sabato 7 giugno 2025

“Drip, Drop, Flexare”

Per una genealogia semiotico-culturale del linguaggio giovanile nella tarda modernità

Abstract
Questo breve testo, pensato per chi avesse poco tempo da perdere, si propone di indagare, da una prospettiva semiotico-linguistica e sociologica, alcune dinamiche del parlato giovanile nella contemporaneità, con particolare attenzione alla Generazione Z e al suo lessico altamente performativo, digitale e frammentario. Attraverso una lettura diacronica e comparativa, si metterà in luce la continuità e la rottura rispetto ai gerghi generazionali precedenti, proponendo infine una riflessione critica sulla rimozione adulta del proprio passato linguistico e sulla necessità di una pedagogia dell’ascolto che si emancipi dalla nostalgia reazionaria.


1. Premessa: il gergo come fenomeno translinguistico e transgenerazionale

Le lingue vivono, mutano, si contaminano. Questa è una verità acquisita nella linguistica moderna, da Ferdinand de Saussure a Noam Chomsky, ma raramente viene riconosciuta nel dibattito pubblico quando si tratta del cosiddetto “gergo dei giovani”. Eppure, come afferma Roland Barthes, ogni linguaggio è già ideologico nel momento in cui si manifesta, ed è proprio la lingua dei più giovani a essere, per natura, il terreno più fluido, instabile e carico di significazione sociale. Parlare “come i giovani” non è mai neutro: è atto politico, culturale, performativo.

Non è sorprendente, dunque, che ogni epoca produca un linguaggio giovanile che si articola per opposizione al canone: un idioma provvisorio, talvolta eccessivo, spesso ludico, ma sempre finalizzato alla creazione di uno spazio identitario autonomo. La lingua giovanile è un laboratorio, non un’anomalia. È il luogo dove la lingua si sperimenta, e non dove si corrompe.


2. Gerghi Z: da “drippare” a “pick-me”, tra semiotica della performance e ontologia della visibilità

Tra le espressioni più emblematiche del lessico della generazione Z spiccano una serie di verbi e formule che raccontano, con una sintesi affilata, interi mondi interiori e sociali. Ne sono esempi:

“Flexare” – significa ostentare con disinvoltura, ma non senza calcolo, uno status simbolico: che si tratti di un oggetto costoso, un’esperienza esclusiva o semplicemente di un dettaglio che comunica appartenenza a una certa élite simbolica.

“Drippare” – è molto più che “essere stiloso”: è trasudare stile al punto da “sgocciolare” coolness. La parola viene dall’inglese drip, ma nel contesto italiano assume un tono performativo ed esibito, diventando quasi una dichiarazione identitaria.

“Droppare” – verbo dalla vita multipla, usato per indicare il rilascio di contenuti (una foto su Instagram, un pezzo musicale, una confidenza). Ma può anche voler dire “lanciare” un prodotto, far circolare una notizia, lasciar cadere qualcosa di atteso nel flusso digitale. Un termine che viene dal linguaggio del marketing ma è stato pienamente riassorbito nel parlato.

“Pick-me girl” – designa una ragazza che, nel tentativo di attirare l’attenzione maschile, adotta comportamenti contraddittori o persino misogini. Il termine denuncia una forma interiorizzata di competitività e subordinazione, spesso bersaglio di critica ironica da parte delle coetanee.

“Sto nel chill” – espressione che riassume uno stato mentale di rilassamento profondo, quasi filosofico, spesso contrapposto al caos scolastico o alle ansie della quotidianità. Una piccola dichiarazione di pace interiore in mezzo alla pressione.

Queste espressioni non sono solo lessico. Sono atti illocutori, nel senso di Austin e Searle: non si limitano a descrivere, ma producono effetti sociali. “Flexare” è un atto identitario, “droppare” è un atto relazionale, “essere chill” è un posizionamento emotivo. Ogni parola si fa gesto.

Questo lessico non si sviluppa casualmente: emerge dentro un contesto iperconnesso e ipervisivo, dove l’identità è continuamente performata in spazi digitali. È una lingua che nasce su TikTok e si consuma su Discord; che si scrive nelle caption di Instagram e si dissolve nelle vocali di WhatsApp. È un linguaggio liquido, volatile, ma con fortissima coesione interna.


3. Archeologia della memoria linguistica: il lessico dimenticato delle generazioni passate

Se si mette a confronto il linguaggio giovanile contemporaneo con quello delle generazioni precedenti, emerge una sorprendente continuità d’uso nelle funzioni espressive, pur nella radicale differenza dei lessici. A cambiare sono le parole, non le esigenze comunicative: il bisogno di esagerare, di creare appartenenza, di codificare i desideri. Negli anni Ottanta, ad esempio, i ragazzi italiani parlavano così:

“Troooppo giusto” – una formula iperbolica e allungata, usata per sottolineare l’assoluta approvazione di qualcosa, spesso con enfasi teatrale.

