domenica 15 giugno 2025

Il pronome bandito (un racconto)


Ogni mattina era un risveglio in un mondo che sembrava incapace di contenere la complessità, la delicatezza, l’ostinazione di un’esistenza fuori cornice. Quel nome — guadagnato con fatica, difeso come un tempio invaso — restava sempre un suono stonato sulle bocche altrui, un’eco sgraziata, inadatta. Eppure era lì, incastrato nella gola, inciso nella mente, ripetuto come un mantra muto. Vestirsi non era un gesto qualunque, ma un’operazione rituale e dolorosa: ogni capo scelto con cura, ogni bottone chiuso con determinazione diventava una preghiera muta, un’armatura, una barriera contro le menzogne che si appiccicavano alla pelle come umidità alle pareti fredde d’inverno.

Lo specchio, ogni mattina, non chiedeva bellezza. Esigeva prova. Non vanità, ma sopravvivenza. Quel riflesso opaco, sbiadito, come un’acqua stagnante, si rifiutava di riflettere ciò che dentro già c’era, pronto a emergere. Non c’era nulla da correggere, nessuna anomalia da cancellare. Solo l’assenza devastante di riconoscimento: lo sguardo degli altri scivolava addosso senza vedere, come una mano che accarezza la superficie senza leggere le cicatrici. Il dolore non abitava nel corpo, non partiva da lì: nasceva dalle parole. Scendeva addosso come grandine sottile, puntuale, implacabile. Colpiva la dignità con la cura precisa del disprezzo ben articolato.

«Lei», diceva il professore. Ogni volta come se stesse pronunciando un verdetto. Un colpo di martello su una vita intera. La classe si faceva silenziosa, ma non per rispetto. Era il silenzio complice, quello che non salva. «Lei», «nata», «la ragazza» — ecco i termini affilati, le etichette cucite con il filo grosso dell’ignoranza travestita da cultura. Erano parole che cucivano una maschera, una pelle sbagliata, sopra un volto che urlava da tempo io sono io. E quella tortura non aveva urla, né catene visibili: era elegante, educata, levigata come i marmi delle cattedrali. Colta come il latino della messa, implacabile come una benedizione pronunciata con disprezzo.

I pronomi bruciavano. Bruciavano più delle risate. Più dei sussurri, delle occhiate. Erano lame minuscole infilate nei gesti quotidiani, nel lessico scolastico, nel linguaggio dei corridoi. Ogni parola sbagliata, ogni vocativo usurpato, si sommava agli altri come una cicatrice sull’anima. Ma ogni ferita veniva annotata, registrata, trascritta. Non per vendetta. Per memoria. Frasi, esitazioni, torsioni del linguaggio: diventavano materiali d’archivio, reperti di un’esistenza sotto assedio. Nei margini dei quaderni si raccoglieva una scrittura scura, tesa, a volte illeggibile. Era una scrittura d’esilio, un diario cifrato di chi deve indossare ogni giorno il travestimento che altri hanno deciso.

Poi venne il giorno. Quello in cui la stanchezza prese il posto della paura. Il giorno in cui un banco venne lasciato vuoto. Una voce si alzò, chiara, quasi senza tremore. Non cercava applausi. Non cercava alleati. Solo un diritto elementare.

Il silenzio, stavolta, non fu complice. Fu scosso. Una macchia d’inchiostro che si allarga sulla carta, cancellando il già scritto. Alcuni abbassarono lo sguardo, altri impallidirono. Il linguaggio stesso sembrava aver perso l’equilibrio, tremava come un ponte sospeso. Non era pronto, non era armato, non era più in controllo.

L’edificio rimase lo stesso. Gli orari scolastici non cambiarono. I programmi non vennero riscritti. Ma qualcosa aveva cominciato a scricchiolare. Le fondamenta del potere — quello piccolo, quotidiano, che si esercita con le parole e gli sguardi — non si spezzarono, ma persero consistenza. L’istituzione continuò a ignorare, ma qualcosa in lei era stato incrinato. Non poteva più fingere di non aver sentito.

Non si cercava approvazione. Né consenso. Solo verità. La verità semplice di un pronome restituito. Nessuna furia, solo la pazienza millenaria di chi vive. Di chi resiste. Di chi incide il proprio nome nel gelo dell’usurpazione e lo lascia lì, a testimonianza. Come una fioritura in inverno.