mercoledì 18 giugno 2025

Clonare l’orrore: “I ragazzi venuti dal Brasile” come fantascienza della memoria e del trauma

Nel 1978 Franklin J. Schaffner, regista già affermato per titoli come Il pianeta delle scimmie e Patton, generale d’acciaio, firma I ragazzi venuti dal Brasile (The Boys from Brazil), adattamento dell’omonimo romanzo di Ira Levin. Al centro del film si staglia una delle ipotesi più disturbanti che la finzione abbia mai azzardato: la possibilità che la scienza moderna possa diventare lo strumento attraverso cui far rivivere il Male assoluto del Novecento, ovvero Adolf Hitler. La storia ruota attorno al progetto, condotto dal famigerato dottor Josef Mengele, di clonare Hitler e disseminare le sue “copie” nel mondo, riproducendo perfino le condizioni ambientali della sua giovinezza per favorirne lo sviluppo psicologico identico.

È proprio a partire da questa premessa che il film si inserisce, con pieno diritto, nell’ambito della fantascienza, declinata però in una forma ibrida, contaminata con i codici del thriller politico, del dramma storico, della distopia sociale e perfino del giallo investigativo. In realtà, The Boys from Brazil è un film dalle molte stratificazioni, che sfugge alle classificazioni rigide per accedere a quella zona fertile e ambigua dove il cinema si fa pensiero critico incarnato.

Fantascienza genetica, incubo storico

La definizione della Treccani — che identifica la fantascienza come un genere narrativo fondato su “hipotesi o intuizioni di carattere più o meno plausibilmente scientifico” sviluppate in una “mescolanza di fantasia e scienza” — offre una chiave d’accesso lucida. I ragazzi venuti dal Brasile rispetta pienamente questo criterio: l’elemento scientifico — la clonazione umana — è portato al centro della narrazione come ipotesi perturbante, all’epoca ancora lontana dalla realizzazione tecnica (ricordiamo che la pecora Dolly, primo clone mammifero, nascerà solo nel 1996), ma già sufficientemente nota da alimentare paure collettive.

Tuttavia, il film non si limita a utilizzare questo elemento per costruire un plot sensazionalistico. Al contrario, si insinua nella psiche collettiva utilizzando l’immaginazione fantascientifica come lente per interrogare questioni etiche, storiche, sociali. L’orrore non deriva solo dal fatto che Mengele abbia progettato e realizzato un esperimento di clonazione su scala globale, ma dal fatto che quel progetto sia, in fondo, plausibile. Il film inquieta perché non è tanto lontano dalla realtà: la scienza, se disancorata da vincoli morali, è uno strumento neutro che può essere usato per perpetuare il Male.

Schaffner e l’estetica della contaminazione

Franklin J. Schaffner, già esperto nell’intrecciare allegoria e narrazione spettacolare (come in Il pianeta delle scimmie, dove la fantascienza serviva a costruire una critica socio-antropologica), in The Boys from Brazil adotta una regia più sobria, più classica, ma non per questo meno penetrante. La sua messa in scena tende al rigore: ambienti sobri, luci fredde, composizioni che rimandano alla dimensione del realismo più che all’immaginazione barocca. Questa scelta estetica amplifica la verosimiglianza del film: non siamo in un futuro lontano, ma nel nostro presente, contaminato da fantasmi del passato e da minacce scientifiche incombenti.

Il ritmo del film è quello del thriller: indagini, spostamenti, minacce, rivelazioni. Ma a differenza dei thriller convenzionali, qui non c’è un colpevole da smascherare ma un intero progetto ideologico da sventare. Lo spettatore non è coinvolto solo nella ricerca della verità, ma in una riflessione angosciante sul fatto che quella verità sia ancora operante. In questo senso, The Boys from Brazil è anche un film sulla persistenza del Male, sulla sua capacità di mutare forma, di adattarsi, di sopravvivere nei meccanismi della biologia e della politica.

