giovedì 12 giugno 2025

Skeeen sa


Skeeen sa. Non sa cosa, non sa come, non sa perché – ma sa. Sa che qualcosa lo chiama, da sotto la superficie, da dentro le piastrelle sporche, dalle fessure nei muri di El Horno, dalle gocce d’acqua stagnanti nel cesso senza porta, dagli occhi dei ragazzi nudi che si massaggiano l’un l’altro sotto le lampade rosse che non scaldano, ma svelano. Qualcosa lo chiama come si chiama un cane ferito, come si chiama il morto perché ritorni, come si chiama un dio che si è dimenticato di essere dio. È un richiamo che non ha suono, ma ha temperatura. È caldo come la pelle dopo lo schiaffo. È umido come l’inguine sotto il lattice. È dolce come una parola detta male da uno che non parla la tua lingua. Skeeen sa. È lì per rispondere.

Ma non risponde mai con la voce. La voce è l’ultima cosa che concede. La voce è riserva sacra. La voce è sacrilegio. Prima di tutto, Skeeen offre il corpo. Un corpo che non è giovane, ma non è vecchio. Un corpo che non ha età, che non ha cronologia, che non può essere messo in fila. Un corpo che sa. Che ha registrato tutto. Ogni penetrazione come una data storica. Ogni bocca come una firma sul registro dei visitatori. Ogni umiliazione come un sacramento. Ogni schizzo come un’apostrofe.

Il suo corpo parla da solo. È già scrittura. È già storia. È già battesimo e flagello. È geografia di tutte le guerre che nessuno ha mai dichiarato, e che pure si combattono ogni notte, tra l’odore del fumo e quello della candeggina, tra il suono delle catene e quello dei bassi a ottanta decibel, tra un drink versato sul petto e una lingua che si perde dentro un orecchio sudato. Skeeen è tutto questo. E ancora non basta.

El Horno non è più solo il locale. È diventato un altro organo del suo corpo. È l’intestino che pensa. È il cuore che digerisce. È il cervello che eiacula. È la pelle che ricorda. Non può stare lontano. Non può dimenticare. Anche quando è fuori, anche quando cammina per la città, quando prende un tram, quando fuma alla finestra del suo monolocale pieno di bottiglie vuote e calzini spaiati, anche lì El Horno continua a vivere in lui. Come un sogno persistente. Come un tatuaggio fatto con l’inchiostro della paura.

E Skeeen lo sa. Ma non lo dice. Se lo tiene dentro, come si tiene dentro un mostro piccolo, domestico, ma affamato. Se lo tiene sotto la lingua, pronto a sputarlo solo su chi osa guardarlo troppo a lungo. Ma pochi osano. Perché Skeeen non è bello. Non è simpatico. Non è accogliente. Skeeen è altro. È quello che non si dovrebbe toccare. Quello che non si dovrebbe baciare. Quello che non si dovrebbe amare. E quindi tutti – o quasi – lo toccano, lo baciano, lo amano, con la furia dei condannati, con la paura dei bambini, con la colpa dei santi.

Lui non chiede nulla. Non cerca nulla. O meglio: cerca tutto, ma senza dire che lo cerca. Cerca il collasso simultaneo. Cerca lo specchio infranto. Cerca l’abbraccio che non salva, ma fonde. Cerca l’orgasmo come morfina spirituale. Cerca la violenza come dialogo. Cerca lo schiaffo come domanda. Cerca la mano che lo afferra per il collo e lo chiama “cosa mia”. E quando lo trova – anche solo per pochi minuti, per un quarto d’ora di febbre condivisa – Skeeen si dissolve. Si espande. Si fa luce sporca, visione tossica, respiro collettivo. Diventa il respiro del locale. Il respiro di El Horno. Un respiro profondo, affannato, ansimante, multiplo.

Ma poi torna. Torna sempre. Torna a essere un individuo. Un singolo. Un relitto. Un superstite. Si raccoglie con lentezza, raccatta i pezzi di sé dal pavimento come fossero oggetti persi, si rimette i jeans senza mutande, si infila gli stivali pieni di polvere e sperma secco, si pulisce con una salvietta profumata che puzza di finto limone, si passa le dita tra i capelli come se potesse raddrizzare qualcosa, ma non può. Non c’è più niente da raddrizzare.

