocano un’iconografia della memoria storica e della distruzione, ma allo stesso tempo puntano verso una possibilità di rinascita e di riconciliazione. Oppure le installazioni di Bill Viola, che con i suoi video profondamente meditativi, trasformano il dolore e la morte in uno spazio di estasi e di trascendenza laica, un vero e proprio rito visivo contemporaneo.

In questo dialogo tra antico e moderno, tra sacro e secolare, l’arte contemporanea spesso si fa luogo di liminalità, una soglia in cui si abita il dolore senza negarlo, ma cercando di farne nascere nuova vita. Le immagini, allora, non sono solo da guardare, ma da “abitare”, da vivere come una sorta di pratica meditativa, una preghiera visiva laica che risuona nel presente e nella collettività.

Ma adesso entriamo nel dettaglio di alcuni progetti artistici che incarnano con forza questa tensione profonda tra immagine, compassione e cura, incarnando quell’arte che si fa presenza empatica e strumento di trasformazione.

Uno dei casi più emblematici è il lavoro di Sophie Calle, in particolare nel progetto “Take Care of Yourself” (2007). Qui Calle reagisce a una lettera di rottura inviata da un ex partner, chiedendo a 107 donne di professioni diverse — medici, psicologhe, artiste, avvocatesse — di interpretare la sua sofferenza con il proprio sguardo. Il risultato non è solo un racconto di dolore personale, ma una mappa collettiva di cura e comprensione che si espande oltre la singola esperienza. L’immagine diventa così uno spazio in cui il dolore si trasforma in una rete di supporto, in una sorta di rito laico di guarigione condivisa.

Un altro esempio potente è quello di Steve McQueen, artista e regista noto per la sua capacità di affrontare temi sociali e storici con uno sguardo che non rinuncia mai alla profondità emotiva. Nel suo progetto “Queen and Country” (2007), McQueen ritrae le lapidi di soldati caduti, trasformando l’immagine in un monumento visivo alla memoria e al lutto. L’opera invita lo spettatore a una contemplazione silenziosa, a un incontro rispettoso con l’assenza e la perdita, risignificando l’immagine come luogo di cura e rispetto verso chi non c’è più.

Nel campo della fotografia documentaria e della testimonianza diretta, il lavoro di Giuseppe Penone — anche se più legato alla scultura e alla natura — incarna una forma di empatia profonda verso il tempo, la vita e la trasformazione, che si riflette anche nella sua attenzione alle tracce lasciate dal corpo e dall’ambiente. Penone ci ricorda come l’arte possa essere un dialogo continuo con la vita, un modo per “prendersi cura” della memoria del mondo naturale e umano.

Questi progetti, pur nella loro diversità, condividono una qualità fondamentale: la capacità di trasformare l’immagine in una forma di resistenza gentile contro l’omologazione e la brutalità del mondo moderno, un atto di “resistenza” che si basa sulla cura, sull’ascolto e sulla presenza.

Questa dimensione empatica e curativa ha un forte impatto sulle pratiche artistiche contemporanee, influenzando non solo la scelta dei soggetti ma anche il modo in cui le opere vengono pensate per essere fruite. Sempre più artisti integrano nella loro ricerca elementi di partecipazione attiva, invitando il pubblico non a un consumo passivo ma a una vera e propria esperienza di condivisione emotiva. La mostra diventa così uno spazio di incontro e di possibile trasformazione, un luogo in cui l’arte svolge una funzione sociale e terapeutica.

Dal punto di vista della ricezione, questa tendenza ha portato a un crescente interesse per opere capaci di creare spazi di riflessione meditativa e di empatia condivisa. Il pubblico contemporaneo, spesso bombardato da immagini urlate e immediate, risponde con una ricerca di opere che permettano un tempo di sosta, di ascolto e di risonanza emotiva profonda. Questo spiega anche il successo di eventi e mostre che privilegiano l’arte lenta, contemplativa, dove l’esperienza estetica si trasforma in un momento di cura di sé e degli altri.

La tensione tra immagine, compassione e cura ha ormai assunto un ruolo centrale nel discorso artistico contemporaneo, proponendo un modello in cui l’opera non è solo oggetto di contemplazione, ma veicolo di relazioni umane autentiche, di memoria condivisa e di trasformazione interiore

Continuiamo allora il nostro viaggio dentro questa poetica dell’immagine come cura, presenza e relazione, esplorando altri artisti e pratiche che portano avanti questa tensione empatica e trasformativa, per poi entrare nel modo in cui queste dinamiche si intrecciano con le istituzioni e il tessuto sociale dell’arte contemporanea.

