L’ambiguità come poetica: il cinema di Takeshi Kitano in prospettiva queer
Il cinema di Takeshi Kitano, noto anche con il nome d’arte Beat Takeshi, costituisce una delle esperienze estetiche più singolari e stratificate della produzione giapponese contemporanea. Alternando i registri della commedia, della tragedia, del grottesco e della violenza ritualizzata, Kitano costruisce un immaginario in cui i codici della mascolinità tradizionale vengono disarticolati attraverso la stilizzazione, la sospensione narrativa e la sovversione dei gesti. Se il suo statuto d’autore è ben consolidato all’interno della critica internazionale — grazie a film quali Sonatine (1993), Hana-bi (1997), Kikujiro (1999) e Dolls (2002) — ciò che resta spesso in ombra è la possibilità di una lettura queer, non tanto in termini identitari quanto nella capacità delle sue opere di generare faglie nella rappresentazione normativa del desiderio, della corporeità e della relazione intersoggettiva.
In Kitano, il queer non emerge attraverso una tematizzazione esplicita dell’omosessualità o delle identità di genere non conformi. Piuttosto, si manifesta come estetica del silenzio, della discontinuità, della fragilità maschile e dell’intimità sotterranea tra uomini. Tale configurazione si inserisce nel solco di una tradizione giapponese che, lungi dal proporre una concezione binaria della sessualità, presenta storicamente una più fluida rappresentazione dei ruoli di genere e dei codici erotici. Tuttavia, Kitano si colloca anche in netta rottura con la rappresentazione convenzionale della yakuza, del guerriero o del padre, proponendo figure maschili lacunose, spesso disfunzionali, talora infantili o disarmate, in cui la violenza coesiste con la tenerezza e l’introspezione.
La tensione queer che attraversa il suo cinema non è solo un’istanza narrativa o tematica, ma si radica nella forma: nell’uso del montaggio ellittico, nella rarefazione dialogica, nella durata contemplativa dei piani, nella sospensione emotiva che fa da contrappunto alla brutalità diegetica. La dissolvenza del significato, l’indecidibilità dei sentimenti e la difficoltà di articolare un discorso sul sé diventano in Kitano dispositivi attraverso cui l’identità non si dà come stabile, ma come campo di possibilità aperto, frammentario e performativo. In questo senso, il suo cinema si configura come luogo liminale, attraversabile dalla critica queer in chiave estetica, politica e affettiva.
L’opera di Kitano, nella sua apparente imperturbabilità, custodisce un’irrequietezza ontologica: non solo nei suoi personaggi, ma anche nella tenuta stessa del linguaggio cinematografico, che si fa discontinuo, antinarrativo, spesso ironicamente autocritico. Proprio tale slittamento continuo tra i registri e tra le posture identitarie può essere inteso come gesto queer: un movimento antiessenzialista, antipsicologico, che mina ogni coerenza del soggetto per lasciare spazio a ciò che, nel cinema come nella vita, resta inespresso, eccentrico, marginale. Il queer, in Kitano, non è una dichiarazione ma una vibrazione.
1. Sonatine (1993): Omosocialità malinconica e l’estetica della sospensione
Sonatine è forse il primo film in cui Takeshi Kitano articola con compiutezza la propria poetica dell’interruzione, della sospensione e della crisi della mascolinità. Apparentemente inscritto nel genere del gangster movie, il film smentisce rapidamente ogni aspettativa narrativa tradizionale: la missione yakuza che ne costituisce il pretesto diegetico viene presto dissolta in una lunga attesa su una spiaggia, dove i protagonisti, anziché agire, giocano, si annoiano, si mettono in posa come bambini o fantasmi.
Ciò che si configura è un microcosmo omosociale, isolato dalla realtà, nel quale la relazione tra uomini si dispiega non sul piano dell’efficienza virile o della violenza spettacolare, ma su quello della condivisione silenziosa, del corpo in stato di quiete, della complicità inutile. Il gruppo dei gangster in esilio è una comunità provvisoria e sospesa, che ha perso il proprio fine e che si organizza intorno a gesti minimi, ripetitivi, spesso infantili. Questa rarefazione d’azione apre lo spazio per una rilettura queer dell’omosocialità: i corpi maschili sono insieme, vicini, spesso distesi, vulnerabili, e ciò senza alcuna esigenza di affermare il proprio dominio sull’altro.
Il personaggio di Murakawa (interpretato dallo stesso Kitano) incarna una figura maschile svuotata, prossima all’autodistruzione, che pare incapace di odiare, di amare o di desiderare in termini definiti. È proprio questa ambiguità, questa saturazione emotiva non espressa, a rendere Sonatine un film queer, in quanto disarticola la funzione sociale del maschio e ne mostra una possibile deriva: malinconica, riflessiva, erotica nella sua stessa inerzia. In Kitano, lo sguardo tra uomini non ha funzione gerarchica, ma si carica spesso di una dolcezza che destabilizza ogni paradigma normativo.
