"Assassinio sul Nilo" (1978), diretto da John Guillermin, è uno di quei film che sembrano usciti direttamente da un baule pieno di misteri, sete sgargianti e sguardi carichi di sospetto. Tratto dal romanzo di Agatha Christie, è un giallo in costume che ha tutta l’eleganza e la teatralità di un’epoca che amava raccontare il crimine con stile.
La prima cosa che colpisce è il contesto: il maestoso Egitto con le sue piramidi, i templi, il deserto, e naturalmente il Nilo, che qui diventa quasi un personaggio silenzioso. La fotografia di Jack Cardiff è sontuosa, calda, pittorica: ogni inquadratura sembra un quadro. È un film che non ha fretta: si prende il suo tempo, indugia sulle facce, sugli ambienti, sulle ombre. Per qualcuno potrebbe sembrare lento, per altri è semplicemente raffinato.
Il cuore del film è Poirot, ovviamente. Peter Ustinov lo interpreta per la prima volta e lo fa in modo tutto suo: meno rigido, meno misterioso del Poirot di Albert Finney, ma più ironico, più umano, più sornione. È un Poirot che si gode la crociera tanto quanto l'indagine. Questa scelta lo rende forse meno enigmatico, ma sicuramente più simpatico.
Il vero spettacolo, però, è il cast. Una parata di star che sembrano divertirsi un mondo nei loro ruoli. Angela Lansbury, romanziera alcolizzata e sopra le righe, è un gioiello. Bette Davis, con Maggie Smith nel ruolo della dama di compagnia cinica e affilata, sono un duo da antologia. E poi Mia Farrow, intensa, tormentata, quasi inquietante: è lei a tenere in mano la miccia del dramma per gran parte del film.
Il delitto – perché ovviamente c’è un delitto – arriva solo dopo una lunga preparazione, tra sguardi ambigui, battute al vetriolo e un certo languore da alta borghesia in vacanza. Non è un thriller serrato, e non vuole esserlo. È più un giallo da salotto in movimento, dove ci si gode il panorama tanto quanto l’intreccio. Una sorta di murder mystery da cartolina, patinato, elegante, molto anni ’70.
Insomma, "Assassinio sul Nilo" versione 1978 è un film che ti invita a lasciarti andare: alla lentezza, al piacere del dettaglio, al gusto un po’ rétro di un mistero che si svela tra un tè e un turbante. Un film che non cerca la suspense a ogni costo, ma preferisce affascinare, sedurre, far sorridere. E, a suo modo, ci riesce benissimo.
Una delle cose più affascinanti di "Assassinio sul Nilo" del ’78 è che funziona quasi come una messa in scena di decadenza. Non solo quella dei personaggi – ricchi, annoiati, pieni di segreti, in fuga da se stessi e dalla verità – ma anche quella di un certo tipo di cinema, che in quegli anni stava lentamente lasciando spazio a nuovi linguaggi, a registi più aggressivi, a narrazioni meno ovattate. Questo film, invece, è un’ultima festa dorata, un commiato in grande stile del giallo aristocratico.
E poi c'è l’ironia, che scorre sottile ma persistente. Non è mai plateale, ma permea molte battute e situazioni, spesso affidate a Maggie Smith, che con il suo sarcasmo snob è una vera ladra di scene. Anche Ustinov ci gioca: il suo Poirot ama il buon cibo più delle indagini e pare godersi ogni piccolo lusso, anche quando i cadaveri iniziano a moltiplicarsi. È un’interpretazione che sembra suggerire: sì, c’è stato un omicidio, ma non c’è bisogno di perdere la testa, mon ami.
C’è anche da dire che il film, pur mantenendo un tono perlopiù leggero, non rinuncia del tutto alla tensione. Il personaggio di Mia Farrow è costruito con cura, e la sua presenza è sempre vibrante, quasi inquieta: un fantasma vivente, fragile e implacabile. La sua Jacqueline non è una semplice "ex gelosa", ma una figura tragica, spezzata, che incarna la vendetta come destino ineluttabile.
Un altro elemento interessante è l’uso del tempo: Guillermin gioca con la pazienza dello spettatore, costruendo un puzzle con calma quasi esasperante, fidandosi del fatto che lo spettatore voglia davvero osservare ogni dettaglio. Questo fa sì che la risoluzione finale – che arriva, come sempre con Poirot, in un grande momento corale – abbia il gusto del teatro: tutti i pezzi tornano al loro posto, e il detective può finalmente tirare le somme.
