A Milano, il cinema esce dalle sale. E forse anche da sé. Dal 3 all’8 giugno il Milano Film Fest fa il suo esordio – non come evento da cerchiare sul calendario ma come una sorta di apparizione: un atto collettivo, un’immagine che si muove nella città e che dalla città si lascia attraversare. Un festival? Sì. Ma anche un’invenzione.
C’è qualcosa di profondamente contemporaneo – e insieme già futuro – nell’idea che sta alla base di questa nuova creatura culturale. Una fondazione (perché non basta più un evento: ci vuole un corpo vivo, che respiri tutto l’anno), una rete di collaborazioni non gerarchica ma osmotica, e soprattutto una tensione a restituire al cinema un corpo, un odore, un’aria, anche in tempi di streaming asettico e visioni isolate.
Il cuore, o almeno il primo battito, viene da Il Cinemino, Esterni, Fondazione Dude e Perimetro – nomi che, per chi vive Milano, significano già qualcosa: esperienze di prossimità, scelte estetiche precise, ma anche luoghi dove si va per riconoscersi. E qui non si tratta solo di vedere film: si tratta di abitare visioni, attraversare immagini, disfare i confini. Milano si fa schermo, ma anche protagonista.
Tra cinema, serie e pelle
Il programma è ampio, articolato, eppure non dispersivo. Al centro ci sono i concorsi: lungometraggi e corti, opere prime e seconde – come a dire che è il gesto iniziale che conta, l’atto incerto ma necessario del cominciare. Scorrono i titoli come un diario segreto del mondo: dalla Cina queer e ipersorvegliata di “Girls on Wire” a un Giappone cyberpunk riletto da Miike con il corpo come detonatore; dal rituale afro-futurista di Mosese fino al piccolo miracolo animato di “Tamago”, dove la rinascita prende la forma di un uovo e di una carezza.
Ma non c’è solo cinema: c’è serialità, fotografia, musica. E soprattutto: sguardi che non chiedono permesso. Le serie tv, oggi, sono le grandi epopee – più liquide, sì, ma capaci di interrogare il presente con un’urgenza che il grande schermo a volte smarrisce. I Serial Awards, che ritornano, sembrano ricordarci che il linguaggio non è più unico – e che è nella molteplicità che può accadere qualcosa.
Milano come laboratorio (e come scena)
La cosa più interessante – per me, almeno – è però l’idea di città che questo festival mette in campo. Milano non è sfondo, ma laboratorio di immaginazione, spazio vivo dove si entra e si esce da una proiezione per ritrovarsi in una piazza, in un cortile, in un frammento di passato industriale. Qui l’urbano non è estetica, è politica: ogni angolo è un luogo potenziale di racconto, ogni edificio può farsi teatro, o microfono.
Ho sempre pensato che Milano sia più complessa di come viene rappresentata. Non è solo la città della moda e del design. È anche la città delle fughe notturne, degli amori provvisori, delle panchine con vista sui binari. E in questo senso il Milano Film Fest ha colto qualcosa di profondo: che l’immagine ha bisogno di corpo, e il corpo ha bisogno di città.
La sezione fotografica – curata insieme a Perimetro – lavora proprio su questo: l’interstizio tra immagine e spazio, tra inquadratura e memoria. E poi c’è la musica, curata da Manuel Agnelli (non serve dire altro): suoni come ferite, ma anche come possibilità. Concerti, performance, installazioni – a ricordarci che l’orecchio è uno sguardo che ha pazienza.
Giurie, visi e altre complicazioni
Anche le giurie raccontano un festival che non vuole sedersi. James Franco – figura contesa tra culto e polemica – è presidente per i lunghi. Con lui, Margherita Buy, Claudio Giovannesi, Francesco Di Leva, Isabella Ragonese. Una costellazione, più che una squadra. Nei corti, la presidente è Valentina Lodovini. Accanto a lei Romana Maggiora Vergano, Luca Bigazzi, Paola Randi. Più che assegnare premi, sembrano chiamati a dialogare con le opere, a raccontare ciò che resta quando le luci si riaccendono.
E magari anche a sbagliare, che è il contrario dell’indifferenza.
Non tutto è da capire
Il Milano Film Fest non è un festival da spiegare, ma da attraversare. Ci sono film che emozionano, altri che spiazzano, altri ancora che sfuggono. Alcuni non dicono nulla, ma lo dicono così bene che ci restano addosso. C’è anche questo, in fondo, nel gesto di un festival: il diritto di non capire subito, di perdersi, di farsi ferire.
E c’è qualcosa di erotico, in tutto questo. Non nel senso più banale – ma come una tensione tra visibile e invisibile, tra ciò che appare e ciò che manca. Il cinema, come il desiderio, non si lascia mai davvero afferrare. E forse proprio per questo ci torniamo. Ancora.
Milano, almeno per questi giorni, ci offre questa possibilità: non solo vedere, ma essere visti. Non solo guardare un film, ma farne parte. E se il cinema ha ancora un senso – oltre gli algoritmi, oltre le piattaforme – forse è proprio questo: aprire una finestra nella realtà, e lasciar entrare un po’ d’aria.