Cammina verso l’uscita. Saluta con un cenno chi non lo ha mai conosciuto davvero. Si ferma un secondo sulla soglia. Inspira. L’odore di El Horno è familiare. È casa. È madre. È bara. È l’utero rovesciato. È la risata di un dio nudo. Skeeen sorride. Un sorriso stanco. Uno di quelli che si fanno dopo un’emorragia. Uno di quelli che si fanno sapendo che si tornerà.

E mentre esce, mentre la notte lo inghiotte, mentre la strada lo accoglie come un figlio ritrovato, Skeeen pensa – o forse non pensa, forse sogna, forse implode – che nulla potrà mai essere più reale di quello che è accaduto lì dentro. Neanche la vita. Neanche la morte. Solo El Horno. Solo la notte. Solo il suo corpo. Solo il desiderio che si contorce senza nome, senza tregua, senza vergogna.

Skeeen è vivo. Ancora. E questa è già una bestemmia.

El Horno ora si fa carne. Respira. Trattiene. Mastica. Il locale digerisce Skeeen lentamente, come un serpente albino. Ogni angolo si piega come se il tempo stesso si fosse deciso a collassare su di sé. Lo specchio nel bagno ha iniziato a mostrare altri volti, non quello di Skeeen. Lui lo guarda, lo interroga, ma lo specchio restituisce l'immagine di un ragazzo che non ha mai conosciuto: pelle traslucida, occhi pieni di latte, una bocca che non si muove ma parla comunque. "Benvenuto nella sala del giudizio. Ma non è detto che tu verrà giudicato. Forse, solo osservato."

E Skeeen ora trema. Ma non è paura. È nostalgia di qualcosa che non ha mai avuto. Il tocco di un altro corpo che lo ama senza domarlo. Un urlo che lo attraversi da cima a fondo come un vento dentro una caverna. Si piega, si scioglie, ride, piange. Urla. Ma nessuno lo sente, perché El Horno è fatto di una materia più densa del suono. El Horno è un inferno che ha smesso di ardere per diventare permanente.

Qualcuno gli infila un dito nel cuore. Non nel petto. Proprio nel cuore. Attraverso uno sguardo, una parola, un gesto. "Eccoti. Finalmente. Ma ora devi restituirti." Skeeen si volta, ma non sa più in quale direzione sia rivolto. L’orientamento è un concetto che El Horno non conosce. Qui non si va avanti o indietro. Si va sotto.

E sotto c’è la sala del Sangue Lento. Dove i corpi si muovono come in un sogno febbrile. Tutti bagnati di sudore, ma anche d'altro. Tutti nudi, ma anche travestiti. Tutti finti, ma soprattutto veri. La verità si mostra solo quando si è abbastanza rotti da accoglierla senza difese. Skeeen si lascia cadere. È una specie di abisso tiepido. Un ventre. Un ritorno. Forse la nascita. Forse la morte. Forse un video porno degli anni Ottanta, rallentato fino a diventare meditazione zen.

Ora qualcuno lo bacia. Ma non è un bacio. È un’iniezione. Una trasfusione. Una traslazione mistica. Skeeen sente salire da dentro una risata che non è sua. Poi un singhiozzo. Poi un canto. Poi solo silenzio. Poi il battito. Il battito. Il battito.

El Horno ha deciso di tenerlo. Non per sempre. Solo finché avrà qualcosa da perdere. Qualcosa da offrire. Qualcosa da ricordare. La notte non è ancora a metà, ma Skeeen è già oltre. Fuori dal tempo. Fuori dal sé. Dentro ogni altro. In una metamorfosi infinita dove il dolore è solo il primo gradino di un’estasi che non ha nome.

E via. E via. E via.

