martedì 17 giugno 2025

La fortuna a gocce: il Pollock da cinque dollari


Chi decide che cosa è arte? Il caso Teri Horton come sfida epistemologica e sociologica al sistema dell’arte contemporaneo

Abstract

Il caso di Teri Horton, ex camionista statunitense che sostiene di aver rinvenuto un’opera autentica di Jackson Pollock in un negozio dell’usato, costituisce un episodio emblematico per indagare le logiche di autenticazione e legittimazione dell’opera d’arte nel sistema contemporaneo. Il presente saggio analizza il caso alla luce della teoria istituzionale dell’arte (Dickie), della critica della distinzione estetica (Bourdieu), e dei concetti di aura (Benjamin) e opera aperta (Eco), interrogando i presupposti impliciti che governano la formazione del valore artistico. Ne emerge una riflessione più ampia sulla distribuzione del potere culturale e sulla funzione, spesso invisibile ma pervasiva, delle istituzioni nella delimitazione del senso e dell’autenticità artistica.


1. Premessa: un quadro da cinque dollari

Nel 1992, la statunitense Teri Horton, residente a San Bernardino (California), acquista per cinque dollari un grande dipinto astratto da un thrift shop locale. L’opera – caratterizzata da un fitto reticolo di colature cromatiche, che richiama visivamente il gesto informale di Jackson Pollock – è inizialmente destinata a uno scopo ludico: fare da bersaglio per un gioco di freccette. La scoperta dell’opera e il sospetto, confermato da analisi successive, che si tratti di un originale Pollock, innescano un processo di tentata legittimazione che, però, si scontra con una sistematica resistenza da parte del mondo dell’arte istituzionale.

Questa vicenda non può essere liquidata come semplice aneddoto. Essa costituisce, piuttosto, una lente attraverso cui osservare le contraddizioni epistemiche e sociologiche che attraversano l’idea stessa di autenticità artistica e valore estetico.


2. Autenticità e autorità: l’impasse della provenienza

Il punto nodale della questione risiede nell’assenza di una provenienza storica documentata (provenance), elemento ritenuto fondamentale per la convalida di un’opera d’arte nel mercato e nella storiografia contemporanei. Nonostante le perizie forensi (come l’impronta digitale rinvenuta sul retro del dipinto, compatibile con quelle note di Pollock) e le analisi materiali condotte da studiosi indipendenti, il dipinto non è mai stato inserito nel catalogo ragionato dell’autore né riconosciuto ufficialmente da esperti accreditati.

Qui si pone un paradosso strutturale: la possibilità che un’opera autentica, se priva di documentazione coerente e di endorsement istituzionale, venga sistematicamente esclusa dall’ontologia dell’arte. Il criterio di autenticità non si fonda più, come nella tradizione connoisseuristica, sull’occhio esperto o sull’analisi stilistica, ma sulla traccia scritta del possesso e del passaggio storico – in altre parole, sull’archivio.


3. La teoria istituzionale dell’arte e la posizione del profano

Il caso Horton può essere agevolmente interpretato attraverso la lente della teoria istituzionale dell’arte formulata da George Dickie (1974), secondo cui un oggetto diventa opera d’arte non per sue qualità intrinseche, ma perché accettato come tale da un sistema istituzionale che comprende artisti, curatori, critici, collezionisti e musei. Horton, in quanto soggetto esterno a tale campo, si ritrova in una posizione radicalmente priva di potere simbolico: il suo sguardo, privo di formazione accademica, è privo anche della legittimità di definire ciò che è arte.

Nel momento in cui Horton tenta di entrare nel discorso critico, anche armata di dati scientifici, viene ridotta a figura folklorica, marginale, inadeguata. Il suo gesto – apparentemente ingenuo – si configura come una contestazione implicita ma dirompente: se non è l’opera a determinare la propria verità, ma il contesto che la riceve, allora chi controlla il contesto detiene il potere sull’ontologia stessa dell’arte.


4. Estetica e distinzione sociale: l’eredità di Bourdieu

Il caso Horton trova un potente correlato teorico nella critica di Pierre Bourdieu al concetto di gusto estetico. Nella sua opera fondamentale La distinction (1979), Bourdieu dimostra come il giudizio estetico non sia mai neutro, bensì storicamente e socialmente determinato. La distinzione tra ciò che è “arte” e ciò che non lo è serve a rafforzare il capitale culturale delle classi dominanti, che detengono le chiavi della legittimazione simbolica.

Horton, rappresentante di una working class americana spesso caricaturata o ignorata dai circuiti culturali ufficiali, viene esclusa non solo dal mercato, ma anche dal discorso critico. Il rifiuto di riconoscere come Pollock un’opera formalmente e materialmente compatibile si lega più al profilo sociologico della scopritrice che a un reale dubbio estetico o scientifico.


5. Aura e mediazione: il fantasma di Benjamin

La questione della presenza fisica dell’opera, del suo “qui e ora”, evoca inevitabilmente il concetto di aura elaborato da Walter Benjamin nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936). L’opera scoperta da Horton è carica di aura: è materiale, unica, misteriosa, inedita. Eppure questa aura non basta, poiché essa viene oggi surrogata dalla riproducibilità documentaria: la storia di un’opera è più importante della sua esistenza concreta. Benjamin ci suggerisce che l’aura, sebbene svanita nella società della riproduzione, continua a operare come feticcio ideologico – e il caso Horton ne è la conferma tragica.


6. Un’opera aperta (e chiusa)

In Opera aperta (1962), Umberto Eco riflette sul ruolo attivo del lettore (o fruitore) nell’interpretazione dell’opera d’arte, la cui significazione non è mai univoca. Il rifiuto di attribuire valore all’opera di Horton è dunque anche una negazione del diritto ermeneutico del soggetto non istituzionalizzato. L’“apertura” dell’opera si chiude laddove il sistema decide che il contesto di provenienza non è legittimo.


7. Conclusione: la tela come specchio del potere

A oggi, l’opera non è stata accettata come autentica e la sua attribuzione rimane non ufficiale. Ma il problema cruciale non è la paternità dell’oggetto, bensì la rete di meccanismi che ne regola l’accettazione simbolica. Il caso Horton pone una domanda che va oltre il singolo episodio: chi ha il potere di nominare, e dunque di esistere, nel campo dell’arte?

In tempi in cui le istituzioni culturali riflettono sulla necessità di decolonizzare i propri archivi e ampliare i canoni della legittimità, il gesto di Teri Horton – ostinato, autodidatta, irriducibile – appare come una chiamata a riconsiderare i criteri epistemologici della critica d’arte. La sua opera, vera o falsa che sia, è già diventata reale nella misura in cui continua a far discutere, a destabilizzare, a rendere visibile ciò che il sistema tende a rimuovere: l’elemento popolare, irrappresentabile e potenzialmente eversivo del “fuori campo”.