Un artista che spicca per l’intensità con cui affronta il rapporto tra immagine, trauma e cura è James Nachtwey, il celebre fotoreporter che da decenni documenta guerre, crisi umanitarie e catastrofi. Nachtwey non si limita a immortalare eventi di violenza, ma con la sua attenzione rispettosa e profondamente umana trasforma ogni fotografia in una testimonianza che chiede attenzione, empatia, e soprattutto impegno. La sua pratica si avvicina a quella di un “mediatore” che fa da ponte tra il dolore altrui e la coscienza collettiva, rivelando l’immagine come strumento di cura sociale e di risveglio morale.

Nel campo dell’arte contemporanea, la pratica di Tania Bruguera è un altro esempio emblematico. Il suo lavoro si basa su performance e installazioni che diventano veri e propri spazi di partecipazione, dove l’arte si fonde con l’attivismo sociale. In molte sue opere, la presenza fisica del pubblico è essenziale per attivare processi di riflessione e guarigione collettiva, ponendo l’arte come strumento di trasformazione politica e sociale che ha nel dialogo e nella cura reciproca il suo cuore pulsante.

Similmente, il lavoro di Marina Abramović esplora la dimensione rituale e terapeutica dell’arte, mettendo al centro la relazione diretta tra corpo, tempo, spettatore e artista. Le sue performance sono spazi sacri, dove la durata e l’attenzione trasformano l’esperienza estetica in una forma di meditazione attiva, aprendo possibilità di estasi, guarigione e comunione.

Questi esempi indicano come la poetica della cura e della compassione non si limiti al contenuto ma si traduca in pratiche specifiche di relazione e fruizione, che rompono la separazione tra opera e spettatore, invitando a una partecipazione viva e responsabile.

Nel contesto istituzionale dell’arte contemporanea, questa tendenza ha portato a un ripensamento significativo. Musei e gallerie sempre più spesso promuovono progetti che includono laboratori partecipativi, programmi di arte terapia, o collaborazioni con comunità vulnerabili. Questa evoluzione riflette una nuova consapevolezza della funzione sociale dell’arte, che non è più solo esposizione di oggetti ma generazione di esperienze condivise con un potenziale di impatto reale sulla vita delle persone.

Allo stesso tempo, tuttavia, il rischio della mercificazione e della spettacolarizzazione rimane alto. Le istituzioni devono affrontare la sfida di mantenere l’autenticità di queste pratiche, evitando che la dimensione empatica e curativa diventi un mero format o una strategia di marketing. Il dibattito critico contemporaneo si concentra quindi sull’importanza di pratiche artistiche che siano realmente radicate nei bisogni e nelle esperienze delle persone, capaci di generare relazioni profonde e durature, piuttosto che semplici esperienze estetiche di passaggio.

Dal punto di vista sociale, l’arte come cura si inserisce in un più ampio movimento che coinvolge anche la salute mentale, l’educazione, e le politiche culturali orientate al benessere collettivo. In molti casi, progetti artistici di questo tipo sono nati in risposta a crisi specifiche — guerre, migrazioni, pandemie — diventando strumenti di resilienza e di costruzione di comunità, dimostrando quanto il linguaggio dell’arte possa essere cruciale per affrontare le ferite del presente.

La poetica dell’immagine come spazio di cura e presenza si manifesta oggi in pratiche artistiche vivissime, che richiedono una relazione attiva e responsabile, e che stanno rimodellando le funzioni stesse delle istituzioni e la percezione sociale dell’arte. Sono pratiche che, mettendo al centro la compassione e la partecipazione, aprono una strada in cui l’arte non è solo riflesso del mondo ma forza viva di trasformazione, resilienza e rinascita.


Negli ultimi anni, la didattica dell’arte e la formazione dei nuovi artisti stanno vivendo una trasformazione profonda, influenzata da un approccio che mette al centro non solo la tecnica, ma anche la dimensione empatica, sociale e persino terapeutica dell’arte. Non si tratta più solo di insegnare come creare un’opera, ma di educare alla consapevolezza del ruolo che l’arte può avere nella trasformazione personale e collettiva. In questo senso, la formazione artistica si apre a tematiche come l’identità, la memoria, la sostenibilità, e si fa strumento per sviluppare un pensiero critico capace di dialogare con le sfide del nostro tempo.

In Italia, ad esempio, esistono corsi e progetti che puntano a educare attraverso l’arte, favorendo una riflessione su temi importanti come l’interculturalità e il rispetto per l’ambiente. Questi percorsi non solo stimolano la creatività, ma aiutano anche a sviluppare competenze trasversali come l’empatia e la partecipazione attiva, qualità fondamentali per chi si affaccia al mondo contemporaneo con la volontà di fare dell’arte un mezzo di trasformazione sociale.