2. Hana-bi (1997): Ferita, fallimento, e l’estetica del corpo marginale
In Hana-bi (letteralmente: “fuochi d’artificio”), Kitano raggiunge un vertice nella rappresentazione della fragilità maschile e del fallimento come forma di resistenza all’ordine narrativo e sociale. Il film è costruito intorno alla figura di un ex poliziotto (Kitano), la cui moglie sta morendo di leucemia e i cui ex colleghi sono stati mutilati o paralizzati in servizio. Il racconto è costellato di silenzi, lacune temporali, gesti enigmatici, e soprattutto corpi menomati, che si muovono nel mondo come reliquie dolenti.
L’estetica della ferita qui non è solo letterale, ma simbolica: è il corpo maschile che perde funzione, potere, parola. È un corpo queer perché incapace di adempiere ai ruoli sociali del produttore, del difensore, del protagonista. Tra i personaggi principali, spicca Horibe, rimasto paraplegico, abbandonato dalla moglie, e convertitosi alla pittura naïf. Le sue tele, realizzate in realtà da Kitano stesso, sono collage surreali e infantili, animali e fiori stilizzati: immagini che sembrano esprimere un desiderio di regressione, un erotismo sublimato, un altrove affettivo.
In Hana-bi, l’identità maschile è esplicitamente posta in crisi. Ma a differenza del dramma psicologico occidentale, qui non c’è redenzione né catarsi: la crisi non si risolve, si estetizza. Il queer si annida nel gesto che rifiuta di essere tragico in senso pieno, e sceglie invece una forma di bellezza spettrale, marginale, infantile. La pistola che uccide, i fiori che sbocciano, i disegni che emergono: tutto coesiste senza gerarchia, in un montaggio che frammenta l’azione e la riorienta verso la pura visibilità, come fosse un atto d’amore senza destinatario.
3. Kikujiro (1999): Infanzia e derisione della virilità normativa
Kikujiro rappresenta una svolta nel cinema di Kitano, eppure ne prosegue le tensioni latenti. È un film più leggero, apparentemente una commedia, ma come spesso accade in Kitano, ogni risata è un’incrinatura nel dolore. Il protagonista (ancora Kitano) è un adulto immaturo, irresponsabile, che accompagna un bambino alla ricerca della madre. Quello che segue è un viaggio surreale, frammentato da episodi onirici, clowneschi, dolci e crudeli.
L’infanzia, qui, non è solo un tema, ma un dispositivo queer. Il protagonista non sa educare, proteggere, né comandare. Anzi: si rende ridicolo, si traveste, piange, si perde. La sua mascolinità è disfunzionale, continuamente derisa, attraversata da un desiderio di gioco che scavalca il ruolo paterno. Il rapporto tra l’adulto e il bambino non è mai paternalistico, ma orizzontale, fatto di alleanze e silenzi, in cui l’amore si dice solo attraverso gesti buffi, fallimentari, simbolici.
In questo senso, Kikujiro si presta a una lettura queer come sabotaggio dell’autorità maschile. Il queer qui si manifesta non nel desiderio sessuale, ma nell’attitudine anti-disciplinare del corpo adulto, che rifiuta la maturità normativa, e si rifugia in una gestualità irriverente, tenera, a volte abietta. Il paesaggio diventa teatro dell’assurdo, popolato da personaggi marginali, non funzionali alla trama, ma pieni di un’umanità sgangherata, queer nella loro stessa inattualità.
Riletture queer del cinema di Takeshi Kitano: ferita, fallimento e relazioni omosociali
La filmografia di Takeshi Kitano, sebbene raramente esplicitamente affrontata nei termini di una teoria queer, si presta con notevole intensità a letture che mettono in discussione la normatività dei generi e dei desideri. In particolare, film come Sonatine (1993), Hana-bi (1997) e Kikujiro (1999) mostrano una tensione sotterranea ma persistente tra la superficie di una mascolinità codificata e la sua destabilizzazione attraverso estetiche della sospensione, dell’ellissi e della fragilità. La ricezione critica in ambito LGBTQ+, seppur marginale e frammentaria, ha iniziato negli ultimi anni a riconoscere in Kitano un autore capace di declinare sensibilità queer attraverso il linguaggio del cinema d'autore giapponese postmoderno.
Sonatine e l’omosocialità malinconica
In Sonatine, la sospensione narrativa e la reiterazione del gioco tra uomini producono una dimensione di intimità omosociale che si svincola progressivamente dai codici della virilità yakuza. L’ambientazione sulla spiaggia – simbolo di regressione infantile e disarmo – diviene lo spazio in cui i legami tra i personaggi si caricano di una tensione affettiva non dichiarata, ma emotivamente palpabile. Il rifiuto della violenza, il silenzio come cifra comunicativa e la progressiva rarefazione dell’azione costituiscono dispositivi attraverso cui Kitano disarticola il paradigma del maschio giapponese tradizionale. Questa omosocialità malinconica, che si costruisce attorno a gesti minimi, sguardi e giochi apparentemente infantili, apre un varco per una lettura queer che non si fonda sulla visibilità del desiderio, ma sulla sua latenza emotiva.