“Libidine coi fiocchi” – espressione massimalista, rivolta a esperienze giudicate straordinariamente piacevoli, in ambito estetico, gastronomico o – più spesso – erotico.

“Lumare una sfitinzia” – indica il classico gioco di sguardi, spesso carico di desiderio, rivolto a una ragazza attraente ma considerata frivola o superficiale. L’intera espressione mescola slang inventato e giudizio implicito.

“Sgamare” – verbo duttile, che significava sorprendere qualcuno in flagrante, scoprire un segreto, accorgersi di una mancanza. Usato tanto per le infedeltà quanto per i compiti copiati.

“Cattare” – italianizzazione fonetica dell’inglese to catch, era sinonimo di “acchiappare”, “afferrare”, talvolta con sottintesi allusivi di tipo sessuale o predatorio.

“Cucador” – caricatura italiana del latin lover, versione pop di Casanova, usata per definire un seduttore goffo, spesso più grottesco che affascinante.

Non vi è alcuna reale differenza strutturale con i gerghi odierni: anche allora il lessico giovanile era permeato da anglicismi, ibridazioni, metafore corporali e sessuali. La differenza principale è la distanza emotiva: il disprezzo odierno nasce non dal confronto, ma dalla rimozione. L’adulto odierno che si scandalizza davanti a “droppami la foto” ha quasi certamente detto “dammi una cartolina firmata bacio d’autore”. Ma non lo ricorda — o meglio, non vuole ricordarlo.


4. L'ideologia della purezza linguistica: una costruzione politica

Il fastidio che molti adulti provano davanti al lessico giovanile non è un fatto linguistico: è un fatto ideologico. Come dimostrato da Pierre Bourdieu, il linguaggio è uno strumento di legittimazione del potere. I parlanti “dominanti” impongono le regole del parlare corretto e stigmatizzano le varianti marginali come errore, ignoranza, “decadenza”.

Ma la lingua giovanile non è “incultura”: è contro-lingua, nel senso foucaultiano del termine. Essa non cerca di imitare il codice dominante, ma di scardinarlo, di sottrarsi a esso. L’uso di verbi come “mutare” (da mute, silenziare una chat), “sharare” (condividere) o “leakkare” (far trapelare informazioni) è perfettamente coerente con una lingua ibrida, globale, accelerata. Il problema non è la parola, ma l’ideologia che pretende che il linguaggio resti fermo mentre tutto il resto muta.


5. Funzione poetica e rituale: il gergo come invenzione simbolica

Linguisticamente parlando, il gergo adolescenziale ha anche una funzione estetica. È una forma poetica minore, per dirla con Deleuze e Guattari. Come nel linguaggio poetico, le parole sono scelte non per la loro precisione referenziale, ma per la loro forza sonora, evocativa, trasformativa. Quando una ragazza dice che “quello outfit drippa tantissimo” non sta semplicemente parlando di moda: sta compiendo un atto di transvalutazione estetica.

Inoltre, il gergo è rito. Funziona come iniziazione simbolica al gruppo, escludendo chi non lo parla e sancendo chi può farne uso. È una lingua esoterica, che distingue gli “adepti” dai “profani” (gli adulti, i boomer, i professori). La sua obsolescenza rapida non è un difetto, ma una strategia: ciò che diventa di massa viene abbandonato. Così come nei culti iniziatici, il linguaggio giovanile si rigenera nella cripticità.


6. Riflessioni conclusive: pedagogia della memoria, non del giudizio

In ultima analisi, il linguaggio giovanile non è un problema da risolvere, ma un fenomeno da ascoltare. Un adulto che si indigna per l’uso di “flexare” è lo stesso che diceva “sto da Dio” nel 1988. Un insegnante che corregge “sto nel chill” ha forse usato “attapirato” senza vergogna. Quello che manca, oggi, non è una norma: è la memoria storica del linguaggio.

Serve, quindi, una pedagogia linguistica fondata non sulla correzione, ma sull’ascolto e sul riconoscimento. Perché la lingua non è mai immobile. E il gergo dei giovani non è una patologia: è una forma di resistenza creativa al conformismo. In fin dei conti, non sono i ragazzi che “drippano troppo”, ma gli adulti che hanno perso il coraggio di reinventare.

Come ha scritto Giorgio Agamben,

“Ogni parola è una possibilità del mondo”.

Allora lasciamoli parlare. Lasciamoli flexare. Perché, forse, è solo nelle loro parole nuove che possiamo ancora immaginare un mondo diverso.