lunedì 2 giugno 2025

il cerchio delle Dee: visione notturna del femminino sacro

Artemide Efesia: un enigma di pietra tra mito, culto e sincretismo

Nel vasto dedalo di sale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, là dove le statue sembrano respirare l’aria ferma del tempo, si trova un’immagine che sconcerta, seduce, impone silenzio e reverenza. Non ha la grazia elegante delle dee olimpiche né l’armonia apollinea della scultura classica: l’Artemide Efesia, detta anche Artemide Farnese, è una figura che scardina l’estetica del bello ideale per immergerci in una visione arcaica, ieratica, profondamente simbolica del divino. Lontana dalle rappresentazioni più note della cacciatrice selvatica armata di arco e circondata da cerbiatti, qui Artemide appare come un’imponente madre cosmica, ferma e frontale, immobile come un idolo antico, carica di attributi tanto numerosi da far tremare ogni tentativo di razionalizzazione iconografica.

Questa scultura, realizzata in alabastro giallo durante il II secolo d.C., appartiene alla Collezione Farnese e venne rinvenuta nella sontuosa Villa Adriana di Tivoli, luogo che per secoli fu una sorta di microcosmo dell’Impero, dove l’imperatore Adriano riunì le espressioni artistiche e religiose di tutti i territori conquistati da Roma. È una copia romana di epoca adrianea che si rifà direttamente a un originale ben più antico e venerato: la statua di culto della grande Artemide di Efeso, divinità tutelare della città e centro nevralgico di un culto che mescolava tradizioni anatoliche, orientali e greco-ellenistiche. Il santuario di Efeso, tra i più celebri del mondo antico, non era solo luogo sacro ma anche simbolo di potenza, ricchezza e fertilità: la statua che vi era custodita rappresentava il cuore spirituale e politico della comunità cittadina.

Ed è proprio questa stratificazione culturale a emergere con forza nella copia napoletana. La postura rigida della statua – priva di movimento, completamente frontale – parla di una tradizione religiosa più arcaica della grecità stessa, più prossima agli idoli orientali che alle statue antropomorfe greche. Non c’è pathos, non c’è narrazione: c’è un’immagine fissa, che non rappresenta ma è la divinità. Artemide qui non è soltanto una dea, ma una forza generatrice primigenia, signora della vita e della morte, dispensatrice di abbondanza e, insieme, potenza inaccessibile. La sua corporeità non è umana, ma simbolica. È una colonna sacra, un pilastro cosmico attorno al quale ruotano i cicli della natura e delle stagioni.

Il petto, sovraccarico di ornamenti, è forse l’elemento più sorprendente e discusso. Quattro file di protuberanze che sono state lette nei secoli in modi contrastanti: mammelle, simbolo di maternità inesauribile? O piuttosto scroti taurini, elementi rituali legati al sacrificio animale, quindi alla morte che nutre la vita? O ancora, semplici pendenti rituali di origine orientale, come se ne trovano in alcune raffigurazioni della Grande Madre anatolica? Nessuna interpretazione esclude le altre. Al contrario: l’ambiguità è parte della sua forza. In Artemide Efesia convivono e si mescolano le polarità fondamentali del cosmo: femminile e maschile, vita e morte, natura e cultura, animale e divino. È un’immagine non di rassicurazione, ma di vertigine.

Accanto a queste file di mammelle o scroti – comunque si scelga di leggerle – si dispiegano in basso protomi di animali mitici e reali: leoni, grifi, cavalli, tori, sfingi, api. Non sono semplici decorazioni, ma sigilli simbolici. I leoni rimandano alla regalità e alla forza solare; i grifi, creature alate con corpo di leone e testa d’aquila, evocano il sacro potere che vigila tra cielo e terra; i cavalli, la vitalità e la velocità della natura; i tori, forza virile e sacrificale; le api, animale sacro ad Artemide, sono emblema di comunità, castità e fertilità; le sfingi, infine, introducono un elemento di mistero e soglia, come guardiane di un sapere proibito. La natura nella sua totalità – feroce, molteplice, fertile e imprevedibile – si rifrange sul corpo della dea.