L’aria di El Horno è una coltre viscosa e soffocante che avvolge ogni fibra del corpo, una morsa densa di umidità e desiderio che penetra come un veleno caldo e dolcemente corrosivo. Skeeen si muove, quasi nuotando, in questo magma carnale, dove l’odore acre del sudore, l’aspro sentore della pelle bagnata e il retrogusto amaro della gomma bruciata si mescolano in un cocktail inebriante e brutale, un’essenza primordiale che dissolve ogni barriera, ogni difesa. L’aria è così piena di vita e morte, di piacere e sofferenza, che sembra pulsare come un cuore gigantesco, un organo vivo che batte al ritmo di gemiti, respiri affannosi e il suono sordo di corpi che si sfregano, si cercano, si fondono.

La pelle di Skeeen è un territorio di confine, un paesaggio sensoriale dove il sudore scivola come un fiume impetuoso, riversandosi in rivoli caldi e salati che incendiano i nervi più nascosti. Ogni goccia è una scintilla, un piccolo incendio che si propaga e si intensifica, bruciando e rinnovando, consumando e rigenerando in un ciclo perpetuo di ebbrezza e disperazione. Le mani si muovono senza posa, cercando, afferrando, scavando nella carne degli altri, in un ritmo furioso e senza tregua, una danza selvaggia di corpi che si intrecciano e si agitano in una battaglia che è al tempo stesso un abbraccio, una lotta e una preghiera.

Le vene di Skeeen si gonfiano sotto la pelle lucida di sudore, pulsando come corde di un’arpa tesa all’estremo, vibrando con un’energia primordiale che sembra poter esplodere in qualsiasi momento. Il suo respiro è un’onda lunga e profonda, che si propaga in tutto il corpo come un incendio silenzioso, una fiamma che arde senza consumare, un desiderio che diventa urlo muto e danza frenetica. L’odore di gomma e lattice, mescolato con la fragranza ferale del sesso non filtrato, crea una nebbia sensoriale che avvolge tutto, che dissolve i confini tra individui, trasformandoli in un unico, pulsante organismo di carne e sudore, di fame e abbandono.

Skeeen sente la propria carne vibrare, ogni singolo muscolo un tamburo che risuona in un crescendo di tensioni e rilasci, una sinfonia di piacere e sofferenza che si intreccia con il battito incessante della musica, con il respiro affannoso e spezzato di corpi che si sfregano, si cercano, si perdono. La pelle è un campo di battaglia dove si consumano duelli di denti, di lingua, di unghie, ma è anche un altare sacro dove si celebra il rito antico e primordiale della fusione, della dissoluzione di ogni identità nell’abbraccio selvaggio e necessario dell’altro.

Il pavimento scivoloso riflette mille frammenti di luce, moltiplicando le immagini di corpi in estasi, in lotta, in abbandono totale. Skeeen si perde in questi riflessi come in un labirinto di specchi, vedendo se stesso moltiplicato, deformato, trasformato in una moltitudine di versioni tutte consumate dalla stessa fame antica, dalla stessa brama feroce e indomabile. Ogni figura è un’esplosione di carne e desiderio, un urlo muto che si perde nella confusione di gemiti, di respiro, di musica che martella incessante.

Il sudore cola lungo la schiena di Skeeen, mischiandosi con l’odore pungente della gomma e della pelle bruciata, diventando una seconda pelle, una corazza liquida che protegge e al tempo stesso espone, che rende ogni sfioramento una scossa elettrica, ogni tocco una ferita e una carezza insieme. Le mani si posano, si stringono, si allungano, afferrano e liberano in un gioco infinito di tensioni e rilasci, di abbandoni e conquiste, di dolcezza feroce e aggressività amorosa.

La musica è un battito primitivo, un tamburo che rimbomba nel petto, che scuote le ossa e fa vibrare le vene come corde di violino. Skeeen si sente travolto, sommerso da questa onda sonora e carnale, un’onda che spinge e trascina, che dissolve ogni barriera e dissolve ogni confine tra piacere e dolore, tra vita e morte. Ogni gemito è un invito, ogni respiro un’offerta, ogni sguardo una promessa di perdizione e redenzione.

