martedì 17 giugno 2025

La poesia come virus: Pasolini e l’infezione dell’innocenza

C'è una ferita in Pasolini poeta. Apriamola, allora, questa ferita. Lentamente, come si sfila un ago da una vena ancora pulsante, senza fretta, con la cura di chi sa che il dolore è parte dell’atto creativo. Lasciamo che il sangue poetico sgorghi parola dopo parola, senza fretta, compiendo quel gesto che è insieme racconto e sacrificio. Rileggiamo la sentenza di Walter Siti, perché non è una semplice lapidaria riflessione: è un bisturi, è una diagnosi, è una sfida:

«Si ha l’impressione che Pasolini si inoculi la poeticità come un virus, si provochi il lirismo per confermare la vocazione. Poeta nativo da cento, si propone come poeta da mille, o da diecimila.» (Quindici riprese, p.120)

Questo è il punto esatto dell’enigma Pasolini, e Siti lo afferra non con uno scalpello, ma con una siringa — una siringa che inietta consapevolezza nella ferita. È la metafora perfetta: Pasolini non è un poeta che si aspetta il lirismo come un dono naturale, ma un poeta che lo costruisce, lo plasma, lo induce, lo mitiga e lo esaspera fino a sentirlo bruciare nella carne. Non è il canto spontaneo, ma la composizione del rito, il montaggio della sofferenza, la messa in scena di un'anima che ha bisogno del dolore per sentirsi viva.

Cominciamo dalla prima immagine, scandagliandola come un chirurgo: “si inoculi la poeticità come un virus”. È un verbo clinico, autoimmunitario, feroce. Qui, “inoculare” non è una forma di protezione, ma un atto di contaminazione deliberata: richiede un corpo che non è mai abbastanza malato, mai abbastanza puro, mai abbastanza potente in sé per bastarsi. Pasolini ha bisogno della poesia non per salvarsi, ma per peggiorarsi, per trasformarsi, per precipitare in uno stato febbrile, delirante, alterato. La poeticità diventa malattia eletta, dipendenza scelta, strategia performativa.

Non si scrive per esprimere, ma per essere. Pasolini non ha bisogno del talento: ha bisogno della prova. Il talento, da solo, non basta. Non gli basta il naturale pathos del poeta maledetto. Occorre la liturgia, il rito, la manifestazione continua. Serve una sequenza di sacrifici, un'autocrocefissione quotidiana sotto gli occhi del pubblico. Il lirismo non è un moto interno, spontaneo: è un gesto trascendente, un incedere spinto verso una postura assoluta, eterna — ma con le budella vere, non una rappresentazione vuota.

E poi arriva quella sentenza, netta e impietosa:

“Poeta nativo da cento, si propone come poeta da mille, o da diecimila.”

Qui il commento di Siti non è un giudizio su falsità o vanità. Piuttosto, coglie qualcosa di più radicale, più sterile e impeccabile: che Pasolini è un poeta che si spinge oltre se stesso, quasi come se la verità congenita del suo animo non bastasse. È l’ossessione del dimostrare, del confermare a se stesso e al mondo che comunque la sua verità fosse più vera, più viva, più sacra. È un martirio che non cerca gloria, ma prova: provare, ogni volta, di essere la figura che si immagina in un altro livello. Vuole dimostrare, ossessivamente, ciò che ha già dentro, ma che, per qualche ragione insondabile, non lo soddisfa. Non gli basta: così lo mette in scena, lo amplifica, lo porta alle estreme conseguenze.

In questo processo si rivela anche una sorta di pornografia dell'Io poetico — non legata alla sessualità, ma legata alla sovraesposizione. È una nudità esasperata, un’esibizione insistita, un’indecenza controllata. È come se, ogni volta, volesse dirci: ‘Guardate quanto soffro, guardate la mia verità, guardate la liricità del mio strazio’. Non è narcisismo? Forse, ma al limite del rito: è l’atto di bruciare se stessi in pubblico, senza pudore, senza maschere, in un superlativo e spaventoso esistere.