Anche l’ornamentazione del pettorale è densa di significati: avvolto da una corona di elicriso e ghiande, piante legate al ciclo della rigenerazione, ospita due figure femminili alate – forse arpie, forse personificazioni dei venti o della fortuna – e una sequenza di simboli zodiacali: Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone. Non è un caso: si tratta dei primi cinque segni dell’anno astrologico, legati alla primavera e all’estate, cioè ai mesi della crescita, della luce, della fruttificazione. Artemide, qui, non è solo dea della natura: è natura stessa nel suo eterno ritorno. È l’ordine delle stelle e il loro influsso sulla materia vivente. La statua intera è una cosmografia simbolica, un atlante sacro scolpito, in cui il corpo divino coincide con quello del mondo.

La testa della scultura è sormontata da un grande nimbo circolare e da un copricapo a kalathos, la cui forma richiama quella di una torre o di una cinta muraria. È un altro elemento che la distingue dalle altre immagini divine: Artemide non è solo dea della natura incontaminata, ma anche protettrice delle città, regina della civiltà umana. In questa versione efesina si fonde la dea selvatica con la custode della polis, la sovrana urbana. Il kalathos – cestello rituale e simbolo di abbondanza nelle cerimonie femminili – assume qui la monumentalità dell’architettura: la dea diventa anche muraglia, confine, soglia sacra. Lei è ciò che difende e delimita, ciò che custodisce il cuore della città.

La statua, così come la vediamo oggi a Napoli, non è tuttavia interamente originale. Le mani, i piedi e la testa sono frutto di un accurato restauro ottocentesco, eseguito quando l’opera fu trasferita da Roma a Napoli per arricchire le raccolte Farnese. Secondo il gusto antiquario dell’epoca, si cercò di “completare” ciò che appariva mutilo, conferendo alla figura una certa integrità formale. Tuttavia, questi interventi, pur se esteticamente armonizzati, introducono un elemento di distanza tra l’intento originario della statua e la sua percezione moderna. Il bronzo, materiale moderno rispetto all’alabastro antico, produce un contrasto che dice molto anche sull’evoluzione del nostro rapporto con l’antico: non più oggetto di venerazione, ma di studio, di restauro, di collezionismo, di contemplazione museale.

Tuttavia, al di là delle mani moderne e dei piedi rifatti, l’Artemide Efesia rimane una delle testimonianze più potenti e misteriose del sincretismo religioso del mondo antico. È una figura che attraversa confini: tra Oriente e Occidente, tra divino e naturale, tra il culto e la politica, tra il corpo e il cosmo. Il suo volto impassibile, la sua mole frontale, la sua decorazione traboccante di simboli fanno di lei non un semplice oggetto d’arte, ma un enigma vivente. Non ci guarda: ci sfida. Non si mostra: si impone.

In un’epoca come la nostra, spesso alla ricerca di immagini nitide, funzionali e leggibili, Artemide ci restituisce un’esperienza estetica e spirituale radicalmente altra. Ci costringe a sostare, a interrogarci, a tollerare l’ambiguità. Ci chiede di ricordare che il divino, come la natura, come il femminile arcaico, non è sempre bello, non è sempre chiaro, non è sempre buono. Ma è vasto, potente, e infinitamente più antico di noi.


Le repliche dell’Artemide Efesia: variazioni di un archetipo

La statua dell’Artemide Efesia non fu un unicum. Come tutte le immagini di culto centrali in un santuario panellenico e panmediterraneo, essa fu replicata, copiata, rielaborata in numerose varianti e trasposizioni, sia nell’ambito della scultura monumentale che nella produzione di piccoli oggetti votivi in bronzo, terracotta o pietra. L'iconografia della dea, tanto inusuale e potente, divenne essa stessa formula codificata, ripetuta e moltiplicata non solo a Efeso, ma ovunque il suo culto si diffondesse: dalla Grecia insulare fino alla Siria, dalla Campania alle rive del Danubio.