I corpi si intrecciano in una danza selvaggia e perfetta, una marea di carne e sudore che avanza e si ritira, che si fonde e si separa in un ritmo incessante e ipnotico. Skeeen si lascia trasportare, si abbandona completamente a questa corrente che lo travolge e lo consuma, diventando parte di un organismo vivo, un’entità unica fatta di pelle, di sudore, di brividi e urla soffocate.

La pelle scotta, brucia, vibra sotto le dita che accarezzano, mordono, graffiano; ogni tocco è una scarica, un’esplosione di sensazioni che si propagano in tutto il corpo, risvegliando nervi sopiti, accendendo fiamme sopite nel profondo. Skeeen si sente come arso e rigenerato allo stesso tempo, consumato da un fuoco sacro che divora e purifica, che distrugge per far nascere di nuovo.

Il respiro diventa sempre più affannoso, sempre più spezzato, una danza di suoni che si intrecciano con il ritmo incalzante della musica e con il battito impazzito del cuore. Ogni gemito è un’onda che si propaga, ogni sussulto un terremoto che scuote le fondamenta di questa cattedrale di carne e desiderio. Skeeen è al centro di questo vortice, un punto di tensione estrema dove si concentrano tutte le energie, tutte le passioni, tutte le forze in gioco.

Le luci intermittenti disegnano ombre contorte sui corpi lucidi di sudore, trasformandoli in creature mitiche, in demoni e angeli che si sfidano e si abbracciano in una lotta eterna e infinita. Skeeen vede il suo riflesso moltiplicato e deformato, perduto e ritrovato in questo caleidoscopio di immagini spezzate, un mosaico di carne e desiderio che si scioglie e si ricompone senza fine.

L’odore di gomma bruciata, di pelle sudata, di profumi speziati e forti crea una nebbia sensoriale che avvolge tutto e tutti, un velo spesso e denso che rende indistinguibili i confini, che dissolve ogni certezza, ogni sicurezza. Skeeen si sente dissolvere, fondersi, diventare un fluido caldo e viscoso che scorre e si perde in questo mare di corpi, di sudore, di urla soffocate.

Il sudore scorre come fiumi impetuosi lungo ogni curva, ogni piega della pelle, mescolandosi con l’odore acre della gomma, con il retrogusto dolce amaro del sesso vissuto senza filtri, senza freni. È una fragranza primordiale e sacra, un profumo di vita e di morte che si impadronisce di tutto e tutti, che diventa una seconda pelle, una corazza liquida che protegge e insieme espone.

Skeeen si abbandona completamente a questa marea di sensazioni, diventando parte di un unico, immenso organismo pulsante, un corpo collettivo fatto di carne, sudore, urla e desiderio. Non c’è più niente fuori, niente dentro: solo un flusso inarrestabile di energia viva, un vortice di carne e sangue che trascina via ogni cosa, che consuma e rigenera, che distrugge per creare di nuovo.

Il cuore di Skeeen batte all’impazzata, le vene pulsano come corde tese all’estremo, i muscoli si contraggono e si rilassano in un ritmo frenetico e ipnotico. Il suo corpo è un tamburo che risuona con la musica, un’orchestra di nervi e carne che suona la sinfonia del piacere e della sofferenza, della vita e della morte, della fuga e del ritorno.

L’aria è densa di respiro, di gemiti, di urla soffocate e di sospiri, un coro infinito che riempie il locale e si propaga in ogni angolo, in ogni piega di carne e pelle. Skeeen si perde in questo coro, si lascia trasportare dalla marea, diventando una nota in questa sinfonia selvaggia e indomabile, una scintilla in un incendio che non si spegnerà mai.

E così, immerso in questo delirio carnale, Skeeen si dissolve, si fonde, si perde e si ritrova, diventando parte di un unico, immenso respiro di vita, di morte, di desiderio assoluto, un’eco lontana eppure potentissima che risuona nel cuore stesso dell’inferno e via e via certamente …un’eco lontana eppure potentissima che risuona nel cuore stesso dell’inferno.