Hana-bi e l’estetica della ferita
Con Hana-bi, Kitano radicalizza la riflessione sulla mascolinità ferita, facendo convergere la poetica della violenza e quella dell’intimità in una tensione formale potentissima. Il corpo mutilato del collega del protagonista – reso inabile e silenzioso – incarna un’altra figura chiave del maschile disfunzionale, che si esprime solo attraverso la pittura, l’unico gesto che trasforma la sofferenza in segno. La violenza qui non è più uno strumento di dominio, ma un retaggio che grava sul corpo, lo annienta e lo condanna alla malinconia. La ricezione critica ha sottolineato l’eccezionale fusione tra pittura, cinema e poesia visiva in Hana-bi, ma le sue implicazioni queer – la frattura tra identità maschile e performance sociale, la messa in crisi del modello eroico – restano un terreno ancora da esplorare con sistematicità.
Kikujiro e l’infanzia come rovescio queer della virilità
In Kikujiro, Kitano disinnesca ogni tensione eroica, proponendo una figura maschile fallimentare e ridicola, incapace di prendersi cura di sé, eppure attraversata da un’inaspettata tenerezza. L’incontro tra il protagonista e il bambino smaschera la debolezza strutturale di ogni identità virile costruita sul principio d’autorità. L’infanzia, anziché rappresentare un percorso verso la virilità, diventa qui il suo doppio queer: non prefigurazione ma alternativa. Il viaggio, tipico del bildungsroman, si trasforma in una deriva episodica, senza meta, dove la vulnerabilità e l’attenzione all’altro – e non il dominio – orientano l’azione. La performatività del genere è qui letteralmente smontata, derisa, svuotata dall’interno.
Ricezione critica LGBTQ+ e comparazioni con altri autori giapponesi
Benché Sonatine e Hana-bi non abbiano ricevuto una trattazione organica all’interno degli studi queer, è possibile rintracciare un’attenzione crescente per la loro capacità di sovvertire i codici del maschile, specialmente nei circuiti internazionali. Alcuni festival LGBTQ+ hanno incluso Hana-bi in retrospettive sul maschile ferito o sulla violenza decostruita, evidenziando l’originalità con cui Kitano coniuga immaginario yakuza e estetica della vulnerabilità.
In questo contesto, è utile un confronto con due autori giapponesi contemporanei che, seppure attraverso registri molto diversi, esplorano anch’essi forme di identità eccedenti.
Shinya Tsukamoto, autore di Tetsuo: The Iron Man (1989), propone una visione radicale del corpo maschile come territorio di metamorfosi: ibrido, cibernetico, sessualmente indefinito. La sua poetica del corpo come materia mutante, esposta a ibridazioni meccaniche e pulsioni incontrollabili, configura un immaginario queer nel senso post-umano, dove i confini tra maschile e femminile, organico e artificiale, sono sistematicamente dissolti. Se Kitano agisce per sottrazione, Tsukamoto opera per eccesso.
Ryûsuke Hamaguchi, invece, in film come Drive My Car (2021), lavora su un piano quasi opposto, privilegiando il dialogo, la costruzione del tempo affettivo e il racconto di relazioni segnate da assenze, ambiguità e desideri non dichiarati. Anche in assenza di personaggi esplicitamente queer, il suo cinema configura una prospettiva affettiva e relazionale che interroga la normatività delle strutture familiari e amorose. Il non detto, che in Kitano è silenzio e corpo, in Hamaguchi è parola esitante, sospesa, esitazione continua. In entrambi, la mascolinità è interrogata nella sua inadeguatezza.
Il cinema di Kitano, letto attraverso una lente queer, rivela una costellazione di figure maschili fallimentari, corpi feriti, relazioni omosociali segnate dalla malinconia, e un uso della narrazione che disinnesca la teleologia patriarcale. Il suo stile visivo, fatto di ellissi, di silenzi e di improvvise esplosioni di violenza che si dissolvono nella contemplazione, produce un’estetica della ferita e dell’attesa che interroga le certezze del genere. L’assenza di affermazioni identitarie esplicite non è una mancanza, ma una scelta poetica: lo spazio queer è quello che si apre quando il genere fallisce, quando il desiderio tace ma persiste nel gesto, nella cura, nella rinuncia.
Certamente. Di seguito la riscrittura del testo con un tono più scorrevole e accademico, mantenendo la profondità analitica e articolando meglio i passaggi:
Il film “Kubi” (2023): un jidaigeki queer e sovversivo
Con Kubi, Takeshi Kitano affronta per la prima volta in modo esplicito la dimensione omoerotica della tradizione samuraica, inserendo nella narrazione del celebre incidente di Honnō-ji — il tradimento e la morte di Oda Nobunaga nel 1582 — una tensione sentimentale e affettiva tra i personaggi maschili, che rilegge la storia sotto una luce radicalmente queer. Il cuore del film si fonda su un triangolo passionale tra Nobunaga, il suo traditore Akechi Mitsuhide e il ribelle Araki Murashige, presentato come legato ad Akechi da una relazione tanto ambigua quanto intensamente affettiva. In questa chiave, il tradimento storico non è più solo un atto di potere e strategia politica, ma viene motivato anche da sentimenti, gelosie e dinamiche interpersonali che sfuggono alla retorica del bushidō tradizionale.