Tra le repliche più celebri, oltre alla Farnese, vi è quella conservata nei Musei Vaticani (Artemide Efesia del Museo Gregoriano Profano), simile per postura e composizione, ma più compatta nella decorazione e meno estesa nella simbologia zodiacale. Un'altra importante variante si trova a Efeso stessa, nel sito archeologico turco: una statua alta circa un metro, databile al I secolo d.C., che conserva intatti molti dettagli decorativi originali, tra cui le api sacre e le collane a più fili che attraversano il busto.

Particolarmente interessanti sono anche le versioni miniaturistiche prodotte per la devozione privata: queste piccole Artemidi, spesso in terracotta o bronzo dorato, semplificano alcuni elementi (ad esempio il nimbo, i segni zodiacali) ma mantengono la molteplicità mammaria e la frontalità ieratica, segno che l’immagine era considerata potente anche in scala ridotta. In molti esemplari, soprattutto in ambito romano, si nota una crescente tendenza all’ellenizzazione dei tratti: il volto si fa più dolce, il corpo più slanciato, le decorazioni più simmetriche. Tuttavia, resta intatto il cuore dell'immagine: Artemide come axis mundi, dea cosmica, madre assoluta.

Alcune copie mostrano persino una torsione lieve del busto, segno di una volontà di “umanizzazione” della divinità, nella linea della scultura ellenistica. Altre, come l’esemplare di Afrodisia, presentano un’insolita presenza di uova o frutti pendevoli, che potrebbero suggerire legami con il culto frigio o con Demetra. Queste variazioni dicono molto sul destino dell’immagine: non fissità dogmatica, ma modulazione plastica di un principio archetipico. La statua di Artemide Efesia è, in fondo, un palinsesto iconografico: una struttura su cui ogni cultura ha potuto scrivere il proprio bisogno di sacro.


Il culto della Grande Madre: da Cibele a Artemide

Dietro l’immagine efesina si cela un’eco più profonda, remota, quasi tellurica: quella della Grande Madre. Figura che precede gli dèi olimpici e sopravvive a essi, la Grande Madre è uno dei più antichi simboli religiosi del bacino mediterraneo e del Vicino Oriente. Le sue prime apparizioni figurative risalgono al Neolitico, quando la fertilità della terra e il mistero del parto venivano incarnati in statuette femminili dalle forme accentuate, prive di volto, con seni, fianchi e ventri ingranditi fino alla deformazione: simboli viventi di abbondanza e rinnovamento.

Nell’Asia Minore, questa figura assunse via via nomi e volti diversi: Potnia Theron, la Signora degli Animali, nei culti pre-ellenici; poi Cibele, la Magna Mater, venerata in Frigia e a Pessinunte, il cui culto verrà importato a Roma nel 204 a.C., durante la seconda guerra punica, come oracolarmente prescritto dai Libri Sibillini. Cibele era rappresentata su un trono o su un carro trainato da leoni, con un timpano in mano e un copricapo a forma di città murata: elementi che ritroviamo anche in Artemide Efesia. Il suo culto, legato al ciclo della vegetazione, alla montagna, alla pietra e alla frenesia mistica, era condotto da sacerdoti evirati, i galli, e prevedeva processioni, musica sfrenata, e riti di estasi e metamorfosi.

Artemide Efesia non è la semplice trasposizione greca di Cibele, ma ne eredita molte funzioni: la protezione della natura, il controllo della fecondità, il potere sulla nascita e sulla morte, il legame con le bestie selvagge. Tuttavia, nel contesto efesino, questa figura si trasforma in qualcosa di più astratto e cosmico: non solo madre, ma principio regolatore, struttura ordinatrice dell’universo. Non si limita a garantire la vita – come fanno Cibele o Demetra – ma incarna l’armonia segreta tra le forze: la costellazione celeste e il ciclo agricolo, la forma animale e la geometria sacra.