Allo stesso tempo, si moltiplicano le esperienze di didattica partecipativa, dove artisti e insegnanti lavorano insieme in laboratori e workshop che invitano gli studenti a sperimentare e riflettere in modo interattivo. Questi metodi insegnano che l’arte non è qualcosa di chiuso in una dimensione puramente estetica, ma un ponte tra culture, generazioni e vissuti diversi, capace di aprire nuovi spazi di dialogo e comprensione.

Le scuole d’arte contemporanea, così come le università, stanno rivedendo i loro programmi per includere questi aspetti, proponendo un’educazione che sia insieme teorica e pratica, capace di preparare artisti non solo tecnicamente preparati, ma anche consapevoli del potenziale trasformativo dell’arte. Tematiche come la memoria, la giustizia sociale, la cura e l’ambiente entrano così a far parte del percorso formativo, accompagnando i giovani artisti in una riflessione più ampia sul senso e la funzione della loro creatività.

Un altro aspetto importante è la crescita dell’arteterapia come disciplina riconosciuta, che coniuga arte e salute mentale. I corsi di formazione per arteterapeuti insegnano come l’arte possa diventare uno strumento prezioso per la cura del benessere psicologico, mettendo in luce la dimensione terapeutica dell’espressione artistica. Questo non solo arricchisce il panorama educativo, ma apre anche nuove possibilità per l’inclusione sociale e il supporto a persone in situazioni di fragilità.

In definitiva, la didattica dell’arte sta diventando sempre più un laboratorio di umanità, dove la pratica artistica si intreccia con valori di compassione, responsabilità e consapevolezza. Preparare i nuovi artisti significa oggi offrire loro non solo competenze tecniche, ma anche la capacità di vedere l’arte come un potente strumento di trasformazione personale e sociale, capace di affrontare le contraddizioni e le sfide di un mondo complesso.


In definitiva, l’opera di Adam Fuss si configura come una pratica fotografica radicale, non soltanto per la sua capacità tecnica di manipolare la luce e la materia fotosensibile, ma soprattutto per la sua profonda vocazione ontologica e meditativa, che trascende il semplice atto rappresentativo e si situa nel cuore stesso dell’esperienza estetica e spirituale. Le fotografie di Fuss non si presentano come mere registrazioni del visibile, ma come eventi performativi, esperienze liminali in cui si manifesta una tensione viva tra il visibile e l’invisibile, tra la presenza e l’assenza. Esse operano come vere e proprie soglie, spazi di passaggio e trasformazione che invitano a una riscoperta del senso dell’immagine come luogo di rivelazione. Questo senso dell’immagine si inscrive in una tradizione che va oltre la modernità, recuperando antiche concezioni filosofiche e spirituali, a partire da Plotino, con la sua idea di immagine come emanazione dell’Uno, e Meister Eckhart, per cui la visione interiore diventa via di comunione con il divino, fino ad Agostino e la sua nozione di memoria spirituale, che rende il ricordo un luogo di incontro con la trascendenza.

La nozione di immagine come evento, centrale nella poetica di Fuss, si intreccia poi con la fenomenologia incarnata di Merleau-Ponty, che vede nella percezione un coinvolgimento totale della carne e della sensibilità, e con la filosofia contemporanea di Jean-Luc Nancy, che parla di iconicità debole, ovvero di immagini che non pretendono di rappresentare l’essere nella sua totalità ma che si mostrano nella loro fragilità e apertura. Questa fragilità è essenziale perché consente alle immagini di Fuss di porsi come preghiere visive, come invocazioni silenziose e potenti, capaci di aprire spiragli di trascendenza in un mondo dominato dall’immagine-urlo, dalla sovraesposizione mediatica che tutto consuma e rende fugace. In questo senso, il lavoro di Fuss si configura come una resistenza estetica e politica: una scelta consapevole di rallentare il tempo, di riportare l’arte a una funzione originaria, quella di uno spazio di contemplazione, ascolto e trasformazione interiore.

L’opera di Fuss, in quanto pratica meditativa e spirituale, si pone dunque in dialogo con un ampio spettro di artisti contemporanei che, pur con mezzi espressivi differenti, condividono questa stessa tensione verso l’immagine come luogo di esperienza profonda. Da Francesca Woodman, le cui fotografie scarnificate e intime sembrano esplorare l’identità e la spiritualità attraverso il corpo e il vuoto, a James Turrell, maestro indiscusso della luce come medium per esperienze sensoriali e quasi sacre, fino a Bill Viola, che attraverso la videoarte sospende il tempo e invita a una riflessione sulle soglie tra vita e morte, visibile e invisibile. In Italia, il lavoro di Paolo Gioli, con le sue sperimentazioni sulla pellicola e le forme organiche, propone un’analoga riscoperta del potenziale rituale e mistico della fotografia. Questi artisti, insieme a Fuss, rinnovano la possibilità di un’arte che non si limita alla mera rappresentazione ma si apre a una dimensione di rivelazione, trasformazione e spiritualità laica.

