Forse non è morto nessuno. Forse è solo svanita una delle ultime voci capaci di parlare del desiderio senza paura né decenza, con una sincerità che faceva male come uno specchio non truccato. È morto Edmund White, e non è una notizia. È un collasso interno, un crollo di architrave in una casa che ci aveva fatto da rifugio, da specchio, da confessionale.
Il fatto è che White non scriveva su qualcosa. Lui era quel qualcosa. Era l’infanzia come cicatrice, la giovinezza come farsa sensuale, l’età adulta come zoo sentimentale. Il suo corpo era una biblioteca aperta 24 ore su 24 — ed era anche un corpo queer, malato, ingordo, ironico, appassionato, senza alibi. Forse il primo a dire: “Sì, sono io. E non mi discolpo”.
È morto Edmund White, e in noi si spegne quella lampadina da bagno pubblico che illuminava l’intimità nel suo lato più sporco, più tenero, più segreto. Con lui finisce il tempo degli scrittori che non si truccavano da moralisti. Non ha fatto prediche, non ha fatto ideologia. Ha fatto carne. Ha fatto memoria. Ha fatto quella cosa assurda che è dire tutto, anche ciò che si rimpiange mentre lo si scrive.
Era una figura scorretta, scomoda, gloriosamente anacronistica: parlava di passione quando il mondo voleva parlare di politica, di carne quando si preferiva la teoria, di felicità proprio quando si sarebbe dovuto parlare solo di trauma. E lo faceva con frasi cesellate, musicali, indecenti e limpide come un bicchiere di vodka all’alba.
È morto, sì. Ma se ne va qualcuno che aveva già fatto pace col morire. Lo ha scritto. Lo ha scritto meglio di chiunque. Sapeva che la vita è una lunga cerimonia di addii, e che ogni corpo toccato era un saluto, un racconto, una pagina. La bellezza — diceva — è spesso una forma di pietà. E ora è la nostra volta di avere pietà per il mondo, che dovrà continuare senza la sua voce che rideva mentre confessava.
Non resta che riaprire A Boy’s Own Story, The Farewell Symphony, Our Young Man, sfogliarli con lentezza, come si fa con le lettere di un amante morto troppo presto. Anche se Edmund White è arrivato in fondo. Fino all’ultima parola. Fino alla vecchiaia, che ha trasformato in stile. È morto, ma è una di quelle morti che sembrano una forma alternativa di permanenza.
Edmund, se ci ascolti da quel non-so-dove dove vanno i grandi puttanieri sentimentali, sappi che siamo qui. E che il tuo silenzio — oggi — fa molto più rumore di tutta la nostra letteratura.