Una nota di merito va al modo in cui la colonna sonora accompagna l’azione: la musica di Nino Rota (sì, proprio lui) è discreta ma avvolgente, mai invadente, e contribuisce a quel senso di sospensione e lusso malinconico che attraversa tutto il film.
"Assassinio sul Nilo" del 1978 è molto più di un semplice giallo d’intrattenimento: è un’opera che riflette su un mondo che sta tramontando, una sorta di elegia travestita da enigma. Lo si può vedere come una crociera glamour con delitto incluso, certo, ma sotto le palme e i cammelli c’è anche il gusto struggente dell’addio a un’epoca.
Il confronto tra "Assassinio sul Nilo" del 1978 (regia di John Guillermin) e quello del 2022 (diretto e interpretato da Kenneth Branagh) è particolarmente interessante perché, pur partendo dallo stesso materiale — il romanzo di Agatha Christie del 1937 — i due film riflettono due idee completamente diverse di cinema, di mistero, e perfino di pubblico.
1. Due mondi opposti: lo charme vintage contro l’high drama
Il film del ’78 si muove all’interno di un’estetica sontuosa ma contenuta: abiti eleganti, una fotografia calda, attori che sembrano usciti da un album di famiglia nobiliare decadente. È un giallo quasi da camera, ambientato su una nave che pare più una sala da tè fluttuante che un vero battello. Il tono è garbato, spesso ironico, con una cura particolare per il dialogo e l’interazione fra i personaggi.
Il film del 2022, invece, è più vicino all’action drama. Non ha paura dell’eccesso, anzi: il Nilo è ricreato in CGI, la fotografia è virata verso tinte forti, contrastate, e la regia di Branagh spinge sull’acceleratore dell’emotività e del trauma. Tutto è più teso, più tragico, più spiegato: la gelosia, la passione, le vendette sono presentate come drammi interiori, e non semplici ingranaggi di un delitto perfetto.
2. Poirot: bon vivant contro detective tormentato
Peter Ustinov nel ’78 è un Poirot ironico, pacioso, più interessato a osservare che a intervenire. Mangia bene, fa battute, ascolta con attenzione. È un gentiluomo che indaga quasi per piacere estetico. Branagh nel 2022, invece, ci presenta un Poirot drammatico, malinconico, segnato da un passato bellico e da un amore perduto (che viene addirittura rappresentato in flashback). La sua indagine diventa una specie di catarsi personale: più che un rompicapo, è una discesa nell’animo umano.
In altre parole: Ustinov è un Poirot da salotto, Branagh un eroe tragico.
3. Il cast: ensemble contro star vehicle
Il film del ’78 vive di un equilibrio corale. Nessuna star prevarica sull’altra: Bette Davis, Angela Lansbury, Mia Farrow, David Niven... tutti brillano, ma come parte di un mosaico. L’effetto è teatrale, misurato, a tratti deliziosamente camp.
Nel film del 2022, invece, l’attenzione è polarizzata su alcune figure — in primis Poirot stesso — e si nota un certo sforzo nel voler “modernizzare” la storia. Ci sono personaggi riscritti in chiave più inclusiva o post-coloniale, come Salome Otterbourne, ora cantante jazz nera (Sophie Okonedo), e la tensione razziale è resa esplicita. È un tentativo interessante, ma che rischia di appesantire il meccanismo narrativo con sottotesti didascalici, laddove il giallo classico di solito vive di leggerezza apparente e cinismo implicito.
4. L’enigma: freddo ingegno vs fiamma emotiva
Nel 1978 il mistero si dipana lentamente, con metodo. Ogni personaggio ha il suo tempo, ogni dettaglio è calibrato. È un gioco intellettuale, quasi geometrico, e la tensione si accumula proprio nella compostezza del racconto.
Nel 2022 il mistero è immerso nel melodramma: il movente viene ingigantito, l’amore tragico tra Simon, Linnet e Jacqueline è quasi shakespeariano, e le morti — spesso violente e improvvise — sono trattate come esplosioni emotive. Il tutto è accompagnato da musica intensa, carrellate veloci, primi piani straziati. È un giallo per il pubblico del XXI secolo, più abituato a True Detective che a Miss Marple.