In questo senso, Artemide Efesia può essere vista come una sintesi straordinaria tra Oriente e Occidente, tra l’animismo pregreco e l’astrazione greca, tra la corporeità esuberante della Madre Terra e la purezza razionale della dea vergine. È vergine, sì – come vuole il mito greco di Artemide – ma è anche madre, e anzi madre plurima, all’eccesso. È controllata, statica, monumentale, ma allo stesso tempo traboccante di vita e di segreti. È l’epifania di una logica del sacro che non è mai una, ma sempre molteplice. Per questo fu tanto amata, tanto temuta, tanto replicata.


Artemide Efesia e Iside: le madri universali tra natura e potere magico

Artemide Efesia e Iside condividono un destino di espansione: nate come divinità locali, si trasformano in numina cosmiche, capaci di raccogliere in sé funzioni e attributi di molte altre figure divine. Se Artemide da Efeso arriva a essere venerata in tutta l’Asia Minore e nei centri ellenistici del Mediterraneo, Iside compie un viaggio ancora più vasto, da religione egiziana a culto romano ufficiale, da madre del dio Horus a signora dei mari invocata dai marinai, fino a dea di ogni nome, come si legge nei papiri magici greci.

Entrambe sono madri, ma in modo trasversale: Artemide, pur essendo vergine secondo il mito greco, è madre di bestie, di foreste, di fertilità diffusa e cosmica. Iside, invece, è madre in senso narrativo e mitico, ma anche sacerdotale: è la madre del re (e quindi del mondo), è la nutrice, colei che ha appreso tutte le formule magiche, che ha piegato anche Ra con la conoscenza del suo nome segreto. Il sincretismo romano le farà quasi combaciare: nella statua detta "Iside-Fortuna", o in quella "Iside-Diana", il copricapo con il fiore di loto si sovrappone alla luna crescente e ai seni multipli. È il segno di un’intercambiabilità sacra che agisce per eccesso di significato.

Là dove Artemide è la forza ordinatrice del molteplice (simboli zodiacali, mammelle, animali), Iside è il principio della continuità e del mistero: ciò che guarisce, che protegge, che risana le lacerazioni del cosmo e del corpo. Le due si ritrovano nel gesto protettivo e nella frontalità ieratica, nel loro essere statue madri, ma anche chiavi di volta teologiche: Artemide per l’Asia greca, Iside per la mistica egizia e poi neoplatonica.


Artemide Efesia ed Ecate: le dee dell’ambivalenza e della soglia

Più sotterraneo, ma non meno significativo, è il legame tra Artemide Efesia e Ecate, altra figura triplice e liminale, spesso associata alla luna, alla notte, agli incroci e alla magia. In molte tradizioni tardo-antiche, Artemide, Selene ed Ecate vengono a formare una triade lunare: la vergine cacciatrice, la luna piena e la strega degli inferi. Tuttavia, la Artemide efesina – così solare, ieratica, frontale – sembra inizialmente distante da questo immaginario oscuro. Eppure, se si guarda più da vicino, si ritrovano molte corrispondenze.

Ecate è custode di ciò che sta oltre: le soglie, i confini tra vivi e morti, i crocicchi del tempo. La Artemide di Efeso, con la sua fissità quasi ipnotica e l’accumulo simbolico che porta sul corpo, è anch’essa soglia: porta cosmica, figura che racchiude in sé il sopra e il sotto, l’animale e il celeste, il femminile e il molteplice. Come Ecate, anche lei non si muove: è statua, presenza verticale, totem che guarda. Ma nel suo immobile dominio c’è l’intero campo del possibile.

Inoltre, l’aspetto magico – centrale in Ecate – non è assente nella Artemide efesina: i suoi attributi (le api sacre, le sfingi, i grifi) sono simboli iniziatici, legati a misteri orfici, a società femminili che praticavano riti di passaggio e conoscenza esoterica. Non a caso, Efeso fu anche luogo di oracoli, e Artemide vi fu invocata come mediatrice tra umano e divino. In questo, la somiglianza con Ecate si fa più profonda: entrambe sono dee del limine, custodi delle forze che regolano nascita e dissoluzione.