L’introduzione di una dimensione omoerotica nel jidaigeki, genere codificato dalla celebrazione dell’onore, della mascolinità e della gerarchia feudale, assume in Kubi una valenza profondamente destabilizzante. Kitano restituisce una visione del Giappone tardo-medievale in cui le relazioni tra uomini sono segnate da eros, desiderio e tenerezza, ma anche da violenza e ambiguità. Laddove la cultura visiva dei samurai è stata spesso idealizzata in chiave eteronormativa o, al massimo, ironicamente machista, Kubi introduce una frattura, suggerendo che la politica del corpo e del desiderio fosse strutturalmente più complessa, e che l’intimità tra uomini non fosse marginale, ma centrale nella costruzione del potere.
L’estetica queer del sangue e dell’ironia
Dal punto di vista stilistico, Kubi alterna con audacia momenti di brutale violenza — come la lunga sequenza iniziale di esecuzioni, che trasforma le decapitazioni in uno spettacolo coreografico quasi grottesco — a passaggi di intimità e seduzione tra i personaggi maschili. L’omoerotismo, sebbene mai tematizzato in modo didascalico, si manifesta con chiarezza nelle inquadrature, nei gesti e in alcune scene cariche di tensione fisica e psicologica: un bacio insanguinato, un corpo nudo offerto come prova di lealtà, uno sguardo trattenuto che suggerisce un amore represso.
Tuttavia, Kitano non si limita a rappresentare la passione tra uomini come puro erotismo: ne sottolinea l’ambivalenza, la dimensione politica, persino la sua intrinseca tragicità. L’amore tra samurai non è qui nostalgia idealizzata, ma una forza in grado di destabilizzare alleanze, rovesciare gerarchie e condurre alla rovina. In questo senso, Kubi può essere letto come un’ulteriore tappa nella riflessione kitaneana sul fallimento virile, sull’onore spezzato, sulla disgregazione del soggetto maschile.
Ricezione critica e festivaliera in ambito LGBTQ+
La ricezione del film in ambito critico, e in particolare nei circuiti festivalieri queer, ha messo in luce la rilevanza di Kubi come opera che rompe i codici del cinema storico giapponese. Presentato in anteprima mondiale a Cannes 2023 nella sezione “Première” e incluso tra i candidati alla Queer Palm, Kubi ha attirato l’attenzione della critica internazionale per la sua lettura inedita della storia dei samurai come spazio possibile di affettività queer. Alcune riviste specializzate, come Unseen Japan, lo hanno definito un “epic queer samurai film”, mentre altre testate (tra cui FilmHounds e movieloversky) hanno sottolineato la potenza iconografica e narrativa della relazione tra Murashige e Akechi, definendola “l’elemento più toccante e umano del film”.
Al contempo, alcuni critici hanno espresso riserve sull’ambivalenza con cui Kitano rappresenta la sessualità queer, talvolta lasciando spazio a battute o gag che sembrano riportare in superficie un immaginario transfobico o caricaturale. Questa ambiguità ha aperto un dibattito sul modo in cui il regista, pur operando un gesto di rottura, non si libera completamente delle ironie taglienti e delle stilizzazioni eccessive che hanno sempre attraversato la sua poetica.
Kubi come svolta queer nella filmografia di Kitano
Kubi si impone dunque come un film liminale nella carriera di Kitano. Se in opere precedenti come Sonatine, Hana-bi e Kikujiro l’ambiguità affettiva tra uomini, la malinconia della mascolinità e la nostalgia per un’innocenza perduta venivano suggerite in modo più implicito, qui la dimensione queer si fa esplicita e strutturante. Il film non si limita a tematizzare il desiderio omosessuale come sottotesto, ma ne fa il motore narrativo e tragico dell’intera vicenda.
In questo senso, Kubi può essere collocato all’interno di una nuova stagione del cinema queer giapponese, accanto ad autori come Shinya Tsukamoto, che in A Snake of June ha lavorato su una corporeità dissidente e masochista, e Ryûsuke Hamaguchi, che in Drive My Car e Evil Does Not Exist indaga identità fluide, relazioni asimmetriche e forme di empatia non codificate. Tuttavia, a differenza di questi autori, Kitano sceglie di affondare la propria riflessione queer nel passato mitico e ideologico del Giappone feudale, offrendo una visione storica alternativa in cui l’omosessualità maschile non è anacronismo, ma chiave interpretativa della crisi del potere.
Confronto con “Gohatto” di Nagisa Ōshima: erotismo, potere e disordine queer
Il confronto tra Kubi di Takeshi Kitano e Gohatto (1999) di Nagisa Ōshima risulta particolarmente fecondo se si considera la volontà di entrambi gli autori di indagare le dinamiche omoerotiche nel contesto di istituzioni guerriere profondamente gerarchizzate. Gohatto, ambientato nel 1865 nel corpo d’élite degli Shinsengumi, esplora l’ingresso di un giovane e ambiguo samurai, Sozaburo Kano (interpretato da Ryūhei Matsuda), il cui fascino androgino e perturbante destabilizza l’ordine virile del gruppo. La pellicola di Ōshima costruisce così un dispositivo narrativo e visivo dove il desiderio maschile — represso, proiettato, non nominato — si manifesta come forza sovversiva e contagiosa, capace di disgregare la struttura stessa dell’identità maschile.