Ed ecco la svolta: in questo io esposto e ancora sanguinante, si contempla anche qualcosa di profondamente queer — non nel senso dell'identità sessuale, ma nel senso di una radicale performatività dell’eccesso. Non è solo che Pasolini è diverso, ma che deve essere più diverso di chiunque altro. Non può limitarsi a essere poeta outsider: deve ridefinire, costruire, reiterare l’outsider al livello massimo — ogni video, ogni poesia, ogni set cinematografico, ogni dichiarazione pubblica diventa nuova inoculazione, nuovo martirio estetico per non permettere a nessuno di pensarlo normale. La poetica, per lui, è plasmata non solo con la scrittura, ma con il corpo, la voce, la presenza, lo scontro continuo col mondo. Una strategia estetica e un destino tragico insieme — perché chi vive la poesia come resistenza quotidiana sa che nulla sarà mai abbastanza.

E allora approfondiamo ancora — andiamo più a fondo nella ferita, fino a guardare dentro la lente estetica e vitale che attraversa tutta l’opera pasoliniana. Se questa frase di Siti è una ferita, diventa anche lente e prisma: con essa possiamo esaminare tutta la sua creazione — poetica, cinematografica, narrativa, personale — come un enorme atto pubblico di autoinoculazione di lirismo.

Le Ceneri di Gramsci (1957)
Qui già si intravvede il morso della ferita: Pasolini si presenta con un’ambizione dolorosa, volendo unire elegia, politica, autobiografia con un unico gesto poetico, specchiato e totalizzante. Il tono classicheggiante, la struttura poematica, la teatralità apparente rivelano una tensione insanabile tra chi era e chi voleva diventare. Il suo corpo — proletario, omosessuale, eretico — viene collocato nella cornice gramsciana, civile, faro intellettuale: e la frattura non è solo vissuta, ma esibita, accentuata, messa in versi come una lacerazione continua. Non interessa la coerenza narrativa, ma la violenza interna degli opposti.

Il cinema: da Accattone a Salò
In ogni inquadratura Pasolini cerca non solo lirismo, ma contaminazione: sacro e osceno si mescolano; sublime e decomposto si sovrappongono. È la poesia visiva, ma non come linguaggio, bensì come gesto di rottura. Pensiamo a Teorema: il borghese viene infettato da un angelo; in Medea, Grecia e Asia si avvelenano l’un l’altra; in Salò, la cultura viene stuprata dalla Storia. Il lirismo si inietta nel fango, costringendolo a convivere con l’inquietudine. Non siamo davanti a un’estetica fine a se stessa, ma a un atto di propaganda della ferita: ogni scena è una dichiarazione, ogni volta lo stesso sacrificio.

Pasolini non “esagera per ego”: esagera perché non si fida del naturale. Possedeva la poesia “da cento”, come nota Siti, ma non credeva che questo bastasse. Non si fida della grazia divina come dono spontaneo; ha un cristianesimo ateo, un marxismo mistico e sessuale, un universo spirituale che si edifica «contro». È poeta solo se lotta, se soffre, se vede la propria poesia come una contraddizione, una necessità, una battaglia — altrimenti, niente.

Il narcisismo mistico
Pasolini si guarda in uno specchio rotto, sa che il suo viso è ferito, che l’autoritratto è frammentario, doloroso. Non si trucca — si lacera; non si pone — si flagella, ma sempre davanti alla telecamera, alle interviste, ai giornali, alle polemiche con Calvino o Moravia. Tutte operazioni per restare dentro il conflitto. Non scrive per dire “ci sono”; scrive per gridare “non posso esserci, ma ci sarò lo stesso”.

Siti lo individua: Pasolini non è uno che ha qualcosa da dire; è uno che deve dirla per essere esistente, per prevaricare l’effimero, per imporre la sua presenza. Non per vanità, necessariamente, ma per un’urgenza esistenziale. Sa, consciamente o inconsciamente, di non poter mai ottenere riconoscimento pieno — né nella società, né nella Chiesa, né nel PCI, né tra gli amanti, né dagli studiosi. Il desiderio di superarsi è il desiderio di sentirsi definitivamente legittimato: “Devo diventare poeta da diecimila, perché se domanderanno ‘quanto produci?’, alla fine riconosceranno solo uno da cento.”