5. In conclusione: due letture del tempo e della morte
Il film del 1978 racconta il crimine come un ballo stanco dell’alta società in declino. Il delitto è un’elegante parentesi tra un tè e una passeggiata tra le rovine. Il tono è distante, leggero, quasi affettuosamente cinico. La morte ha un sapore di destino, ma non di tragedia.
Quello del 2022, invece, trasforma l’omicidio in un dramma esistenziale. Tutto è intensificato, tutto sanguina. La morte non è solo colpa o vendetta: è sofferenza, trauma, nodo psichico. In un certo senso, il film di Branagh vuole “giustificare” il crimine, mentre quello di Guillermin lo osserva come un’aberrazione elegante.
Se vogliamo dirla con una formula:
1978 – il mistero come salotto, il delitto come stile.
2022 – il mistero come labirinto, il delitto come ferita.
Analizzare come Assassinio sul Nilo ha trattato i personaggi femminili nelle due versioni — quella del 1978 e quella del 2022 — è particolarmente rivelatore. Perché se da un lato ci mostra due visioni della donna nel cinema giallo, dall’altro rivela quanto sia cambiato (o si sia illuso di cambiare) lo sguardo maschile sul desiderio, sul potere e sull’instabilità emotiva femminile.
1978 – Le signore del delitto: maschere, veleni, furberie
Nel film di Guillermin, i personaggi femminili sono al centro della vicenda, ma in modo teatrale, quasi archetipico. Ogni donna è una maschera sociale che cela un desiderio o un disincanto: sono le vere protagoniste, ma secondo una logica ottocentesca, da romanzo di Agatha Christie e da salotto borghese.
Mia Farrow (Jacqueline de Bellefort) è la figura tragica: ex fidanzata ossessiva, in equilibrio instabile tra pathos e vendetta. La sua interpretazione è tutta nervi scoperti e occhi febbrili, ma non viene mai veramente “giustificata”. È un personaggio brillante, ma anche condannato. Sembra suggerire che una donna che ama troppo sia destinata a diventare pericolosa — ma senza il bisogno di spiegare da dove venga tanto dolore.
Lois Chiles (Linnet Ridgeway Doyle) è la bellissima, ricchissima, odiosissima ereditiera. Impeccabile, algida, sicura di sé, è il classico esempio di donna che ha troppo e lo fa pesare. Non ha bisogno di essere simpatica: rappresenta il privilegio come arma, e quindi è già colpevole (moralmente) ancora prima di essere assassinata.
Angela Lansbury (Salome Otterbourne) è una caricatura irresistibile: scrittrice alcolizzata, impicciona, volgarotta, ma piena di vita. È una macchietta geniale, ma serve soprattutto come valvola comica, un contrappunto farsesco alla tensione.
Bette Davis e Maggie Smith, nei ruoli rispettivi di una nobildonna snob e della sua compagna/serva, incarnano una relazione ambigua, satirica, forse velatamente lesbica, ma mai esplicitata. Sono il tocco camp del film, eppure anche le più lucide osservatrici del dramma che si consuma attorno a loro.
Nel complesso, le donne del ’78 sono raffinate, velenose, spesso isteriche — nel senso classico del termine. Ma sono anche elegantemente consapevoli della propria parte nella commedia umana. Non chiedono empatia, ma attenzione.
2022 – Donne nuove, dolore esplicito, agency contemporanea
Nel film di Branagh le donne sono ancora protagoniste, ma con un’impronta completamente diversa. I loro personaggi sono stati riscritti per inserirsi nel canone del femminismo hollywoodiano recente: meno archetipi, più psicologia; meno eleganza, più trauma. In teoria.
Emma Mackey (Jacqueline de Bellefort) mantiene il ruolo di figura tragica, ma in modo più "umanizzato". La gelosia è sempre al centro, ma viene raccontata con maggiore enfasi sul sentimento d'abbandono, sulla ferita emotiva. Non è solo pazza d’amore: è una giovane donna ferita, disillusa, devastata. Branagh le dedica primi piani, rallenti, musica straziante — e in questo, forse, la rende meno libera e più vittima.