E l’inferno è dolce, sa di pelle umida, sa di latex logoro, sa di capezzoli gonfi di morsi, di perizomi tirati come cordami su cui l’anima si tende e si spezza. Le pareti tremano, e non si sa se per le casse o per il sudore che scivola dalle travi e batte il tempo, o forse è solo la carne che pulsa talmente forte da far vibrare l’architettura. Skeeen non distingue più le superfici: il soffitto, le cosce, le cosce come pareti, le lingue come corridoi, i capezzoli come occhi. Sta fluttuando nell’organo globale che è El Horno, il cuore che macina ogni forma e la restituisce gocciolante, mostruosa, redenta. Nessuna tenebra è più tenebra: tutto suda, tutto spruzza, tutto vive.

Il grasso corporeo si mescola al lubrificante che cola a rivoli sotto gli stivali di cuoio, un lago denso in cui scivolano ginocchia, pugni, spalle tatuate, fronti grondanti. Il corpo di Skeeen non ha più direzione, è stato ruotato da mani anonime, le cosce strattonate in un’altalena di comandi non detti: apri, chiudi, gira, scendi, offri. Le mani che lo afferrano non sono mai le stesse, ma tutte portano la stessa intenzione: estrarlo da sé, scolpirlo con graffi, morderlo fino a cavargli l’identità e riempirlo di un’altra, liquida, impura, invocante. Le mascelle di qualcuno gli si chiudono attorno alla scapola e ci restano, ferme, come a voler succhiare l’anima attraverso l’osso.

In fondo alla sala, un altare fatto di schiene inginocchiate, e sopra, come ostensorio perverso, un uomo legato con corde rosse che brillano sotto la strobo come fuochi d’artificio di carne: piange, ride, urla — ogni suono si confonde, ogni muscolo è un’esclamazione muta. Skeeen avanza a scatti, sospinto, a volte sollevato di peso da un braccio nudo, laccato di sperma e sudore, a volte trascinato per le caviglie, finché non giunge lì, tra i corpi inginocchiati. Le bocche gli si avventano contro come cani a un osso — ma non c’è fame, c’è culto. Leccano il dolore che ha sulla pelle, l’amano, lo divorano. Nessuno è intero. Nessuno è solo.

Un uomo col volto coperto da una maschera di pelle lucida emette un verso gutturale, mentre il suo membro, enorme, nero di lattice, si agita come un cetaceo furioso tra le gambe di un ragazzo a quattro zampe. Le mani di Skeeen si stringono su un’altra schiena, la sentono fremere come tamburo, si fondono in una sinfonia cieca di carne che vibra e geme. Le luci tremano. Qualcuno geme in tre lingue diverse e nessuna importa. Lì non esiste più parola: tutto è lingua e lamento, sussurro nella carne, sonorità che non passano dalle corde vocali ma si scolpiscono tra le clavicole, nei lombi, tra i peli dell’inguine.

I capezzoli di Skeeen sono diventati due orbite incandescenti; la schiena è un campo arato da unghie feroci, e ogni nuova ferita è una benedizione. La sensazione è troppo: un sovraccarico elettrico che non vuole dissiparsi. È prigioniero in una pienezza cosmica, dove il dolore è solo l'altra faccia dell’estasi e ogni colpo ricevuto è un sacramento. L’intero El Horno è una chiesa rovesciata, e Skeeen è insieme diacono e offerta, reliquia e profanazione.

Lui non sa più se è dentro qualcosa, se qualcosa è dentro di lui, se il confine è mai esistito. C’è solo questo: l’odore della carne sfatta, l’urlo muto della resa totale, le vene delle tempie che pulsano come se potessero staccarsi, frangersi in uno spruzzo di luce e sangue. Le ginocchia gli cedono e lo accolgono mani, bocche, lingue: tutto lo tiene in vita mentre lo uccide, tutto lo trascina giù mentre lo eleva. Non c’è redenzione che non sia sudata, sporcata, attraversata da mille brividi e da una sola, suprema assenza di pietà.

E infine, quando non c’è più un solo centimetro di pelle che non tremi, Skeeen apre gli occhi — o forse li chiude per la prima volta — e l’universo è carne, pura, palpitante, sacra carne, che urla il suo nome nel silenzio elettrico dell’abisso.