Artemide Efesia e Maria: la trasfigurazione cristiana della Dea

Il parallelismo più sorprendente, e insieme più denso di implicazioni storiche, è forse quello con la Vergine Maria, soprattutto nella sua declinazione orientale: Theotokos, Madre di Dio, Regina del Cielo. A Efeso, secondo la tradizione cristiana, Maria visse gli ultimi anni della sua vita; il concilio del 431 d.C. dichiarò proprio lì la sua divinità materna proclamandola madre del Logos incarnato. Una coincidenza geografica che non è solo topografica, ma anche teologica.

Molti studiosi hanno notato la continuità cultuale tra la statua di Artemide Efesia e le successive immagini mariane venerate a Efeso e nelle città anatoliche: anche Maria, come Artemide, viene spesso rappresentata frontale, con le braccia aperte (orante), cinta di stelle, con il manto che accoglie il cosmo, con un nimbo e un manto che è quasi un’armatura di misericordia. Come Artemide, Maria è vergine e madre; come Artemide, è considerata senza peccato, santa fin dalla nascita, e tuttavia capace di accogliere il mondo e trasformarlo.

Le mammelle di Artemide diventano nel Medioevo simboli della nutrizione divina di Maria (si pensi alla Madonna del Latte); la corona murata della dea si trasforma nel titolo di “Porta del cielo”; le api sacre, animali dell’ordine, vengono trasposte nelle litanie come simbolo della Chiesa verginale e operosa. Più che una semplice sostituzione, si assiste a una cristianizzazione dell’archetipo: Maria diventa il volto monoteista della Dea Madre, purificata, assolutizzata, spogliata dell’ambiguità pagana ma non del potere simbolico.


L’archetipo trasversale

In Artemide Efesia, in Iside, in Ecate e in Maria si ritrova un’unica tensione simbolica, moltiplicata e riscritta: quella verso una figura che custodisca l’intero, che sia madre e signora, vergine e nutrice, potenza e rifugio. Che stia in piedi al centro del mondo – come la statua di Efeso – e che da lì vegli, raccolga, ordini. Che porti sul petto i segni del tempo e nei fianchi il mistero della rigenerazione. In lei, il sacro si fa corpo, si fa immagine, si fa ripetizione. Sempre uguale, e sempre nuova.


La Madonna d’Anatolia: quando Artemide diventa Maria

Se uno si ferma a pensare che il dogma cristiano della maternità divina di Maria fu proclamato a Efeso – proprio lì, nel cuore della città che per secoli aveva venerato la grande Artemide dalle molte mammelle – viene il sospetto che il sacro non scompaia mai davvero, ma cambi solo volto. In realtà, la storia del culto mariano in Anatolia sembra raccontare proprio questo: una lunga trasformazione, per nulla pacifica ma nemmeno traumatica, in cui la figura della Dea Madre non viene distrutta, ma riassorbita in una nuova immagine, quella di Maria, detta non a caso Theotokos, cioè "colei che ha partorito Dio".

Siamo nei primi secoli del cristianesimo, quando l’Asia Minore – un territorio già intriso di spiritualità femminile da tempi immemorabili – si ritrova a fare i conti con un cambiamento epocale. Ma nonostante le apparenze, non è un taglio netto. Il passaggio da Artemide a Maria è piuttosto una metamorfosi silenziosa. Molti elementi del culto della Dea passano nel nuovo culto cristiano: forme, gesti, simboli. L’immagine cambia, ma l’archetipo resta. Maria non scaccia Artemide: la contiene.

A Efeso, città che per secoli aveva adorato una statua dalle sembianze tanto misteriose quanto potenti – una figura rigida, frontale, costellata di animali, mammelle e simboli celesti – ora si inizia a pregare un’altra donna, anch’essa madre, anch’essa vergine, anch’essa circondata da un’aura cosmica. E non è un caso se il luogo in cui, secondo la tradizione, Maria avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua vita, si trova proprio a due passi dal sito del tempio di Artemide. Oggi quella piccola casa bizantina è meta di pellegrinaggi, venerata da cristiani e musulmani, come a ricordare che la sacralità di certe figure non conosce religione, ma solo continuità.