Gal Gadot (Linnet) è modernizzata, ma in modo curioso: più fragile, più umana, meno superba. La sua ricchezza non è più colpa, ma bersaglio. È sempre la donna bella che muore troppo presto, ma viene mostrata in una luce più empatica: ha paura, si sente sola, vuole solo essere amata. Una Linnet addolcita, quindi, che perde però quell’aura di glaciale imperdonabilità che la rendeva così potente nel ’78.
Sophie Okonedo (Salome Otterbourne) è la trasformazione più significativa. Da scrittrice decaduta a cantante jazz nera e madre single, Salome è ora un personaggio di grande forza, determinazione e dignità. È l’unica donna che non si piega né al denaro né all’amore tossico. In questo senso, è l’unica davvero “contemporanea”. E qui la rappresentazione assume anche un sottotesto politico: una figura di riscatto, di marginalità rovesciata in potere.
Letitia Wright (Rosalie Otterbourne), la figlia, ha un ruolo ampliato e acquista voce e agency. È consapevole, lucida, sarcastica. Il suo sguardo su Poirot è uno dei pochi capaci di metterlo in discussione.
Nel film di Branagh le donne parlano più di quanto agiscano, sono più analizzate che pericolose. Il mistero diventa una storia di cuori spezzati, di sogni infranti. Ma — paradossalmente — in questo eccesso di empatia alcune figure perdono mordente: sono meno affilate, meno seducenti, meno enigmatiche.
Archetipi lucenti o psicodrammi lacrimosi?
Il film del ’78 mostra donne che recitano con intelligenza e cinismo il ruolo assegnato dalla società — e in quel gioco teatrale conservano potere, anche se pagano con l’isolamento. Quelle del 2022, invece, chiedono di essere comprese, giustificate, salvate. Hanno diritto al dolore, ma non sempre alla colpa.
In fondo, si potrebbe dire così: nel 1978 le donne uccidono con il sorriso, nel 2022 muoiono per amore.
Analizzare la rappresentazione dell’Egitto e dell’esotismo in Assassinio sul Nilo (1978) e nel suo remake del 2022 è come confrontare due sogni coloniali molto diversi: uno sfacciatamente decorativo, orientalistico e teatrale; l’altro più patinato, più autocosciente — ma ugualmente innamorato del miraggio. In entrambi i casi, l’Egitto resta uno sfondo: mai un vero protagonista, ma sempre un altare su cui si celebrano i delitti dei bianchi.
1978 – Un Egitto da cartolina (orientalismo deluxe)
Nel film di John Guillermin, l’Egitto è il grande spettacolo. Ogni inquadratura è pensata per abbagliare: le piramidi, Abu Simbel, il tempio di Karnak, il Nilo placido e dorato, le rovine che si ergono come fondali di un kolossal biblico. Ma nulla, proprio nulla, viene lasciato parlare da sé. È un Egitto muto, da esposizione.
I locali appaiono soltanto come comparse: portatori di bagagli, marinai, camerieri. Non hanno battute, non hanno espressioni, non hanno storie. Sono scenografia umana. Perfino i templi sembrano più autentici dei volti egiziani che li abitano.
Questo sguardo è tipicamente coloniale, ma senza aggressività: è il turismo alto borghese degli anni ’70, che cerca l’antico, il pittoresco, il fotogenico. Il Nilo è un lungo tappeto d’acqua su cui sfilano sete, completi bianchi e turbanti da matinée. L’Egitto non è pericoloso: è un luogo dell’estetica, non dell’etica. E soprattutto, è lo specchio perfetto per far risplendere il dramma tutto occidentale dei personaggi.
Il risultato? Una sorta di death by glamour: si muore con grazia tra i colonnati di Ramses, ma l’Africa resta una grande quinta, senza voce.
2022 – Egitto digitale, decostruzione fallita
Il film di Branagh, a parole, avrebbe tutte le intenzioni di correggere questa visione. Ma nella pratica cade in una trappola ancora più pericolosa: quella del fake-exotic. L’Egitto, infatti, è quasi tutto ricostruito in CGI. Le piramidi, la sfinge, persino il battello — sono finti, patinati, sospesi in una luce irreale da videogioco d’autore.
Si tratta di un esotismo da post-produzione, che pretende di evocare il mistero orientale senza mai sporcarsi col reale. Peggio ancora: l’assenza pressoché totale di personaggi egiziani (se non, ancora una volta, comparse silenziose) perpetua lo stesso schema coloniale, ma sotto il velo dell’autocoscienza hollywoodiana. L’Egitto diventa un sogno digitale, levigato, purgato da qualsiasi rischio di alterità.