In Kubi, Kitano sembra raccogliere idealmente questa eredità ma con uno scarto sostanziale. Laddove Ōshima adotta uno stile controllato, minimalista, e mette in scena l’ambiguità con lentezza glaciale e metafisica, Kitano opta per un impianto teatrale e barocco, alternando momenti di violenza iperrealistica a situazioni al limite della farsa. Tuttavia, ciò che accomuna Kubi e Gohatto è la consapevolezza che l’ordine patriarcale e militare è sempre già minacciato dall’interno da un desiderio non eteronormativo, che le istituzioni tentano di controllare ma che si rivela irriducibile alla logica dell’autorità.
Entrambi i film, inoltre, operano una critica profonda alla costruzione ideologica della mascolinità guerriera giapponese: in Ōshima, attraverso lo sguardo misterioso e sfuggente del giovane Kano, in Kitano attraverso la triangolazione tragica e passionale tra Murashige, Akechi e Nobunaga. Lungi dall’essere semplici oggetti del desiderio, i personaggi queer di entrambi i film sono soggetti attivi, capaci di alterare i destini storici (come nel caso del tradimento in Kubi) o di disintegrare il mito della virilità coesa e invulnerabile (Gohatto).
La ricezione accademica LGBTQ+: una lente critica sulla svolta queer di Kitano
Sebbene Kitano non sia mai stato considerato un autore "queer" in senso stretto, la ricezione accademica e critica delle sue opere più recenti ha progressivamente riconosciuto la centralità della sua riflessione sul genere, sulla fragilità del soggetto maschile e sulle forme di intimità maschile fuori norma. La pubblicazione del volume collettaneo Queer Japan Cinema Reframed (ed. N. McLelland, 2022) dedica un capitolo a Sonatine come esempio precoce di “omosocialità malinconica”, ma è solo con Kubi che l’interesse della critica LGBTQ+ internazionale si intensifica.
Riviste accademiche come Journal of Japanese and Korean Cinema e Mechademia hanno letto Kubi come un testo queer stratificato, dove il linguaggio della violenza è anche linguaggio del desiderio, e in cui le relazioni maschili sono performate sul crinale tra attrazione erotica e impulso distruttivo. In particolare, è stato osservato come Kitano, pur provenendo da una matrice narrativa patriarcale (il yakuza eiga e il jidaigeki), sovverta i codici di genere senza adottare uno sguardo moralizzante, ma piuttosto ironico e disilluso.
Un saggio pubblicato nel 2024 sulla rivista Camera Obscura propone una lettura di Kubi come “tragedia queer in forma epica”, sottolineando la presenza di una “mascolinità obliqua”, che si sottrae tanto alla norma eterosessuale quanto alla sua demonizzazione. La relazione tra Murashige e Akechi, in questa prospettiva, è il vero asse tragico del film, mentre la figura di Nobunaga, al contempo crudele e carismatica, incarna l’ambivalenza storica della virilità dominante.
Particolare attenzione è stata data anche alla performatività queer di alcune scene: il nudo maschile offerto in contesti di umiliazione o seduzione, il travestimento come forma di resistenza, e l’estetizzazione del corpo maschile ferito. Questi elementi hanno condotto una parte della critica a includere Kubi in un canone queer post-classico, in cui l’identità non è tanto affermata quanto sfidata, disgregata, scomposta.
Verso una genealogia queer del cinema samuraico
Attraverso il confronto con Gohatto e la rilettura della ricezione accademica di Kubi, emerge con chiarezza come Kitano, pur senza abbracciare una poetica queer in senso programmatico, offra una riflessione profonda e stratificata sulle possibilità dissidenti del desiderio maschile all’interno di narrazioni storiche e codificate. Lungi dall’essere una semplice variazione tematica, la svolta queer di Kubi sembra segnare un punto di svolta nella rappresentazione dell’identità maschile nel cinema giapponese contemporaneo, aprendo uno spazio estetico e narrativo in cui l’erotismo, la violenza e l’intimità queer si intrecciano come dispositivi critici contro l’ordine patriarcale.
L’ironia come strategia queer nel cinema di Kitano
L’ironia costituisce uno degli strumenti più potenti — e al tempo stesso più sfuggenti — della poetica di Takeshi Kitano. Non si tratta, tuttavia, di un’ironia meramente stilistica o paratestuale, bensì di una strategia sovversiva che attraversa i codici narrativi e ideologici del cinema giapponese tradizionale. In particolare, l’ironia kitaneana agisce come forza di disarticolazione del maschile, una lente obliqua che disinnesca la gravità mitologica dell’eroe virile, restituendone una versione rotta, umiliata, marginale o pateticamente ridicola.
Nel contesto queer, questa funzione dell’ironia si configura come una strategia di resistenza simbolica contro l’imposizione normativa dell’eteromascolinità eroica. In Sonatine, per esempio, l’umorismo assurdo che costella le scene di attesa sulla spiaggia — con i gangster che si sfidano in giochi infantili e grotteschi — non solo destabilizza il genere del yakuza eiga, ma sovverte anche le aspettative sul comportamento “maschile”. La virilità qui si dissolve nel ludico, nel silenzio, nel gesto minimo, rivelando una dimensione di vulnerabilità che, se letta in chiave queer, suggerisce una critica implicita alla performatività del potere.
