C’erano giorni in cui tutto sembrava perduto. Giorni in cui persino il silenzio diventava un’aggressione, e l’aria sapeva di ammonizione, di esilio. Pete Fisher ha vissuto quegli anni con la sensibilità ferita di chi vede troppo e non può smettere di vedere. La sua vita — come la sua scrittura — non obbedisce alla cronologia lineare delle biografie consuete. È un corpo spezzato e ricucito con le parole. È una tensione tra l’urgenza dell’annuncio e la fatica di sopravvivere. Se oggi possiamo anche solo nominare la possibilità di un’esistenza omosessuale libera, è perché uomini come lui hanno scontato il privilegio della parola con il prezzo del sangue e dell’anima.
Per capire chi fu veramente Pete Fisher, bisogna scendere sotto la superficie degli atti militanti, delle parate, dei pamphlet: occorre ascoltare la voce di un ragazzo fragile, che negli anni Cinquanta, in una casa borghese di Westport, Connecticut, sfogliava i giornali per cercare se stesso nei margini, nei codici cifrati degli annunci o delle notizie di cronaca nera. Il padre, importante giornalista del New York Times, era tutto ciò che la società stimava: razionale, composto, autorevole. Ma nella sua autorità non c’era spazio per la tenerezza. Quando scoprì l’omosessualità del figlio, la trattò come una malattia da curare. Uno psichiatra, una diagnosi, la prescrizione di non toccarsi più, di reprimere. La repressione fu l’educazione emotiva di Pete: imparò a tacere, a mentire, a mimetizzarsi. Ma imparò anche a scrivere, perché la scrittura era l’unico spazio dove poteva respirare.
Negli anni Sessanta, durante gli studi alla Wesleyan University, si avvicinò ai fermenti culturali che avrebbero dato origine ai movimenti di liberazione sessuale. Ma non fu un risveglio improvviso, bensì un lungo lavorìo interiore: Fisher era un intellettuale per vocazione, e un ribelle per necessità. Non bastava essere gay: bisognava pensare da gay. Bisognava inventare una soggettività che fosse insieme politica e poetica, una grammatica inedita dell’esistenza. È in questo contesto che nasce The Gay Mystique, pubblicato nel 1972. Il titolo, ironico e polemico, echeggiava quello di The Feminine Mystique di Betty Friedan, e come quel libro, voleva scardinare una finzione. L’idea che gli uomini gay fossero tutti frivoli, tutti edonisti, tutti devianti, tutti uguali. Fisher dichiarava: non siamo un’anomalia; siamo una pluralità che il vostro sistema non sa nominare.
Quel libro fu accolto con stupore e resistenza. Per la prima volta, un autore parlava del desiderio gay non come disfunzione o trasgressione, ma come fonte di sapere. Il desiderio come rivelazione, come chiave epistemologica. Le esperienze narrate erano spesso personali, ma sempre offerte in una cornice più ampia: sociale, antropologica, spirituale. Pete scriveva con la voce di chi non chiedeva più il permesso. Ma non era un proclama militare, era una confessione accesa, talvolta esposta, dolorosamente sincera. Rileggere oggi The Gay Mystique significa riconoscere quanto poco sappiamo ancora di quella stagione, quanto siano stati silenziati i pionieri che non corrispondevano ai modelli “vendibili” del movimento.
A rendere la sua figura ancora più singolare è la doppia anima che l’abitava: da un lato l’attivista strategico, il militante abile a negoziare e a provocare; dall’altro il poeta notturno, il ragazzo che scriveva canzoni malinconiche, che amava le collezioni di francobolli, che sognava un’America riconciliata ma non la trovava mai. Quando nel 1970 partecipò alla prima marcia del Christopher Street Liberation Day, lo fece con una specie di brivido sacro. Quella camminata — da Greenwich Village a Central Park — fu la prima volta in cui migliaia di uomini e donne dichiararono la propria esistenza non per integrarsi, ma per riscrivere i parametri stessi dell’integrazione. Vogliamo tutto, sembravano dire. Non il vostro rispetto concesso, ma la fine del vostro dominio.
La radicalità di Fisher lo rese intransigente anche nei confronti di certi compromessi interni al movimento. Denunciò più volte la tendenza a uniformarsi all’ideologia eterosessuale della coppia e della famiglia, come se l’unico modo per essere accettati fosse rassicurare i normali. Lui voleva altro: una rivoluzione affettiva. Un mondo dove l’intimità non fosse un contratto, ma un dono. Dove l’amore tra due uomini fosse celebrato non per somigliare a quello “tradizionale”, ma per la sua carica utopica, per la sua capacità di reinventare i codici del vivere insieme.
Insieme al compagno Marc Rubin, Pete visse una relazione intensa ma lontana dai riflettori. Rubin era un educatore speciale, e con lui scrisse un libro tenero e coraggioso: Special Teachers / Special Boys, che racconta con realismo e poesia la relazione pedagogica con studenti difficili, ragazzi segnati da traumi, povertà, abusi. In quei ritratti, la figura dell’insegnante emerge non come autorità ma come presenza affettiva, come sguardo che custodisce. Fisher e Rubin condivisero non solo la scrittura, ma anche la quotidianità, in una casa nei boschi del Connecticut, tra dischi di Joan Baez e giornali radicali, tra silenzi e abbracci. Una coppia gay in una società ancora ostile, ma capace di creare intimità nel margine.
Negli anni Ottanta e Novanta, Pete si ritirò progressivamente dalla scena pubblica. Non per disimpegno, ma per stanchezza. Aveva dato tutto, e portava dentro un dolore cronico, un senso di esilio persistente. In quegli anni scrisse canzoni, diari, lettere mai pubblicate. Alcune, ritrovate dopo la sua morte, parlano con struggente lucidità della depressione. “È come se il mondo fosse stato fatto per gli altri”, scriveva. “E io fossi nato senza il codice giusto.” Non fu mai clinicamente “malato”, ma la malinconia lo attraversò come un vento perenne, specie dopo la morte della madre, cui era molto legato.
Nel 2012, a sessantotto anni, Pete Fisher scelse di morire. Non fu un gesto impulsivo, ma meditato. Aveva scritto lettere d’addio, preparato i documenti, sistemato la casa. Disse alla sorella che non poteva più vivere in quel corpo, con quella mente. Non era disperazione, era limpida consapevolezza. Disse: "Ho fatto tutto ciò che potevo." E aveva ragione.
La sua morte non fu un fallimento, ma un compimento. Non chiuse la sua parabola, ma la rese leggibile nella sua interezza. Oggi, nella comunità LGBTQ+ statunitense, il nome di Pete Fisher non è sempre ricordato. Ma le sue parole, i suoi atti, la sua vulnerabilità coraggiosa, sono un’eredità incancellabile. Parlano a chi ancora si nasconde. A chi cerca un linguaggio per dire io esisto senza chiedere scusa. A chi lotta, non per essere incluso, ma per non essere più escluso da sé stesso.
Nel giardino dove le sue ceneri furono sparse accanto a quelle di Marc, c’è una pietra senza epigrafe. Ma forse basterebbe scriverci una frase. Non una data, non un titolo, ma solo questo: “È stato libero. E ci ha liberati.”