Eppure il film ha ambizioni “politiche”: introduce, come già accennato, personaggi neri, dinamiche razziali, tensioni di classe. Ma l’Egitto? Invisibile. Ancora una volta. La sua cultura, la sua voce, le sue lingue: tutto sacrificato al bisogno di costruire un luna park dello sguardo occidentale. Questa volta, il viaggio sul Nilo è anche viaggio nel trauma (di Poirot, del passato coloniale), ma lo spazio colonizzato resta silente.
Due miraggi, nessuna rivelazione
Il film del 1978 è dichiaratamente un sogno esotico: kitsch, sontuoso, imperiale. Ma non finge di raccontare l’Egitto: lo usa, e basta. Quello del 2022 finge di decostruire, ma in realtà cancella: sostituisce la realtà con l’immagine digitale, e il problema coloniale con la psicologia individuale.
In entrambi i casi, il vero assassinio è quello dell’Egitto stesso. Ridotto a bellezza, a sfondo, a miraggio.
Analizziamo ora la figura di Hercule Poirot nei due film — Assassinio sul Nilo del 1978 e il remake del 2022 — non solo come detective, ma come specchio di un’epoca, custode (o complice) di un ordine morale che cambia, si incrina o si illude di salvarsi. La sua presenza nei due film è centrale ma radicalmente diversa, e rivela il mutamento profondo di ciò che oggi intendiamo come “giustizia”.
1978 – Poirot come icona di equilibrio borghese
Nel film di Guillermin, interpretato dal compassato e sornione Peter Ustinov, Poirot è l’ultimo gentiluomo razionalista dell’era imperiale. Non è solo un detective, ma il garante silenzioso di un ordine del mondo: classi, eleganza, conversazioni ben calibrate, perfino delitti che non turbino troppo il decoro.
Ustinov, rotondo e ironico, è un Poirot che ama il lusso, ma senza volgarità: siede comodo nei salotti fluviali, ascolta pettegolezzi con distacco, si concede una battuta con la servitù senza mai scendere dal suo piedistallo. È il colonialismo lite: quello che si racconta come cosmopolitismo.
Ma, soprattutto, Poirot è esterno al dramma. Osserva, ragiona, smaschera. È la mente pura in mezzo alla febbre delle passioni. Quando arriva la verità, non è uno shock etico, ma una restaurazione: l’ordine si spezza ma viene subito ricomposto. Nessuna lacerazione, nessun abisso. Il delitto, come sempre in Agatha Christie, è un errore dell’individuo. La società è salva.
2022 – Poirot come figura tragica e post-coloniale
Con Branagh, Poirot cambia pelle. E cambia genere drammatico: non è più l’investigatore-comico, ma il protagonista di una tragedia personale. Il film inizia addirittura con un flashback della Grande Guerra: vediamo il giovane Poirot, innamorato e puro, costretto alla freddezza logica per sopravvivere. Il celebre baffo diventa una maschera per coprire una ferita.
Questa umanizzazione ha un costo: Poirot non è più un osservatore, ma un personaggio coinvolto emotivamente, persino sentimentalmente. Prova empatia, turbamento, amore represso. E soprattutto: soffre. Il delitto lo tocca. La giustizia non lo consola più.
In questa versione, Poirot non è il custode dell’ordine: è testimone della sua dissoluzione. La società è corrotta, razzista, violenta, ipocrita. La legge non basta. E anche la verità, alla fine, sembra un’ombra. Non resta che ritirarsi — e Branagh chiude il film con lui solo, malinconico, in un bar del Cairo, senza più baffi, come un Orfeo che non vuole più cantare.
Due Poirot, due morali
Il Poirot del 1978 è un eroe dell’equilibrio: la verità serve a rimettere le cose a posto. Il Poirot del 2022 è un eroe tragico: la verità mostra che non c’è più nulla da mettere a posto.
Il primo danza sul ponte del Karnak mentre il mondo galleggia ancora, elegantemente, tra imperialismo e delitto mondano. Il secondo guarda il Nilo come un fantasma, con la consapevolezza che nessuna logica può riparare la lacerazione umana, e che persino il passato è un crimine non più giudicabile.