Quando le mammelle diventano grazie

Guardando bene, ci sono molti dettagli che collegano la Artemide efesina alla figura di Maria. La corona a forma di torre, ad esempio, così tipica della Dea, la ritroviamo nelle litanie mariane con l’epiteto “Turris Davidica”, la torre di Davide. Le mammelle multiple – spesso fraintese, a volte viste come scroti di toro, altre come frutti, altre ancora come seni veri e propri – diventano, nel mondo cristiano, il simbolo delle grazie distribuite da Maria ai fedeli. Il nimbo radiale, che circondava la testa della statua efesina, si trasforma nella mandorla dorata delle icone bizantine. E poi c’è il tema della mediazione cosmica, centrale in entrambe le figure: Artemide come signora delle fiere e dei cicli naturali, Maria come Regina del Cielo e interceditrice celeste.

Insomma, in Anatolia, Maria non è solo una figura dogmatica. È la nuova forma della Dea. E anche se i riti cambiano, molti dei gesti, delle offerte, delle preghiere restano gli stessi. Nelle campagne anatoliche, la Madonna continua ad essere invocata per proteggere il raccolto, per aiutare nel parto, per guarire le malattie. Cambia il nome, non il desiderio umano che la invoca. Maria diventa, di fatto, l’ultima trasformazione di un'antichissima madre terrena e celeste.


Le costellazioni sul petto della Dea

E proprio parlando di cielo, c’è un dettaglio curioso – e affascinante – che merita attenzione: sulla parte alta del pettorale della Artemide Efesina compaiono i simboli di alcune costellazioni. Non tutte, ma quelle legate alla parte crescente dell’anno: Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone. In pratica, l’intervallo zodiacale che va dal solstizio d’inverno fino all’apice dell’estate. In altre parole, la metà luminosa dell’anno, quella in cui la luce cresce, la natura si risveglia, la vita si rinnova.

È come se il corpo della Dea si trasformasse in una mappa del cielo, o meglio ancora in un calendario sacro. Il busto di Artemide diventa così un punto d’incontro tra corpo e cosmo. Ariete come scintilla iniziale, Toro come fertilità tellurica, Gemelli come dualità sacra, Cancro come grembo lunare, Leone come sovranità solare. E attorno a questi segni, una ghirlanda di elicriso – pianta immortale – e ghiande – semi di quercia, simboli di forza e ciclicità.

È un dettaglio di squisita raffinatezza spirituale. Non basta dire che Artemide rappresenta la natura: qui è il tempo, è il cielo, è l’intero ciclo della vita. Quando ci si ferma davanti a quella statua – che oggi possiamo vedere al Museo Archeologico di Napoli, restaurata con testa, mani e piedi in bronzo – si ha la netta impressione che non si tratti di una semplice copia romana, ma di una visione condensata del cosmo, scolpita per parlare direttamente all’anima.


La Dea che non è mai sparita

Ecco allora che la statua non è solo un oggetto antico, ma una testimonianza vivente di sincretismo. Un corpo sacro che ha attraversato i secoli, trasformandosi senza scomparire mai. Prima Artemide, poi Maria, e forse oggi una forma più profonda e trasversale del Femminino sacro. In Anatolia, questa trasformazione ha lasciato tracce fortissime, che ancora oggi risuonano nei pellegrinaggi, nei culti popolari, nelle icone e nelle rovine.

E se il cielo disegnato sul petto della Dea ci dice qualcosa, è che ogni tempo ha la sua immagine della madre cosmica. L’importante è non smettere di ascoltare.


Quattro nomi, un solo corpo

Immaginiamole riunite, come in un convegno segreto che ha luogo fuori dal tempo. Artemide, vestita d’alabastro, con il petto rigonfio di simboli e mammelle; Iside, dalla pelle bronzea, che regge sul capo il disco lunare tra le corna; Ecate, inquieta, molteplice, sempre ai crocevia, con le sue tre facce e le sue chiavi; e Maria, velata, con lo sguardo basso, ma circondata di stelle. Non si guardano con sospetto, ma con un’aria di familiare riconoscimento. Si sono sempre sapute. Si sono sempre contenute.