Ecco lo strazio, ecco il virus che gli scorre nelle vene poetiche.

Il rapporto con Ninetto Davoli
Infine, il cuore del rito: la relazione con Ninetto Davoli — compagno, musa, reliquia, testimone. Qui la logica della «inoculazione lirica» si fa più intima, più violenta, più struggente. Ninetto è innocenza innata; è angelo popolare; è purezza spontanea. Non capisce di essere poesia, non insiste nell’essere poeta: lo è per pura presenza. Per Pasolini, Ninetto è l’innocenza da incatenare, la luce primigenia da riflettere, amplificare, mettere in scena a ogni frase, a ogni inquadratura.

Ma questa asimmetria logora: Pasolini deve costruire la poesia, mentre Ninetto la incarna già, inconsapevole. E la relazione si trasforma nel più grande rito pasoliniano: ogni gesto diventa parola, ogni parola diventa testo, ogni scena diventa sacrificio. Quando Ninetto si sposa, nel 1973, quel rito finisce — e con esso muore una parte di Pasolini. Le letter e di addio che scrive diventano liturgie funebri: una nostalgia lirica, un grido sacrificale, una ferita resa pubblica. Il fanciullo eterno muore, ma la poesia deve sopravvivere: ora sarà più disperata, più contaminata, più radicale.

I romanzi giovanili: Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959)
Qui la poesia non è un orpello, ma un’operazione simbolica: il dialetto, la vita marginale, il corpo come paesaggio — tutto diventa rito. Non ci sono protagonisti psicologizzati, ma corpi che diventano ritmo, sintomi, resoconti di una marginalità sacralizzata. Non si cerca la redenzione; si testimonia la sconfitta come monumento. È un fallimento reso epico, trasformato in eternità.

Pasolini lega così il quotidiano alla mitologia, il fango alla liricità. Non ripulisce, non edulcora; non cerca epifanie consolatorie. Impone una aura poetica alla brutalità, racconta corpi sporchi come reliquie, ama la marginalità, sa che la verità della vita non basta e non risparmia niente.

Ecco la sua vocazione da mille: forza contenuti, rompe l’equilibrio narrativo, cerca l’enfasi del gesto drammatico, del rito notturno, del requiem, della preghiera inascoltata. Ogni pagina diventa altare, ogni parola un martirio, ogni frase un'esposizione del corpo.

Petrolio: capolavoro incompiuto e apice dell’inoculazione virus
Arriviamo al capolavoro che non ha fine: Petrolio. Qui il rituale lirico non è più provocazione esteriorizzata ma metastasi interna. Il protagonista, Carlo — maschera, specchio, sdoppiamento — diventa terminale di un processo distruttivo. Nessuna voce di salvezza, nessun angelo; solo la contaminazione totale: sesso, petrolio, finanza, religione si mescolano fino a dissolversi. Il lirismo non riemerge, è consumato, disintegrato, ridotto a scoria.

In Petrolio la struttura narrativa diventa delirante, frammentaria, allucinata. Non è più possibile scrivere come prima: la vocazione da diecimila non basta più; serve il caos, l’abisso, la decomposizione stessa del linguaggio poetico. Non un ritiro lirico verso la grazia, ma un urlo nell’oscurità.

La poesia diventa crosta sull’apocalisse, resta scabrosità, rimane resti su strati di immondizia lirica. Qui, Pasolini non crea: è creatura del proprio virus. Il rito si compie e si consuma, la ferita non solo aperta, ma resa terminale. Non c’è più guarigione possibile: c’è solo la testimonianza dell’infezione totale, dell’inoculo che ha portato fino al midollo.



(da un breve "scambio" con Alfio Squillaci)