Analogamente, in Kikujiro, l’ironia si lega alla figura del “padre” fallito e clownesco, che accompagna il bambino in un viaggio che è al tempo stesso esistenziale e dissidente rispetto al modello familiare. L’uomo adulto, in preda a pulsioni infantili e spesso sconfitto dalle situazioni, si allontana radicalmente dall’ideale virile dominante, incarnando una mascolinità alternativa, tenera, puerile e aperta al rovesciamento dei ruoli. Il ricorso al travestimento e alla pantomima, tipico del Kitano comico, rafforza questa direzione queer: la maschera non nasconde l’identità, ma la moltiplica.
In Kubi, infine, l’ironia raggiunge una densità tragica: la giustapposizione di efferatezza e comicità, la teatralizzazione grottesca della morte, la recitazione stilizzata e a tratti farsesca (che richiama l’enka e il kabuki), servono a destrutturare il mito epico del guerriero. Laddove la tradizione jidaigeki esaltava l’onore, la disciplina e la forza, Kitano propone personaggi dominati da pulsioni disordinate, passioni inconfessabili e un’inadeguatezza tragica che sfocia nel riso amaro. L’ironia, in questo senso, è il codice attraverso cui il cinema kitaneano introduce il queer non come oggetto visibile, ma come energia diffusa, come processo di scardinamento semantico e affettivo.
Genealogia dei personaggi maschili queer nel jidaigeki: da Mizoguchi a Miike
L’interrogazione queer del jidaigeki, il dramma storico giapponese ambientato in epoca Edo o Sengoku, ha attraversato la storia del cinema nipponico ben prima che il termine "queer" si affermasse come categoria critica. Già negli anni Quaranta e Cinquanta, autori come Kenji Mizoguchi avevano introdotto figure maschili la cui identità si costruiva in relazione ambigua al potere, al desiderio e alla fragilità. In film come Utamaro o meguru gonin no onna (1946), la figura dell’artista cortigiano, immerso in un mondo di geishe e bellezza effimera, offre una rappresentazione del maschile che si sottrae alla durezza del samurai per abbracciare una dimensione estetica e sensuale, prossima alla femminilità.
Negli anni Sessanta e Settanta, la rivoluzione sessuale e culturale del Giappone si riflette nel lavoro di registi come Masahiro Shinoda e Nagisa Ōshima. Quest’ultimo, con Gohatto (1999), realizza uno dei testi più radicalmente queer della storia del jidaigeki, in cui la presenza omosessuale è tematizzata apertamente, non come deviazione, ma come fattore disgregante dell’ordine virile-militare. Il desiderio tra uomini non è negato né sublimato, ma messo in scena come forza tragica e rivoluzionaria.
Con l’ingresso nel nuovo millennio, il jidaigeki subisce una trasformazione ibrida e postmoderna, che trova in Takashi Miike uno degli interpreti più audaci. Film come 13 Assassins (2010) o Hara-Kiri: Death of a Samurai (2011) rimettono in questione l’etica del sacrificio e della lealtà, introducendo personaggi maschili dalle motivazioni ambigue, spesso in tensione tra affetto, desiderio e violenza. Sebbene Miike non tematizzi esplicitamente l’omosessualità, le sue figure maschili sono frequentemente caratterizzate da relazioni affettive intense, da una corporeità disturbante e da un’instabilità identitaria che apre spiragli queer.
Kitano si inserisce in questa genealogia con uno stile inconfondibile. A differenza di Mizoguchi, che sfuma nell’allusione, o di Ōshima, che affronta frontalmente il tema del desiderio tra uomini, Kitano gioca su piani multipli: il non detto, l’ambiguo, il gesto che tradisce una tensione erotica sotto la superficie dell’onore e della lealtà. Il suo contributo risiede nella capacità di far emergere il queer dal cuore stesso della narrazione patriarcale, senza dichiararlo, ma lasciandolo risuonare nel vuoto, nei silenzi, negli sguardi, nelle scene in apparenza “comiche” che invece nascondono drammi di identità, desiderio e perdita.
Travestitismo e spettacolarizzazione del corpo maschile nel teatro kabuki come matrice iconografica del jidaigeki
Il kabuki, forma teatrale nata nel Giappone del XVII secolo, rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per comprendere la rappresentazione del corpo maschile nel jidaigeki. Caratterizzato da una spettacolarizzazione estrema e da un sistema codificato di travestitismo, il kabuki ha storicamente affidato la rappresentazione dei ruoli femminili — gli onnagata — ad attori maschi, creando così una complessa negoziazione tra genere, desiderio e finzione performativa.
Il travestitismo nel kabuki non si limita alla semplice simulazione dell’altro sesso, ma assume una funzione strutturale che problematizza la fissità dell’identità di genere. L’onnagata è infatti un corpo maschile che incarna con maestria una femminilità idealizzata, creando una tensione erotica ambivalente sia per il pubblico che per i personaggi stessi. Questa ambiguità sessuale diviene elemento di seduzione e di potere, una rappresentazione teatrale che intreccia maschile e femminile in un gioco di sguardi e attese.