Era fermo. Lo avevano spogliato col silenzio. Non gliel’avevano chiesto. Nessuno chiede niente a El Horno. I corpi non si domandano, si prendono. Così avevano cominciato a toccarlo, uno per uno, baciandolo come si baciano le superfici sacre: con timore e impazienza. Mani grandi, mani smunte, mani feroci, mani esitanti — tutte posate su di lui come su un animale che si crede estinto.

Skeeen era lì. Non si era mosso. Non aveva reagito. Aveva lasciato che il corpo parlasse in vece sua, che la pelle rispondesse a ogni contatto con quella febbre muta, arresa. Non c’era in lui né desiderio né rifiuto, solo lo stupore vertiginoso di chi si accorge, all’improvviso, di essere diventato qualcosa. Non qualcuno. Qualcosa. Qualcosa che attrae, che serve, che consola.

Gli occhi aperti — più aperti del possibile. Le pupille enormi, inghiottivano tutto: le luci incerte, il fumo sospeso, il sudore di altri, il tempo che dentro quel posto si muoveva obliquo. El Horno non aveva finestre, né pareti vere. Era più simile a un organismo che a un locale. Respirava. Trasudava. Vibrava con un suono di fondo costante, una specie di canto basso, di organo sommerso.

Il primo bacio era arrivato sul collo, freddo, svelto. Il secondo sull’addome, caldo. Il terzo sul petto, lentissimo. Poi le mani, che erano diventate decine, un alveare, una foresta. Ognuna cercava un punto, una conferma, una traccia. Nessuno lo guardava negli occhi. Lo attraversavano.

Dentro di sé Skeeen sentiva un’onda, un’onda larghissima, nera, non dolore ma presenza. Una consapevolezza che non aveva mai avuto prima. Quel suo corpo, che aveva sempre pensato come carne da dare o nascondere, era diventato d’un tratto altro: un passaggio, un canale, un trasmettitore. Portava qualcosa. Non sapeva cosa. Ma era certo che fosse lì, in lui, da sempre.

E più lo toccavano, più sentiva sciogliersi i limiti. Le braccia, le cosce, il volto: tutto andava perdendo i contorni. Non si stava più in piedi per volontà, ma per sospensione. Come un Cristo spogliato, ma senza dolore. Come un’ostia esposta in adorazione, ma col sudore addosso. El Horno era questo: un altare profano. Un’apertura. Una zona rossa, carnale, assoluta, in cui ogni maschera si liquefa.

All’improvviso il calore cambiò qualità. Non era più solo corporeo, ma mentale. Una specie di pensiero bollente gli saliva dallo stomaco al cervello, un pensiero fatto di immagini e gemiti confusi, ricordi che non erano suoi, desideri sputati da corpi estranei. Vide stanze che non conosceva. Vide se stesso urlare. Vide un ragazzo inginocchiato davanti a uno specchio con la bocca sporca di sangue. Vide una madre dormire e il figlio accanto che si toccava in silenzio. Vide un cane morto. Un bacio dato a un prete. Una festa in un bagno pubblico. Un corpo chiuso in un sacco nero.

E allora capì: non era lui a essere entrato in El Horno. Era El Horno che gli era entrato dentro. Lo aveva scelto. Lo aveva eletto. Lo aveva disciolto nella sua pasta segreta.

Il tempo, da quel momento, smise di contare. Il sudore che lo colava dalla fronte alla schiena non sembrava più prodotto dal suo corpo, ma da un’altra fonte, più vasta, come se stesse trasudando il calore di cento, mille corpi prima del suo, sedimentati lì, nel pavimento, nei muri porosi, nelle luci alogene impolverate. Ogni poro si apriva e chiudeva come un occhio, e in ogni occhio c’era l’immagine di un altro: un altro uomo, una lingua, una perdita.

