Certo. Triplicherò la lunghezza mantenendo lo stile sospeso, poetico e denso di immagini evocative. Ogni frase sarà dilatata nel tempo e nello spazio del pensiero, come una carezza che non arriva mai a toccare.
C’è una forma d’amore che non osa nemmeno respirare. Non si annuncia, non si dichiara, non alza mai la voce. Rimane lì, sospesa sull’orlo del visibile, eppure così presente da cambiare la luce del giorno. Non bussa, non si presenta con parole, non cerca di farsi comprendere: semplicemente è. Esiste in forma di sguardo, in forma di trattenimento. Una presenza che si camuffa da assenza. Si fa tutta occhi e respiro che si trattiene nel petto. Uno sguardo troppo lungo, un passo troppo lento, un’incertezza che si finge casualità. È un amore che nasce dove non dovrebbe, come una crepa nel muro, come una muffa silenziosa che avanza. Eppure c’è. Più reale di tutto il resto. Si insinua nel gesto minimo: il voltarsi di profilo, il ginocchio nudo che sbuca tra i pantaloni e la pelle che non sa di essere vista. Il modo in cui l’altro si sistema i capelli, si infila il giubbotto, distoglie lo sguardo per non tremare. E tu, spettatore clandestino, ti senti bruciare.
E lui, l’amore — perché sì, possiamo anche chiamarlo così, anche se nessuno oserebbe farlo ad alta voce — cresce come un rampicante velenoso. Senza che tu te ne accorga, ha già messo radici nella tua gola, ti stringe lo stomaco, ti scolora le giornate. Diventa abitudine, riflesso condizionato, ossessione segreta. Due persone si sfiorano — ogni giorno, ogni volta — e ogni giorno fingono che non sia successo niente. Ma quel niente è un continente sommerso. Un silenzio che urla come un coro di voci mute. Una presenza così insistente da diventare invisibile, perché se non lo fosse, scottarebbe, brucerebbe, farebbe male.
Ogni volta che lo incontri — o meglio: ogni volta che ti succede addosso, perché non è proprio un incontro, è un investire — ti entra dentro una febbre dolce, un’agitazione senza nome. Ti senti impacciato, vulnerabile, nudo. Ma non puoi fare nulla. E allora quella febbre si annida nei dettagli, si infila come sabbia nei pensieri: come cammina, come si stringe le mani dietro la schiena, la linea della mascella mentre ride. Ogni minimo particolare si trasforma in icona, e tu in devoto. Ti ritrovi a celebrare ogni movimento come fosse un segno sacro. Ogni dettaglio diventa offerta votiva, preghiera, invocazione. È un desiderio d’aria che ti mozza il fiato. È così sottile da sembrarti irreale, eppure così invadente da farti tremare le ginocchia. Non puoi dirlo, nemmeno a te stesso. Perché appena lo nomini, si rompe. Si smaterializza. Come certe farfalle azzurre che volano solo se le guardi di sottecchi, e spariscono se provi ad afferrarle.
Non c’è bisogno di sfiorarsi, anzi: il tocco sarebbe un tradimento. Una violazione. Se lo tocchi, si rompe. Se lo possiedi, muore. È un amore che vive solo nella distanza rispettata, come i santi troppo luminosi per essere guardati in faccia. Se li guardi, ti accecano. Se li desideri troppo, ti puniscono. Questo amore vuole essere contemplato, non vissuto. Desiderato, non consumato. Un gesto troppo diretto spezza la tensione, rovina l’attesa, dissolve l’aura. L’altro torna umano, troppo umano. E l’umano, diciamocelo, è spesso una delusione. È sudore, è errore, è parola sbagliata al momento sbagliato. Meglio il confine. Meglio la soglia che non si oltrepassa mai. Meglio la fame, sì, meglio la fame della sazietà. Perché la sazietà finisce, mentre la fame resta. Ti tiene vivo. Ti fa danzare.
Perché è proprio nel non detto che si annida il piacere più feroce, quello che morde. È nel rinvio, nella sospensione, nella carezza che non si dà. Non c’è nulla di più lussurioso di ciò che resta in bilico, inascoltato, sospeso. Di ciò che potrebbe accadere e non accade. Di ciò che si carica e non esplode. L’immaginazione non ha morale: prende tutto, ingigantisce, ricama, traveste. L’altro diventa un assoluto, un essere mitologico. Non è più una persona: è un dio privato, un idolo silenzioso che tu solo adori. E a quel dio vuoi offrire qualcosa: un cenno, una piega dell’abito, un’espressione incisa sulla tua faccia come un codice. Tutto si fa linguaggio segreto, gesto rituale, danza iniziatica. La vita, finalmente, ha un senso. Anche se doloroso. Anche se taglia. Ma almeno è viva.
L’amore a distanza, l’amore che si nutre solo di sguardi trattenuti, è forse l’unico amore che non conosce la vecchiaia. Perché non vive, non si sporca, non si corrompe. Non mangia, non dorme, non respira. È là, inchiodato nel cielo della tua immaginazione, come una stella che non cade. È eterno proprio perché non accade. Non cambia. Non si sgonfia. Non si spegne. Ti lascia il cuore in uno stato di sospensione cronica, come un organo che pulsa per qualcosa che non arriva mai. Sempre lì, in attesa di una svolta, di una parola, di una carezza. Ma quella svolta non arriva. Eppure lui pulsa. Sempre. Educandoti alla grazia del poco, al culto dell’attesa, alla nobiltà di chi desidera senza mai prendere.
C’è qualcosa di sacrale in questo mancarsi continuo. In questo rimanere ognuno sul proprio margine, come due continenti vicinissimi e mai toccati. Essere complici e sconosciuti al tempo stesso. Un amore così non si consuma: si contempla. Si osserva. Si adora. Si accende senza bruciare. Mentre il mondo corre, si accaparra, si stringe addosso le cose e le persone, tu resti lì, inchiodato all’assenza. E in quell’assenza trovi casa. Stai bene. O forse stai male. Ma sei vivo. Profondamente, maledettamente vivo.
Perché lo sai, anche se nessuno te l’ha mai detto davvero: non è vero che si è vivi solo quando si ama. La verità più crudele — e più bella — è che si è vivi soprattutto quando si desidera. Quando si desidera senza arrivare mai. Quando si resta eternamente sull’orlo. È lì che conosci il sapore più profondo delle cose. Il fondo del fondo. La verità che non si può dire. Solo sentire.