sabato 14 giugno 2025

Kafka: la scena dell’enigma. Visione, potere e resistenza secondo Franco Rella

Franco Rella, intellettuale inquieto e finissimo interprete dei territori liminali del pensiero contemporaneo, ha fatto di Kafka una delle sue figure cardine, quasi una bussola con cui orientarsi in quel deserto simbolico che chiamiamo modernità. Ma attenzione: per Rella Kafka non è un autore da “spiegare”. È piuttosto una ferita aperta, una figura liminale che si sottrae a ogni lettura lineare, un punto cieco della cultura che, proprio perché non si lascia chiudere in un discorso, ci costringe a pensare diversamente. Leggere Kafka, nel pensiero di Rella, è come attraversare un campo minato dove ogni parola, ogni immagine, ogni silenzio mette in discussione ciò che siamo, ciò che crediamo di essere, ciò che chiamiamo mondo.

Per Rella, Kafka è l'autore che, più radicalmente di altri, ha mostrato lo scollamento tra il linguaggio e l’esperienza, tra la narrazione e il vissuto. Ma non si tratta, nel suo caso, di un semplice gesto postmoderno o decostruttivo. Kafka non demolisce per puro gusto dell’abisso: egli scava, con dolente ostinazione, fino a toccare la soglia dove il senso si trasforma in enigma. È in questa zona grigia, in questo confine mobile tra ciò che può ancora essere detto e ciò che sfugge alla presa del linguaggio, che si iscrive la scrittura kafkiana secondo Rella. Una scrittura che non pretende di rappresentare il reale, ma che ne indica la frattura, la mancanza, il trauma originario.

Il Kafka di Rella è uno scrittore del limite: il limite tra il sé e l’altro, tra il corpo e la legge, tra il sogno e la veglia, tra il desiderio e la colpa. Un autore che lavora sulla soglia, senza mai oltrepassarla del tutto, perché ciò che sta “oltre” — come in un sogno trattenuto o in una visione interrotta — non si lascia afferrare, non si lascia possedere. La sua opera, letta da Rella, non si organizza secondo un progetto unitario o una metafisica dell’assurdo, ma è una costellazione mobile di immagini, figure, spettri che si richiamano e si respingono, in un movimento incessante e senza approdo. Kafka non costruisce un mondo: piuttosto, mette in scena la sua impossibilità. E proprio in questa impossibilità, in questo scacco continuamente ripetuto, si rivela il gesto poetico estremo della sua scrittura.

In Kafka, Rella individua una tensione spirituale profonda, ma spogliata di ogni approdo dogmatico o teologico. Non c’è redenzione, nel mondo kafkiano. Ma nemmeno disperazione. C’è, invece, un’attesa che si prolunga oltre la soglia del sopportabile, una domanda che resta sempre sospesa, senza risposta. Questa domanda — sul senso della legge, sull’identità, sull’origine del male, sulla giustizia, sulla possibilità di parlare — è ciò che Kafka pone in ogni suo testo. Eppure, ciò che colpisce Rella non è tanto il contenuto di questa domanda, quanto la sua forma: il fatto che essa si presenti sempre sotto il travestimento dell’allegoria, della parabola, della favola malata. Una forma che non illumina, ma offusca; che non spiega, ma rende inquieto. E questo perché, secondo Rella, l’unico modo autentico per pensare il reale, oggi, è accettare che esso non si dia mai in forma trasparente, ma sempre e soltanto come enigma.

Kafka, per Rella, è il custode dell’enigma. Il suo rapporto con la legge, per esempio, non si riduce mai a una semplice critica del potere. La legge kafkiana — impersonale, remota, inflessibile — è un’istanza che si pone come assoluta, ma che non ha mai un volto. E proprio in questa mancanza di fondamento, in questa radicale assenza di un soggetto giuridico o divino che possa garantire il senso, si apre lo spazio del terrore e dell’assurdo. Ma anche, paradossalmente, quello della libertà. Perché, nella misura in cui la legge è cieca e inaccessibile, essa lascia aperto un margine di resistenza, di fuga, di ambiguità. Il protagonista kafkiano — l’impiegato, l’animale, l’artista di fame — è sempre sospeso in questo spazio vuoto tra un ordine che lo sovrasta e una voce interiore che lo spinge a disobbedire, a non capire, a restare.