Artemide: la forma primigenia

È Artemide a prendere per prima la parola. Parla con voce antica, piena di risonanze vegetali e animali. In lei la materia è ancora indomita: mammelle come frutti, leoni che ruggiscono dal suo busto, cavalli, sfingi, api. È la nutrice cosmica, signora dei cicli e delle fiere, non madre di un figlio ma madre in potenza, madre della possibilità. È vergine e feconda insieme: paradosso che solo il mito può contenere.

I suoi seni sono tanti perché allatta la moltitudine: uomini, belve, dèi. E sulla pelle non porta oro ma tempo: le costellazioni che segnano la sua potenza stagionale. È la Terra che riceve la luce e la restituisce. Artemide non ama: nutre. Non protegge: regna.

Iside: la sapienza che piange

Accanto a lei, Iside ascolta con dolcezza ma senza cedere. Viene dall’Egitto, e in lei la maternità ha il peso del lutto. È sposa e madre, ma soprattutto maga. È l’unica che ha conosciuto la morte di Dio – Osiride – e che lo ha riportato in vita, ricostruendo il suo corpo pezzo a pezzo. In lei, il femminile non è solo natura, ma anche conoscenza, tecnica del ritorno. Il suo ventre è la stanza alchemica in cui Horus si forma, ma anche la culla in cui si rigenera l’intero Egitto.

Iside piange, ma le sue lacrime sono navigabili. È la Dea dell’acqua che salva. E quando i Greci la incontrano, la chiamano già con cento nomi: Iside come Artemide, come Demetra, come Ecate, come Afrodite. Lei non si offende. Sa che ogni nome è un frammento del Tutto.

Ecate: la guardiana dei confini

Poi, da una soglia che non si vede, arriva Ecate. Non cammina: trasmigra. Il suo volto è sempre triplice – giovinetta, madre e vecchia – perché non ha tempo, ma soltanto direzioni. Sta ai crocicchi, dove il mondo si divide: morte e sogno, giorno e notte, umano e divino. Le sue torce sono accese, ma non per fare luce: per indicare altrove. Il suo potere è la soglia.

Ecate è anche Artemide, certo – nelle notti di luna nera – ma è pure la strega che parla con i cani, che scende negli inferi senza perdere sé stessa. In lei la femminilità è ambigua, non domestica. Non si dà in sposa, non genera figli: genera porte. E quando i cristiani la temeranno, la dipingeranno come diabolica. Ma è solo perché non capivano più come si custodisce il mistero.

Maria: il volto nuovo del medesimo

Infine, Maria. Non dice nulla, ma la sua presenza è così forte da silenziare le altre. Non ha mammelle esposte, né animali feroci, né chiavi, né dischi solari. Ma ha l’invisibile. Ha l’annuncio. In lei il sacro ha preso la forma del pudore. Ma non ha dimenticato nulla.

Maria è Artemide nella sua verginità, ma anche Iside quando allatta Gesù – spesso dipinta come l’egizia con il bambino sul ginocchio. È Ecate quando piange ai piedi della croce, regina del dolore e dei passaggi. Ma è anche più di tutto questo. È il punto in cui l’antico archetipo si è raccolto, si è vestito di silenzio e si è lasciato dire da altri. Maria è il luogo dove la Dea ha imparato a farsi assenza piena.


Una sola Dea, infinite apparizioni

Così queste quattro figure, apparentemente così diverse, sembrano diventare le stagioni della stessa energia. Artemide come primavera selvaggia, Iside come estate sapiente, Ecate come autunno misterioso, Maria come inverno contemplativo.

Sono quattro aspetti dello stesso archetipo, che si rifrange nei secoli e nelle culture. E se ci parlano ancora – nelle statue, nei riti, nei sogni – è perché non appartengono al passato. Sono forme del presente profondo.