Il tema della nascita e della morte, che attraversa in profondità il lavoro di Fuss, è centrale per comprendere la sua poetica e la sua relazione con le tradizioni mistiche orientali e occidentali. Le sue immagini, spesso nate da procedimenti tecnici che implicano una sorta di “morte” della pellicola e una rinascita nell’atto di sviluppare, si configurano come un continuo ciclo di trasformazione che richiama la nozione di samsara, il ciclo di morte e rinascita, ma anche la tensione verso il nirvana o l’illuminazione. Questo doppio movimento, che si manifesta nella materialità stessa dell’immagine, riflette una concezione del tempo non lineare ma circolare, in cui passato e presente, vita e morte si intersecano in una danza inestricabile. In questa prospettiva, la fotografia di Fuss si fa corpo e voce di un’eco spirituale che si estende ben oltre la superficie visibile, trasformando ogni immagine in un “corpo mistico” di luce, capace di parlare a un livello profondo, ineffabile.

Questa dimensione spirituale e ontologica del lavoro di Fuss si intreccia poi con una riflessione sul trauma, la memoria e la sopravvivenza dell’anima, temi che rimandano direttamente al pensiero di Aby Warburg e Walter Benjamin. Warburg, con la sua analisi delle immagini come vettori di memoria collettiva e di tensione emotiva, fornisce un quadro in cui le fotografie di Fuss possono essere lette come strumenti di elaborazione del lutto e di testimonianza di una storia più profonda e frammentata. Benjamin, con la sua riflessione sulla “aura” dell’opera d’arte e sul tempo come dimensione dell’esperienza, ci aiuta a comprendere come l’immagine di Fuss non sia mai riproducibile o neutra, ma porti con sé una carica di presenza e di intensità che si configura come una forma di redenzione. In questa luce, le fotografie diventano non solo testimonianze visive, ma anche luoghi di cura e di compassione, una funzione terapeutica che si manifesta anche nel dialogo con pratiche artistiche contemporanee impegnate a rispondere a contesti di guerra, migrazione, malattia e perdita. L’arte, in questo senso, si fa strumento di sopravvivenza, presenza e trasformazione, capace di offrire spazi di ascolto e di accoglienza in un mondo segnato da frammentazione e dolore.

È importante inoltre considerare come questa tensione tra immagine, compassione e cura si rifletta nella ricezione del pubblico e nelle dinamiche istituzionali dell’arte contemporanea. In un contesto culturale dominato dalla velocità e dalla superficialità dell’immagine, il lavoro di Fuss propone una sfida radicale alla cultura visuale contemporanea, richiamando a una pratica più lenta, più attenta, più profondamente radicata nella riflessione critica e nella consapevolezza etica. Questa dimensione si riflette anche nella didattica dell’arte, in cui la formazione dei nuovi artisti viene chiamata a integrare non solo competenze tecniche ma anche una sensibilità acuta verso il significato profondo dell’immagine e la sua funzione sociale e spirituale. La pratica artistica, allora, si configura come un laboratorio di riflessione critica e di trasformazione personale, un luogo in cui si coltiva la capacità di resistere al rumore e alla violenza dell’immagine-urlo, di riaprire spazi di ascolto e di presenza.

Guardando dunque all’intero percorso artistico e filosofico di Adam Fuss, ci si trova davanti a un’esperienza estetica che sfida le categorie convenzionali dell’arte contemporanea e invita a ripensare radicalmente il ruolo e la natura dell’immagine. La sua fotografia, sospesa tra luce e ombra, presenza e assenza, vita e morte, si configura come una forma di preghiera visiva, un’esperienza contemplativa che richiama antiche tradizioni mistiche ma che si rinnova in un contesto contemporaneo di grande complessità e crisi. In un mondo in cui l’immagine spesso perde senso e si riduce a mera superficie, Fuss ci restituisce un’arte della profondità, della trasformazione e della presenza, un’arte capace di parlare al corpo, all’anima e alla memoria, e di aprire spazi in cui il mistero della vita può essere accolto, contemplato e vissuto nella sua pienezza.

Con le sue immagini, Fuss ci invita a una riflessione radicale sul senso del visibile e dell’invisibile, sulla natura temporale dell’esperienza e sulla capacità dell’arte di farsi luogo di memoria, cura e redenzione. Ci richiama a un ascolto più attento e a un approccio all’immagine che non si limiti alla superficie, ma che si apra alla complessità e alla profondità del reale, restituendo all’arte un ruolo centrale nella nostra esperienza del mondo e nella costruzione di un senso più ampio, condiviso e profondamente umano.