Peck e Olivier: archetipo del Male e custode della memoria

Gregory Peck, normalmente volto dell’eroe integerrimo (il suo Atticus Finch in Il buio oltre la siepe rimane tra le incarnazioni più nobili della giustizia americana), qui sorprende e inquieta nel ruolo del dottor Mengele. Il suo è un Male calcolatore, lucido, metodico. Non è il mostro pazzo, ma lo scienziato razionale, il burocrate della genetica. La sua interpretazione non ha sbavature: ogni gesto, ogni sguardo, è misura del controllo, dell’ossessione, della volontà di ripetere la storia non con la forza delle armi, ma con la potenza del DNA.

Al contrario, Laurence Olivier incarna una sorta di Van Helsing laico, un uomo che combatte non i vampiri ma il ritorno del Male Assoluto. Ezra Lieberman, ispirato alla figura di Simon Wiesenthal, è un sopravvissuto, un vecchio stanco ma ancora mosso da una forza morale profonda. La sua battaglia non è solo contro Mengele, ma contro il tempo, contro l’oblio, contro la rimozione del passato. In lui si condensa il senso più profondo del film: la necessità di non dimenticare, di vigilare, di agire prima che sia troppo tardi.

Destino, libero arbitrio e natura umana

Uno degli interrogativi più angoscianti del film riguarda la natura del Male: è innata? È trasmissibile geneticamente? O è frutto dell’ambiente, dell’educazione, delle condizioni storiche? Il progetto di Mengele mira a riprodurre non solo il corpo di Hitler, ma anche la sua infanzia: stesso tipo di padre, stesso tipo di madre, stessi traumi. È un esperimento di replicazione totale, in cui la genetica e la pedagogia collaborano per ottenere lo stesso risultato.

Ma il film non offre risposte semplici. In uno dei momenti più toccanti, Lieberman si trova davanti a uno di questi ragazzi-cloni. Lo guarda negli occhi. E capisce che è solo un bambino. Il film, qui, si apre a una dimensione etica radicale: si può condannare qualcuno per quello che potrebbe diventare? Il libero arbitrio è una possibilità reale, o siamo schiavi del nostro codice genetico? La scena, per quanto breve, è una delle più intense e filosoficamente complesse del film, e testimonia la sua profondità non solo narrativa ma anche antropologica.

Ira Levin: il romanzo come laboratorio della paranoia

Il film trae origine da un romanzo del 1976 scritto da Ira Levin, autore già noto per Rosemary's Baby e The Stepford Wives. Levin è maestro nell’inserire il perturbante nella normalità. I suoi libri sono spesso ambientati in mondi rassicuranti, domestici, borghesi, in cui però qualcosa di oscuro si insinua lentamente. I ragazzi venuti dal Brasile prosegue questa linea: la minaccia non viene da un pianeta alieno, ma dal cuore stesso della nostra civiltà, dalla sua storia recente, dalla sua scienza più avanzata.

Il romanzo è strutturato come un thriller, ma possiede un sottotesto filosofico denso. Levin mette in scena la paura dell’eredità, dell’identità, della responsabilità storica. È uno scrittore profondamente morale, ma mai moralista. Il suo talento è quello di usare il meccanismo della suspense per interrogare la coscienza collettiva. La sceneggiatura del film, fedele al romanzo, conserva questa dimensione, e anzi la rafforza attraverso la forza evocativa delle immagini.


Un film ancora attuale

Rivedere oggi I ragazzi venuti dal Brasile significa confrontarsi con un film che, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita, ha guadagnato nuove risonanze. Nel 1978 era un’opera di fantasia, certo disturbante, ma ancora ancorata alla sfera dell’impossibile. Oggi, con le tecnologie genetiche che avanzano, la clonazione non è più argomento da laboratorio letterario, ma una frontiera reale, sorvegliata e discussa anche in ambito bioetico e giuridico.

Ma soprattutto, The Boys from Brazil resta un monito sul rapporto tra storia e scienza, tra tecnica e volontà di potere. Ci dice che il passato non si limita a tornare sotto forma di ricordo o di commemorazione, ma può essere riattivato materialmente, tecnicamente, come una formula replicabile — se non si interviene con coscienza e memoria. In questo senso, la fantascienza del film non è evasione, ma impegno. È la proiezione di un possibile che deve essere evitato. È l’invenzione di un mondo che serve non a stupire, ma a svegliare.

E in questo, I ragazzi venuti dal Brasile è forse uno dei film più necessari della sua epoca — e della nostra.