Rella legge questa condizione come una forma estrema di esistenza. Kafka, nel suo sguardo, non è solo uno scrittore della modernità, ma il suo profeta oscuro. Egli anticipa la crisi dell’io, la dissoluzione del soggetto, la frammentazione della realtà e del senso. Ma lo fa non attraverso una teoria, bensì attraverso il racconto, la figura, l’immagine. In questo, Rella trova un’affinità profonda con pensatori come Platone e Freud, che non pensano per concetti astratti ma per miti, sogni, narrazioni. Anche Kafka è un pensatore “per figure”, uno che affida all’arte la possibilità di dire ciò che la filosofia, da sola, non può più dire. E questa forma di pensiero — visiva, affabulatoria, enigmatica — diventa per Rella un modello di scrittura critica, una via per ripensare il senso stesso del fare filosofico.

In fondo, il Kafka di Rella non è un autore da interpretare, ma da attraversare. Le sue storie non hanno chiavi, e se le hanno, non aprono nessuna porta. Ciò che resta, nel lettore, è un senso di vertigine, di disagio, ma anche di stupefazione. È come se, leggendo Kafka, si entrasse in una zona dove tutto ciò che è familiare diventa estraneo, e dove l’estraneo rivela qualcosa di noi che non sapevamo di sapere. Rella chiama questo spazio “scrittura estrema”: una scrittura che non consola, non redime, non spiega, ma costringe a guardare, senza filtri, nell’abisso dell’umano.

Per questo Kafka, per Rella, non è mai stato un autore da addomesticare. Non è un simbolo della burocrazia, né un moralista mascherato, né un maestro dell’assurdo. È piuttosto uno sciamano dell’invisibile, un poeta dell’indicibile, uno scrivente che ha fatto della fragilità la sua forza, dell’angoscia un canto, dell’impossibilità un gesto di verità. La sua è una scrittura che ci guarda da dentro, che ci interroga senza dirci “cosa” voglia sapere. E in questo sguardo vuoto, in questo silenzio pieno di echi, Rella trova il nucleo più potente — e più scomodo — dell’intera modernità. Kafka è il nostro contemporaneo proprio perché non ci rassicura mai: ci espone. E, nel farlo, ci salva da ogni forma di innocenza.


Nel pensiero di Franco Rella, Kafka non è soltanto un autore fra gli altri, né semplicemente uno scrittore del Novecento che ha saputo esprimere la condizione alienata dell’uomo moderno. È molto di più: è una figura liminale, una soglia, un dispositivo quasi ontologico che permette di pensare la crisi dell’intero progetto della modernità. Kafka, per Rella, rappresenta non solo un testimone della dissoluzione dell’io, ma anche un alchimista dell’invisibile, un rivelatore dell’indicibile. Nei suoi racconti, nei suoi romanzi incompiuti, nelle sue lettere e nei suoi diari, Rella legge un unico, vasto e frantumato affresco dell’umano che si disfa, che non trova più corrispondenza tra la propria interiorità e il mondo che lo circonda. Ma è proprio in questa disarmonia, in questa vertigine, che Kafka si fa profeta – non di un futuro, ma dell’impossibilità stessa di prevederlo, di abitarlo, di possederlo.

Per Rella, Kafka è uno scrittore che ha radicalizzato fino all’estremo limite la scissione tra parola e mondo, tra soggetto e istituzione, tra desiderio e legge. Ogni elemento del reale kafkiano è segnato da una frattura. La casa, il lavoro, la famiglia, la giustizia, la comunità: tutto appare svuotato, trasformato in un apparato burocratico senza volto che schiaccia l’individuo, e tuttavia lo attira, lo seduce, lo obbliga a cercare comunque un contatto, un varco, una possibilità. Kafka, in questo senso, non è un autore della pura disperazione. È, piuttosto, lo scrittore che più di ogni altro ha tentato di attraversare la disperazione, di abitarla, per cercare – in essa e non altrove – una forma estrema di senso.