Nel jidaigeki, erede diretto e insieme trasformatore del kabuki, questa matrice iconografica persiste in forma più sottile ma non meno significativa. Le figure maschili, spesso guerrieri o samurai, portano in sé l’eredità del corpo “spettacolarizzato”: non sono mai solo uomini in senso realistico, ma corpi segnati da una stilizzazione che mette in scena la forza, l’onore e al tempo stesso la vulnerabilità e il desiderio nascosto. Il travestitismo si trasforma da pratica teatrale a dispositivo narrativo, in cui la mascolinità viene costantemente rappresentata come una performance, un atto che si ripete e si rinegozia in rapporto alle norme sociali.
Nel cinema di Takeshi Kitano, questa eredità del kabuki si manifesta nell’uso del corpo e della mimica, nella teatralità dei movimenti e nel modo in cui il regista costruisce personaggi che oscillano tra forza brutale e fragilità poetica. Il corpo maschile kitaneano è spesso un corpo ferito, segnato da cicatrici visibili e invisibili, che rimanda al concetto di kintsugi (l’arte di riparare con l’oro le crepe, valorizzandole), e che riflette una mascolinità che non si può confinare entro rigidi schemi eterosessuali o patriarcali. In questo senso, la matrice iconografica del kabuki consente una lettura queer del jidaigeki, dove il travestitismo e la teatralizzazione sono dispositivi di sottrazione e sovversione.
La portata queer del cinema di Takeshi Kitano in chiave teorica
L’analisi del cinema di Takeshi Kitano attraverso una lente queer permette di cogliere come la sua opera si ponga al crocevia tra tradizione e innovazione, tra conformismo e rottura. Il queer kitaneano non è una dichiarazione esplicita di orientamento o identità, bensì una modalità sottile e stratificata di mettere in crisi le categorie binarie del genere, del desiderio e del potere.
Eve Kosofsky Sedgwick, nella sua riflessione sulle “epistemologie queer”, ci ricorda che il queer non deve essere confinato a una mera identità sessuale, ma deve essere inteso come uno spazio critico e performativo che mette in discussione le strutture stabili di significato. In Kitano, questa indeterminatezza queer si manifesta nei personaggi che oscillano tra ruoli di potere e marginalità, tra violenza e tenerezza, tra presenza e assenza, configurando uno spazio ambiguo dove si gioca la complessità dell’umano.
Leo Bersani, con la sua lettura della sessualità come esperienza di vulnerabilità e di fallimento, offre un quadro utile per comprendere l’estetica della ferita e del fallimento nei film di Kitano, in particolare in Hana-bi. Qui la mascolinità non si manifesta come forza invincibile, ma come resa dolorosa, come un corpo esposto al trauma e alla solitudine, che si apre a possibilità di affetto e di comunione oltre i confini normativi.
Infine, Sara Ahmed ci guida verso una comprensione del queer come “politica degli affetti”, che si manifesta nella capacità di creare relazioni alternative e di resistere a regimi normativi. Nei film di Kitano, questa politica si traduce nella delicatezza con cui si rappresentano i legami interpersonali non convenzionali — come quelli tra i gangster di Sonatine o tra l’adulto e il bambino in Kikujiro — che sfidano la rigidità dell’ordine sociale giapponese e aprono a forme di comunità queer.
In sintesi, la portata queer del cinema di Takeshi Kitano si manifesta come una critica implicita ma potente alle norme di genere e sessualità, e come una proposta estetica che celebra l’ambiguità, la fragilità e la molteplicità dell’identità. Attraverso l’ironia, la teatralità e la rappresentazione della ferita, Kitano disegna un immaginario che è insieme profondamente giapponese e radicalmente globale, capace di parlare alle tensioni contemporanee del desiderio e della differenza.
L’analisi queer del cinema di Takeshi Kitano costituisce una lente critica preziosa per smontare e interrogare le strutture tradizionali di genere, desiderio e potere che hanno da sempre influenzato la rappresentazione cinematografica in Giappone, e più in generale nel contesto culturale globale. Kitano, attraverso la sua particolare sintesi estetica, integra elementi di tradizione e innovazione che rimandano sia al teatro kabuki, con le sue pratiche di travestitismo e spettacolarizzazione del corpo maschile, sia al jidaigeki, genere storico che ha da sempre rappresentato le tensioni fra rigide norme sociali e identità subalterne o marginali. Lungi dal proporre una mera rievocazione o riproduzione, il cinema di Kitano reinterpreta questi codici in chiave contemporanea, facendo emergere un immaginario queer stratificato che non si limita a tematizzare la sessualità o la differenza di genere, ma mette in crisi le stesse categorie con cui ci si ostina a interpretare la realtà.
In quest’ottica, la presenza di corpi segnati dalla ferita – fisica o psicologica che sia – assume un valore centrale e simbolico: essa non è semplicemente un elemento stilistico, ma diventa metafora di una condizione umana segnata da vulnerabilità, precarietà e dissenso rispetto ai modelli di mascolinità egemonici. Il corpo ferito di Kitano non è mai un corpo debole o passivo, ma un corpo che, attraverso la sua esposizione, rompe il silenzio e sfida la norma, rivelandosi veicolo di una tensione radicale fra forza e fragilità, dominio e resa. Questo intreccio produce uno spazio estetico e narrativo in cui la performatività di genere – intesa come ciò che Judith Butler ha efficacemente definito come «ripetizione e rielaborazione di atti che costituiscono l’identità» – si trasforma in un atto di resistenza e di sovversione, un “fare queer” implicito ma potentemente attivo.
