sabato 31 maggio 2025

Non si negoziano i corpi. Per una critica al compromesso nei diritti civili


Nel discorso pubblico italiano, la parola “compromesso” è diventata un feticcio. Viene brandita come sinonimo di responsabilità, come maturità politica. Ma quando si parla di diritti civili e sociali, di cittadinanza, di autodeterminazione, di libertà sui corpi, il compromesso non è una virtù: è il suo contrario. In questo paese, compromesso significa costante rinuncia. Rinuncia che pesa sempre sugli stessi corpi: migranti, persone queer, donne, soggettività trans.

La legge sulle unioni civili (L. 76/2016), celebrata come “storica”, ha lasciato fuori le famiglie omogenitoriali. Una mutilazione voluta per tenere insieme una maggioranza timorosa e cattolica. L’adozione del figlio del partner fu esplicitamente esclusa (art. 1, co. 20), sancendo una gerarchia tra le famiglie. A oggi, quelle famiglie esistono solo nei tribunali, nelle ordinanze che suppliscono all’inerzia del Parlamento. La Cassazione ha chiesto ripetutamente un intervento legislativo (sent. n. 7668/2020; n. 8029/2022). Nessuna risposta.

È lo stesso schema visto con la legge Zan (C. 230/2018). Doveva estendere le tutele penali contro l’odio omotransfobico. Quando la pressione ha chiesto di sacrificare il riferimento all’identità di genere per farla passare, in molti hanno resistito. La legge è stata affossata, ma non a caso: è la soggettività trans che il Parlamento non può digerire. Come se il riconoscimento giuridico dovesse passare dal sacrificio simbolico delle persone più vulnerabili.

Lo stesso vale per la cittadinanza. L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non prevedere ius soli, nemmeno temperato. I progetti di legge (come il DDL 2092/2015) prevedevano condizioni di scolarizzazione o residenza per “concedere” la cittadinanza a chi è nato e cresciuto qui. Nessuno parla del fatto che questo compromesso contiene già in sé una forma di razzismo istituzionale. La cittadinanza è data per sangue (ius sanguinis) a chi non conosce nemmeno la lingua italiana, ma deve essere “guadagnata” da chi ha la pelle sbagliata o un nome straniero.

Nel frattempo, ogni giorno si lavora per svuotare le leggi che ci sono. La 194/1978 sul diritto all’aborto è un caso lampante: con il 69% di obiettori (e punte superiori al 90% in regioni come il Molise), il diritto diventa ostacolo, la norma eccezione. Non servono abolizioni: basta l’inerzia, basta l’oblio. O, peggio, bastano emendamenti “dialoganti” come quello approvato nel 2024, che apre i consultori a figure pro-vita, costringendo le donne a un percorso moralmente sorvegliato.

Anche la Corte costituzionale è intervenuta, con la sentenza n. 242/2019 sul suicidio medicalmente assistito, per dire al Parlamento che non si può costringere una persona a soffrire oltre i limiti della dignità. Ma il legislatore ha fatto orecchie da mercante. Ogni proposta viene annacquata, sospesa, rinviata. Perché un diritto non è mai davvero tale, finché può essere congelato per convenienza politica.

La strategia è sempre la stessa: far passare l’idea che “qualcosa è meglio di niente”. Ma questo qualcosa ha un costo altissimo. Esclude, silenzia, seleziona. Si approva una legge per pochi, lasciando fuori chi ha più bisogno di tutele. E lo si fa in nome della “governabilità”, cioè del mantenimento di equilibri di potere.

Il compromesso, in Italia, ha prodotto più emarginazione che avanzamento. Non esiste compromesso con chi nega l’esistenza dell’altrə. Non si può “mediare” con chi considera le persone trans un’ideologia o la genitorialità queer una minaccia. Come ha stabilito la Corte costituzionale nella sent. 221/2015, l’identità di genere non può essere subordinata a interventi chirurgici. E come ha ribadito la Cassazione (sent. 15138/2015), l’autodeterminazione non è un privilegio: è un diritto. Ma in Parlamento si continua a trattare tutto questo come se fosse un'opinione, non una questione di giustizia.

È una dinamica che si riflette anche sul piano politico. Figure come Monica Cirinnà, protagoniste di un'epoca in cui sembrava possibile legiferare in avanti, sono state progressivamente marginalizzate, rese simbolicamente scomode, isolate dai partiti stessi che le avevano sostenute. Una sorta di purga simbolica: chi chiede troppo, chi pretende coerenza, viene fatto fuori.

La lezione è chiara. Non si tratta di intransigenza. Si tratta di dignità. Non si possono difendere i diritti con gli strumenti di chi quei diritti li vuole condizionati, parziali, revocabili. Non si negozia la libertà. Non si negoziano i corpi.
E chi chiede di farlo in nome della realpolitik, in fondo, sta solo difendendo il proprio privilegio di poter aspettare.