L’amore — o meglio, la coppia come dispositivo tragico — è forse il vero fulcro narrativo di Assassinio sul Nilo, più ancora del delitto stesso. In entrambe le versioni, il triangolo tra Simon, Linnet e Jacqueline regge l’impalcatura drammatica, ma lo fa in modo radicalmente diverso: nel 1978 come passione nera sotto il bianco impero; nel 2022 come abbandono, trauma e decostruzione romantica. Vediamo come.
1978 – Amore come veleno del privilegio
Nel film di Guillermin, l’amore è veleno servito in cristallo Baccarat. Il triangolo amoroso è torbido, ma sempre elegante: Jacqueline è la ragazza appassionata e fragile, Simon l’uomo indeciso, Linnet la miliardaria irresistibile e spietata. L’amore, qui, è una forza che distrugge solo perché troppo intensa, ma è sempre raccontato con un filtro romantico, teatrale, quasi operettistico.
La gelosia, la vendetta, il tradimento — tutto è immerso in un mondo in cui il crimine è sempre passionale, e dunque quasi comprensibile. Jacqueline, alla fine, è una Medea in tailleur: fa paura ma è tragica. Simon è codardo, ma umano. Linnet è arrogante, ma vulnerabile. Nessuno è del tutto colpevole, perché tutti sono travolti da una forza amorosa più grande di loro.
E questa forza non viene mai messa in discussione: è il motore di tutto, e quasi una giustificazione. Si uccide per amore — e questo, se non assolve, quantomeno nobilita.
2022 – Amore come trauma e dipendenza
Nel remake di Branagh, l’amore è una malattia dell’anima. La coppia non è più il motore sublime della tragedia, ma il nucleo tossico della storia. Jacqueline non è solo la ex abbandonata: è un personaggio devastato, borderline, dipendente affettiva. Il suo dolore non ha più il fascino della vendetta romantica: è una spirale autodistruttiva.
Simon, invece, è molto meno ambiguo: manipolatore, glaciale, pronto a recitare l’amore con chiunque serva al piano. La sua relazione con Linnet non ha mai un respiro sentimentale autentico. È puro calcolo. L’amore, insomma, non salva nessuno: serve solo a coprire interessi, vendette, nevrosi.
Eppure, proprio per questo, Branagh vuole farci soffrire. La scena finale tra Jacqueline e Simon — quando lei lo uccide e si uccide — è girata come un suicidio amoroso da tragedia greca, ma senza redenzione. È amore senza senso, senza poesia, senza via d’uscita. Un amore postmoderno: dipendente, cieco, mortifero.
A questo si aggiunge la sottotrama queer (inesistente nel 1978), con la cantante blues e la sua compagna: un amore tenace, nascosto, che resiste, ma che resta ai margini. Il film prova a suggerire che l’amore autentico, forse, è quello che si cela nelle pieghe della narrazione dominante — ma non osa farlo emergere davvero. È un segnale, non una liberazione.
Dal melodramma all’autopsia del sentimento
Nel 1978, l’amore è tragico ma epico: si muore per passione, come nei romanzi ottocenteschi. Nel 2022, si muore per nevrosi, dipendenza, trauma. L’amore non è più grande di noi: è ciò che ci smembra. In mezzo, Poirot, che in entrambi i casi osserva, ma solo nel remake è sfiorato lui stesso dalla possibilità dell’amore perduto.
Il vero crimine, sembra dire Branagh, non è l’omicidio. È credere ancora che l’amore ci salvi.
Analizziamo ora il viaggio sul Nilo nei due film, che da semplice cornice esotica nel 1978 diventa nel 2022 un percorso iniziatico, una discesa nell’inconscio, un luogo di frattura piuttosto che di evasione. È uno degli elementi più rivelatori della mutazione simbolica tra il cinema classico e quello postmoderno.
1978 – Il Nilo come salotto coloniale galleggiante
Nel film di Guillermin, il Nilo è esotismo da cartolina, ma visto attraverso lo sguardo ancora intatto dell’Impero in declino. Il viaggio non è un’esperienza trasformativa: è una parentesi mondana, un crociera del privilegio dove il delitto può accadere senza turbare troppo la digestione del tè.
Il battello Karnak è arredato come un grand hotel fluviale: stucchi, champagne, pellicce, cappelli di paglia. I passeggeri sono in vacanza dalle loro colpe, e il paesaggio egiziano non è altro che sfondo pittoresco, cartapesta da romanzo d’appendice.