Skeeen si sentiva premuto, ma non schiacciato. Era come se El Horno stesse tastandogli il cuore da dentro, con dita invisibili, fredde e penetranti. Ogni nervo vibrava come la corda di uno strumento sottoposto a uno strofinio inesausto, acido. Non c’era più confine tra interno ed esterno: saliva e sangue si scambiavano come fiumi che avevano smarrito l’argine.

Nel pieno della vertigine, lo prese una calma stranissima, irreale. Come se fosse diventato uno dei loro, o meglio: come se tutti loro fossero entrati in lui. I gesti si fecero più lenti, più ampi, come in un rito che aveva trovato finalmente il suo ritmo. Le mani non toccavano più solo la pelle, ma cercavano di affondare, di conoscere, di scavare una strada.

Sentiva l’alito degli altri dentro il suo stesso respiro. Non era più aria: era carne evaporata, desiderio distillato, sudore che diventava vapore, che diventava nube, che diventava preghiera.

Poi un dolore, non fisico, ma simile. Una stretta improvvisa nella memoria. Un volto. Un nome. Qualcuno di prima. Una voce: «Ritorna». Ma Skeeen non poteva più tornare. Non si torna da El Horno. Non si esce. Si cambia densità. Si diventa liquido, odore, ombra. Si diventa parte del locale stesso, della sua fame, del suo canto.

E sotto il battito ipnotico della musica — che non era musica, ma battito uterino, suono primordiale, memoria amniotica — Skeeen chiuse gli occhi. Non per stanchezza, ma per trasformarsi del tutto. La bocca socchiusa, le labbra impastate, la lingua tesa come per pronunciare un nome che non aveva suono.

Qualcuno lo stava ancora tenendo, ma era impossibile sapere chi. L’unico corpo era ormai il luogo.

El Horno era lui.

Skeeen non si accorge subito della trasformazione, perché inizia con gesti minimi: una camminata più obliqua, come se a muovergli le gambe fosse un ritmo interno che non gli appartiene del tutto; una frase che non ricorda di aver pensato ma che sente di aver pronunciato con la bocca socchiusa. Le luci del locale gli scivolano addosso come sempre, ma questa volta la pelle le raccoglie come fossero istruzioni.

Qualcosa lo ha abitato. Nessun demone. Nessun dio. Soltanto una presenza, remota e costante, come il ricordo di un odore d’infanzia, o la pressione di un'idea che non si riesce più a scrollare via. È in questo modo che inizia a cedere, dolcemente, non per desiderio ma per inevitabilità. Come si cede al sonno. Come si accetta un sogno già cominciato. Non c’è panico, né stupore, solo una sorta di intimità che si contrae e si distende, come pelle sotto acqua calda. Ogni vibrazione del locale, ogni odore metallico e acre, ogni movimento di altri corpi attorno a lui, diventa un’eco che si incastra perfettamente in quella nuova risonanza interiore. Non c’è più nulla da separare, né da distinguere.

Ogni passo dentro El Horno lo porta più dentro anche a sé stesso. Ma a un sé stesso che non riconosce del tutto, eppure non gli è estraneo. Si direbbe una forma precedente di sé. O una successiva. Un’identità che gli cresce dentro, come uno strato che non sapeva di avere e che ora trasuda. I muscoli rispondono, sì, ma non a lui. Ai comandi di quella presenza, che non parla, ma guida. E Skeeen non oppone resistenza. Nessuna. Perché in fondo, è così che ha sempre voluto sentirsi: svuotato abbastanza da poter essere riempito. Plasmato abbastanza da poter cambiare forma. La possessione non è invasione. È un ritorno. È un ricongiungimento. È un abbraccio che viene da dentro, e non ha bisogno di braccia.

Ciò che si forma nel suo petto è simile a un battito aggiuntivo. Un cuore gemello. Non in senso medico, ma mitico. Qualcosa pulsa, sì, ma non solo sangue. È una lingua che non parla in parole, una temperatura che cresce come una preghiera non detta. I suoi pori si aprono, e qualcosa in lui suda anche quando non fa caldo. Le mani diventano strumenti di una volontà che non conosce, ma che accetta. Le sue pupille si dilatano per accogliere più luce, o forse per meglio vedere ciò che non si mostra in superficie.