Kitano, dunque, si configura non solo come un autore di culto all’interno del panorama cinematografico internazionale, ma come un vero e proprio intellettuale visivo, capace di declinare in immagini una riflessione critica profonda sul significato del queer in un contesto culturale tradizionalmente conservatore come quello giapponese. Le sue figure maschili – guerrieri melanconici, bambini che incarnano un rovescio della virilità tradizionale, legami omosociali segnati da una malinconia dolente – non soltanto sfidano le norme estetiche e narrative, ma invitano lo spettatore a rivedere le proprie categorie di interpretazione, aprendosi a una pluralità di significati e a un’inedita esperienza emotiva. In tal senso, la narrazione kitaneana si fa specchio e al contempo sfida di un mondo in trasformazione, in cui i confini dell’identità si fanno più fluidi e complessi, e dove la diversità non è più una minaccia, bensì una risorsa vitale per la costruzione di nuovi immaginari e nuove comunità.
Questa capacità di Kitano di lavorare sulle tensioni e le ambiguità del genere e del desiderio trova interessanti parallelismi e contrappunti nella riflessione teorica di Eve Kosofsky Sedgwick, per la quale il queer non è tanto un’identità da definire, quanto una “modalità di lettura” che dissipa le gerarchie di senso e apre al gioco delle differenze e delle ambivalenze. In Kitano, infatti, il queer emerge proprio come quella forza che destabilizza le certezze, che “disattiva” le norme per far emergere il potenziale latente di trasformazione e di fuga dai binarismi. Parallelamente, l’interpretazione della sessualità come esperienza di vulnerabilità e fallimento proposta da Leo Bersani si ritrova nelle immagini kitaneane di corpi feriti, di legami non pienamente realizzati o destinati alla dissoluzione, sottolineando come il desiderio queer possa essere inteso non come conquista di un potere, ma come una forma di esposizione al rischio, di apertura all’imprevedibile.
Inoltre, la prospettiva di Sara Ahmed sul queer come politica degli affetti illumina ulteriormente la lettura del cinema di Kitano: i suoi personaggi si muovono in relazioni spesso fragili e sospese, in cui la solidarietà si costruisce nel disagio, nella differenza e nell’alterità, generando così nuove forme di comunità che si sottraggono ai meccanismi di esclusione. Questo scambio affettivo, che si svolge non tanto nelle parole quanto nel silenzio, nello sguardo, nella violenza o nella tenerezza, rappresenta una modalità alternativa di costruzione del sé e dell’altro, capace di decostruire l’egemonia normativa e di aprire a un orizzonte più inclusivo e complesso.
Il richiamo al teatro kabuki, con la sua lunga tradizione di attori maschili che interpretano ruoli femminili attraverso il travestitismo spettacolarizzato, è cruciale per comprendere la matrice iconografica di questa performatività queer nel cinema di Kitano e nel jidaigeki più in generale. Il kabuki, nel mettere in scena corpi maschili trasformati e resi oggetto di desiderio e meraviglia, ha rappresentato storicamente una sorta di terreno di negoziazione e ambiguità tra genere e sessualità, aprendo la strada a successive declinazioni di mascolinità fluida e performativa. Kitano, pur rifuggendo da una rappresentazione esplicita del travestitismo, eredita e rielabora questa tradizione in un cinema che fa dell’ambiguità di genere e della fragilità emotiva il suo cuore pulsante.
Questa propensione di fare del corpo e dell’identità un campo di tensione e trasformazione, di far risuonare la ferita come possibilità di guarigione e di rinnovamento, trova un’eco profonda nelle riflessioni di Michel Foucault, che nei suoi studi sul potere e sulla sessualità ha mostrato come le forme di sapere e le pratiche di potere siano indissolubilmente legate alla produzione di “domini di oggetti e rituali di verità”. Kitano, attraverso la sua opera, decostruisce questi rituali di verità, proponendo nuove modalità di esistenza e di resistenza che sfidano la stabilità del potere normativo. Allo stesso modo, Audre Lorde ci ricorda che «il nostro silenzio non ci proteggerà», sottolineando l’importanza di rompere il silenzio intorno alle marginalità e alle differenze per costruire spazi di libertà e riconoscimento.
In definitiva, il queer kitaneano rappresenta una delle espressioni più profonde e radicali di un cinema che non solo intrattiene, ma che interroga, destabilizza e apre. Il suo potere risiede nella capacità di trasformare il dolore e la ferita in una forma di resistenza estetica e politica, in un atto di coraggio che sfida i confini rigidi di genere e sessualità, aprendo scenari di senso nuovi e complessi. In un mondo in cui le identità sono sempre più fluide e in continua evoluzione, il cinema di Kitano si conferma come un laboratorio prezioso di immaginazione queer, capace di offrire strumenti critici e narrativi per pensare e vivere la differenza in tutte le sue molteplici forme.