Anche i monumenti — Abu Simbel, le piramidi, il deserto — sono segni di una civiltà ormai inerte, usata come quinta teatrale. L’antico Egitto non spaventa, non suggerisce mistero o profondità. È un set dove i ricchi europei mettono in scena le loro passioni. Il viaggio, insomma, non muta nulla: è un giro circolare nel già noto.
2022 – Il Nilo come discesa nel caos interiore
Nel remake di Branagh, il viaggio è tutt’altra cosa. Non è più un raffinato itinerario turistico, ma una catabasi: una discesa lenta e inesorabile in un paesaggio che riflette l’abisso interiore dei personaggi. Già l’atmosfera cambia: colori saturi, luce tagliente, inquadrature instabili. Il Nilo non è una via di fuga, ma un corridoio verso l’irreparabile.
Il battello non è più un salotto, ma una prigione. Appena salpano, i personaggi si rinchiudono in sé stessi: i sospetti crescono, le maschere crollano. Lungo il fiume, ogni tappa svela un dolore, un segreto, una ferita. L’antico Egitto, stavolta, non è pittoresco: è inquietante, simbolico, minaccioso. Non Abu Simbel, ma le ombre delle tombe, il rumore della sabbia, il senso costante di fine.
E il Nilo stesso — lungo, torbido, impassibile — diventa immagine dell’inconscio, corrente che tutto trascina, tutto restituisce. Il delitto, in questa lettura, non è un evento isolato, ma l’emergere di un fondo oscuro che scorre sotto la civiltà.
Due viaggi, due coscienze
Nel 1978, il viaggio è decorazione: non trasforma, non spaventa. È un modo elegante per morire in abito da sera. Nel 2022, è metafora psicanalitica: si parte illusi, si arriva devastati. Il paesaggio non è un altrove da conquistare, ma uno specchio deformante dell’anima.
E in entrambi i casi, alla fine del viaggio c’è Poirot. Ma nel 1978 torna a riva con le certezze in tasca, come un funzionario della logica. Nel 2022 scende solo, in silenzio, con le mani vuote — non più investigatore, ma sopravvissuto.
L’uso del tempo nei due Death on the Nile è uno dei segnali più sottili — e insieme più radicali — del cambiamento tra cinema classico e cinema postmoderno. In altre parole: Guillermin ordina il tempo per rassicurare, Branagh lo frantuma per inquietare.
1978 – Il tempo come partitura razionale
Nel film di John Guillermin, il tempo scorre secondo una grammatica gialla impeccabile: introduzione elegante, presentazione dei personaggi, delitto al centro, indagine, rivelazione. È una struttura simmetrica, musicale, da romanzo ottocentesco o da pièce teatrale: tutto è ordinato per generare piacere.
Il ritmo è lento, ma calcolato: le prime scene, tutte su terraferma, servono a costruire il reticolo sentimentale; il viaggio sul Nilo è il movimento centrale; la cena finale è l’epilogo. Il tempo, in questa visione, è una forza ordinatrice, quasi divina: restituisce giustizia, ricompone il caos, permette a Poirot di “rimettere ogni cosa al suo posto”.
Non ci sono flashback né rotture della linearità: il mistero viene risolto solo con la logica del presente. È un tempo narrativo che rassicura lo spettatore: il male è accaduto, ma si può spiegare. La verità è nascosta, ma recuperabile. Il passato è chiuso, sigillato, come un sarcofago.
2022 – Il tempo come trauma irrisolto
Con Branagh, invece, il tempo si spezza, si rifrange, si contamina. Fin dai primi minuti, siamo catapultati in un flashback in bianco e nero, dove il giovane Poirot combatte nella Prima guerra mondiale. Un tempo lontano, ma ancora vivo nella sua mente e — simbolicamente — nella sua ferita sul labbro.
Questo incipit spiazza: non c’entra nulla con la trama gialla, eppure è la chiave del film. Perché Branagh vuole dire subito che il tempo, qui, non è lineare né affidabile. È un contenitore rotto, da cui escono ricordi, incubi, emozioni rimaste sotto traccia.
