Nel contesto dell’Italia del secondo dopoguerra, profondamente segnata dalla distruzione bellica, dalla caduta del regime fascista e dall’avvento di un’età repubblicana ancora incerta e travagliata, si sviluppa un orizzonte artistico che, anziché rifugiarsi in una ripresa delle forme tradizionali o in un rinnovato accademismo, sceglie di confrontarsi con la tabula rasa della Storia. I decenni successivi alla Seconda guerra mondiale si configurano come un periodo di crisi e insieme di rigenerazione: lo scardinamento delle strutture precedenti, tanto sul piano politico quanto su quello culturale, crea le condizioni per una ripresa creativa che assume tratti radicalmente nuovi. In questo quadro si inseriscono le ricerche di Lucio Fontana, Alberto Burri e Piero Manzoni, tre figure centrali che, con modalità differenti ma convergenti nell’intento, contribuiscono a ridefinire i confini stessi dell’opera d’arte, operando una trasformazione profonda dei linguaggi visivi e dei presupposti teorici su cui l’arte si fonda.
Lucio Fontana, artista cosmopolita per formazione e sensibilità, è tra i primi a elaborare una riflessione teorica organica in grado di superare il dualismo tra astrazione e figurazione, ormai esausto nei suoi esiti novecenteschi. Il Manifiesto Blanco (1946), redatto in Argentina in collaborazione con un gruppo di giovani artisti, pone le basi per una nuova concezione dell’opera come evento spaziale. Fontana propone una "arte del tempo e dello spazio", anticipando di fatto molte delle riflessioni successive sulle arti ambientali, cinetiche e performative. L’introduzione di gesti come il taglio (Concetto spaziale, Attese) o il foro (Concetto spaziale, Buchi) rappresenta un momento di assoluta originalità: essi non distruggono il supporto pittorico, ma ne amplificano la funzione, trasformandolo in soglia verso un altrove invisibile. Ogni gesto è calibrato, rituale, misurato; esso non si esaurisce nell’azione iconoclasta, ma si carica di significati metafisici, divenendo apertura verso la dimensione dell’ignoto, dell’infinito, del trascendente. In tal senso, Fontana si inscrive in una linea di pensiero che, da Malevič a Rothko, attraversa la modernità interrogando i limiti della visibilità e la possibilità dell’assoluto attraverso l’opera d’arte.
Alberto Burri, di formazione medica e traumatizzato dalla prigionia durante la guerra, sviluppa una poetica profondamente legata all’esperienza del corpo, del dolore, della ferita. Le sue opere non nascono dalla volontà di rappresentare, ma di presentare: la materia è protagonista, non soggetto da plasmare bensì ente dotato di una propria agentività. Nei Sacchi, tele grezze cucite, strappate, bruciate, Burri introduce una grammatica del trauma in cui la sutura non ha solo valore plastico, ma etico ed esistenziale. Le superfici, segnate da lacerazioni, cuciture, combustioni, evocano le cicatrici della carne, i traumi della storia, le memorie inscritte nella materia. L’uso del fuoco, delle plastiche combuste, dei ferri saldati o corrosi si configura come un processo alchemico: l’artista non costruisce, ma trasforma, in una continua dialettica fra distruzione e rigenerazione. Tale approccio anticipa alcune delle istanze più radicali dell’arte povera e concettuale, ma conserva una tensione lirica che distingue Burri da ogni tentazione programmatica o ideologica. Il suo lavoro è profondamente personale, meditativo, un attraversamento del dolore che diventa forma, che si fa stile.
Piero Manzoni si muove in un orizzonte ancora differente, pur condividendo con Fontana e Burri il rifiuto di ogni residuo figurativo o simbolico. La sua ricerca si articola come un processo di continua ironizzazione e de-costruzione dell’apparato dell’arte e della sua istituzionalizzazione. Gli Achrome, realizzati con caolino, ovatta, materiali organici o industriali, rappresentano un tentativo di sottrarre l’opera a ogni intenzionalità espressiva, rendendola pura superficie, campo neutro, evento in potenza. La loro bianchezza non è metafora di purezza, bensì azzeramento semantico: l’arte non comunica, non rappresenta, ma esiste. Tale posizione si estremizza nelle celebri opere concettuali, come la Merda d’artista (1961), che ironizza sulla mistica dell’autorità autoriale e sulle dinamiche del mercato, o il Fiato d’artista, in cui l’immateriale diventa paradossalmente oggetto estetico. Con Manzoni l’arte diventa discorso sull’arte, gioco concettuale che decostruisce la propria condizione di possibilità, ma senza mai rinunciare a una certa forma di leggerezza, di humour, di provocazione intellettuale che lo colloca in una posizione di assoluta originalità nel panorama internazionale.
L’intreccio tra queste tre poetiche non si riduce a una comune tendenza al superamento della pittura, quanto piuttosto a un più profondo movimento di rifondazione dell’esperienza estetica. Fontana introduce il tempo nello spazio visivo, Burri fa della materia una narrazione del trauma, Manzoni decostruisce il mito dell’arte come sacralità. Insieme, essi rappresentano una triade insostituibile per comprendere la svolta postmoderna dell’arte italiana, e più in generale per leggere le tensioni che attraversano il secondo Novecento europeo. Le loro pratiche non solo influenzano intere generazioni di artisti, ma generano un nuovo paradigma in cui il concetto, la materia e il gesto si fondono in un’unità dinamica e aperta.
Va inoltre sottolineato come il riconoscimento istituzionale di questi artisti sia stato graduale e talvolta contrastato. Inizialmente accolti con freddezza o incomprensione, spesso percepiti come provocatori o addirittura iconoclasti, essi hanno conosciuto solo in tempi successivi una piena legittimazione critica. Le loro opere, oggi esposte nei principali musei del mondo e oggetto di un vasto apparato bibliografico, hanno assunto lo statuto di veri e propri "classici contemporanei". Tuttavia, ridurre la loro portata a un mero valore storico o commerciale significherebbe tradirne la forza eversiva. L’eredità di Fontana, Burri e Manzoni risiede nella capacità di aver pensato l’arte come processo, interrogazione, apertura verso l’ignoto. In tal senso, la loro attualità è ancora intatta.
Nel panorama globalizzato dell’arte contemporanea, in cui spesso la produzione tende all’effimero o alla reiterazione di modelli consolidati, il lascito di questi tre maestri invita a una riflessione esigente sul senso stesso dell’opera, sul suo rapporto con il mondo, con il corpo, con il linguaggio. Essi non hanno semplicemente prodotto opere, ma hanno costruito paradigmi, aperto orizzonti, tracciato percorsi. In definitiva, ci hanno lasciato non tanto delle forme, quanto delle domande: che cos’è un’immagine? Che cosa può un gesto? Quale materia è capace di farsi pensiero? E, soprattutto: che cos’è ancora possibile attendersi dall’arte?