Così, mentre lo spazio attorno a lui si muove, mentre i corpi urtano e le bocche parlano e la birra scalda, Skeeen non ascolta più niente. Sta diventando. E quel diventare è una forma d’amore. Non gentile, non tenera. Ma radicale. Inevitabile. Necessaria. Una forma di sacralità che non ha niente a che vedere con gli altari, ma tutto a che vedere con l’abbandono. Ogni fibra del suo corpo, ogni capello, ogni callo sotto i piedi, partecipa a quel mutamento. Come se ogni singola parte di lui fosse stata chiamata a raccolta. E tutte avessero risposto: presente.

Nel bagno centrale, una porta si apre e il suo riflesso gli sorride dallo specchio senza che lui abbia sorriso affatto. Skeeen capisce: non è più solo. E forse non lo è mai stato. È stato atteso. Non c’è nessun trucco, nessun inganno. Soltanto la rivelazione lenta e luminosa di una verità che era già lì, sedimentata sotto strati di abitudine e vergogna. Lui è il veicolo. Lui è la carne. Lui è la soglia.

Fuori, i rumori continuano. Dentro, l’attesa è finita.

Amen è solo un sussurro strozzato nel vortice che non cessa, una parola che si sgretola come polvere di ossa sotto i piedi stanchi di Skeeen. L’attesa è finita? Forse è solo un punto di svolta invisibile, un passaggio in cui il tempo si dissolve, si contorce, si allunga fino a diventare liquido nero che cola lentamente tra le dita. El Horno, quel luogo che non è mai solo un luogo, si espande dentro e fuori, si insinua nei pori come un veleno dolce, come un’ossessione che ti stringe la gola e ti fa tremare il corpo intero, dalla nuca fino alle punte dei piedi sporchi di terra e di sudore.

La pace? Non è mai stata una fine. È un’illusione, una tregua temporanea che si consuma nel respiro affannoso di chi sa di non poter fuggire. Skeeen è posseduto, certo, ma non da spiriti convenzionali o demoni da romanzo gotico. È posseduto dalla carne stessa, da quel groviglio di istinti, paure, desideri che si agita dentro di lui come un animale selvaggio imprigionato in un labirinto di specchi deformanti. Ogni riflesso è un frammento di un passato che non si può dimenticare, ogni ombra un frammento di un futuro incerto che lo inghiotte lentamente, come sabbia che scivola via dalle dita tremanti.

Il sudore scivola lungo la schiena, raccoglie la polvere delle notti passate a cercare qualcosa di indefinito, qualcosa che sa di vita e di morte insieme, qualcosa che grida silenziosamente tra le pieghe del corpo e della mente. I muscoli si contraggono e si rilassano in un ritmo primordiale, quasi ipnotico, che tiene Skeeen legato a quel luogo come a una corda invisibile, tesa e vibrante. La sua pelle, lucida di una patina sottile di sale e fatica, racconta storie di incontri fugaci, di corpi che si cercano e si respingono, di piaceri che si consumano in un battito di ciglia e poi si dissolvono nel nulla.

Eppure, nonostante tutto, c’è una strana bellezza in questa possessione carnale. È un rito antico, un sacrificio moderno, una danza macabra che si ripete all’infinito dentro le mura sporche di El Horno. La mente di Skeeen si perde in una deriva senza confini, dove il passato e il presente si intrecciano in una trama di sensazioni crude, brutali eppure stranamente liberatorie. Non c’è spazio per il giudizio, solo per la resa totale a ciò che è, a ciò che resta, a ciò che brucia sotto la pelle come un fuoco indomabile.

La corrente si stacca. Il mondo si spegne in un sussurro. Ma dentro Skeeen, la tempesta continua a infuriare, più violenta, più intensa, più reale che mai. E nella penombra, tra l’oscurità e la luce morente, l’unica cosa certa è che l’attesa non è mai davvero finita. È solo il preludio a un altro inizio, a un altro viaggio senza ritorno, a un’altra possessione che non conosce tregua né pietà.