Anche la narrazione principale è più sincopata: si alternano momenti lenti e dilatati (la festa, i balli, i dialoghi carichi di sottotesto) a esplosioni improvvise di violenza, o a visioni disturbate (la sabbia che invade gli interni, la nebbia del battello). Non c’è più simmetria, ma ansia. Non c’è più piacere dell’intreccio, ma vertigine emotiva.
Il delitto, quando accade, non è un centro razionale, ma un collasso: da quel momento in poi il tempo si avvita su sé stesso, accelerando verso una fine inevitabile. E i flashback — pochi, ma cruciali — non servono a spiegare, ma a complicare la percezione del presente.
Dalla logica alla psiche
Nel 1978, il tempo è strumento logico: il giallo come enigma da risolvere. Nel 2022, il tempo è materia psichica: il giallo come trauma da rivivere. La scansione narrativa cambia per rispecchiare un’umanità diversa: da quella che ancora crede nella verità e nella giustizia, a quella che sa che certe ferite non si chiudono mai, e che il passato non passa mai del tutto.
Per questo Poirot, nel remake, non è più solo l’uomo che risolve. È l’uomo che ricorda. E la cicatrice che porta sul volto è quella che segna ogni spettatore post-bellico: non si indaga più per capire il mondo, ma per sopportarne il dolore.
Negli anni Settanta, il paesaggio egiziano che avvolge il viaggio sull’acqua sembra uscito dalle illustrazioni dorate di un’antica guida turistica: un miraggio patinato in cui il deserto si stende come un tappeto di luce, levigato dal sole, e il Nilo si adagia placido, specchiando un cielo di seta dorata. Le piramidi e le colonne dei templi emergono all’orizzonte con la maestà tranquilla di giganti addormentati, testimoni muti di un passato lontano che qui non inquieta, ma decora. Ogni inquadratura è un invito a indugiare: le dune non mordono, le acque non tradiscono correnti, e ogni rovina sembra un ornamento prezioso scelto per esaltare stoffe sgargianti e costumi di foggia elegante. In questo quadro, il paesaggio è un sontuoso salotto all’aperto, pronto a ossequiare il gioco di luci e ombre dei personaggi, mai complice di alcuna tensione vera.
Nel film del 2022, invece, quell’orizzonte dorato si fa improvvisamente elettroshock emotivo. Il deserto, ripreso in controluce, si trasforma in un mare lunare di sabbia, dove ogni granello sembra un frammento di ossa antiche. Le ombre, lunghe e fredde, strisciano sulle dune come spettri di antiche maledizioni. Il Nilo non scorre più con dolcezza: pulsa di correnti sotterranee, torbide, segrete, e le sue acque si fanno specchio infido delle colpe che riaffiorano. Le rovine non sono più quinte inattive, ma presenze inquietanti che sbucano dai fantasmi del passato: colonne spoglie, sfumate in tonalità seppia, diventano alberi scheletrici in un cimitero senza fine.
Dove Guillermin dipinge un’aria di reverenza elegiaca — “ammiriamo insieme la bellezza antica, senza timore” — Branagh scarnifica il paesaggio, lo rende carne viva: un teatro di tensioni interiori, un labirinto di silenzi e sussurri. Il mondo esterno e l’anima dei personaggi si sovrappongono, fino a confondersi in un’unica, spettrale sinfonia di luce e ombra. In questo nuovo Egitto cinematografico, ogni alba è un grido, ogni tramonto un abbandono: e lo spettatore, come un viaggiatore smarrito, non può più limitarsi a guardare, ma è costretto a sentire il peso di quel deserto che non si placa.
In conclusione, quei paesaggi d’Egitto, sia nella luce dorata e rassicurante di Guillermin che nelle ombre minacciose e digitali di Branagh, non sono mai semplici sfondi, ma raccontano per immagini l’anima dei personaggi e il passo del tempo. Nel ’78 la polvere del deserto diventa polvere d’oro, un velo delicato che accarezza la storia senza ferirla; nel 2022 quelle stesse dune reclamano vendetta, sollevano polveri sepolte e riverberano l’eco di antiche colpe. Così il Nilo, calmo o impetuoso, non è solo un fiume, ma l’arteria pulsante di due visioni del mondo: un viaggio tra bellezza e illusione, o tra rimpianto e abisso. E resta allo spettatore il compito di scegliere se lasciarsi cullare dall’eleganza del miraggio o sprofondare nel richiamo inquieto del reale.