Ciò che rende Kafka così centrale nel pensiero di Rella è proprio questo suo “metodo dell’agonia”: non si tratta di raccontare la tragedia dell’uomo moderno, ma di scriverne dall’interno, come se la scrittura stessa fosse l’ultima, fragile possibilità di esistere ancora. Non a caso, Rella insiste più volte sul fatto che nei testi di Kafka la lingua è una macchina che gira a vuoto, che si arrovella, che non produce certezze, ma solo ulteriori complicazioni, ulteriori stratificazioni. Eppure, in questo girare a vuoto, qualcosa si disvela: non una verità positiva, ma un chiaroscuro, un barlume. Kafka non è un “narratore di eventi”, bensì un “geometra dell’ombra”: disegna i contorni dell’indecidibile, cartografa il territorio dell’assenza.

Nelle sue analisi, Rella legge in Kafka un sintomo e insieme un vettore del crollo della grande narrazione dell’Occidente, quella che vedeva l’individuo come centro razionale, morale e autonomo. I personaggi di Kafka sono invece svuotati, attraversati da forze che non comprendono, da leggi che non conoscono, da linguaggi che non decifrano. Ma proprio in questa impotenza risiede il cuore della loro umanità. In una società che esige performance, chiarezza, decisione, i protagonisti kafkiani balbettano, esitano, falliscono. E, per Rella, è in questo fallimento che si apre la possibilità di un pensiero diverso, non più fondato sulla dominazione o sul progresso, ma sulla fragilità, sull’interruzione, sull’ascolto dell’indicibile.

Kafka non scrive mai da un punto di vista superiore: non offre spiegazioni, non moralizza, non chiude le sue storie con una lezione. Al contrario, lascia tutto in sospeso, come se il significato si rifiutasse di emergere. Eppure, per Rella, proprio questo è il nucleo etico della sua opera. L’etica kafkiana non consiste in una norma da seguire, ma in un’attitudine: restare, resistere, testimoniare l’enigma. Kafka non ci dice come vivere, ma ci mostra cosa significa vivere senza sapere come fare. In un mondo che ha perso ogni orientamento, Kafka tiene aperta la domanda. E per Rella, è proprio questa tenuta della domanda – questa vigilanza nel vuoto – che fa di Kafka un pensatore spirituale, più ancora che un letterato.

Uno dei punti centrali della riflessione di Rella riguarda la figura del corpo nel mondo kafkiano. Non è il corpo eroico della classicità, né quello erotico della modernità, ma un corpo spossato, malato, ridotto all’osso. Il corpo in Kafka è luogo di espiazione, di degradazione, ma anche di rivelazione. È nel corpo che si inscrive la legge invisibile che domina i personaggi. Ed è sempre nel corpo che si manifesta la loro umiliazione, la loro vergogna, il loro sentirsi fuori posto nel mondo. Rella vede in questo un segnale potentissimo: la modernità ha separato il pensiero dal corpo, ma Kafka ci obbliga a fare i conti con il corpo come luogo della verità. Non una verità oggettiva, ma una verità incarnata, dolorosa, che grida senza voce.

Il corpo kafkiano, secondo Rella, è anche un corpo metamorfico: si trasforma, si disgrega, si animalizza. E qui entra in gioco un’altra intuizione cruciale: l’animalità in Kafka non è mai solo simbolica. È, piuttosto, una soglia di passaggio, una condizione che rivela la nostra stessa incertezza ontologica. L’uomo che si trasforma in insetto, l’animale che racconta la propria storia, la scimmia che cerca di diventare umana: tutto questo, per Rella, non è allegoria, ma inquietudine ontologica. Siamo davvero uomini? O siamo soltanto un punto interrogativo tra l’umano e l’animale? Kafka non risponde. Kafka mostra. E in questo mostrare, ci mette di fronte all’abisso della nostra stessa condizione.

Ma forse il punto più vertiginoso della lettura di Rella è quello in cui Kafka viene accostato ai mistici – non in quanto portatore di una fede, ma come testimone di una mancanza che si fa invocazione. Kafka non crede in Dio, ma scrive come se Dio fosse sempre dietro l’angolo, appena svanito, sempre sul punto di manifestarsi e di ritirarsi. È la teologia negativa portata all’estremo: non c’è nulla da affermare, ma solo una distanza da abitare. E per Rella, proprio questo fa di Kafka una figura decisiva per ripensare la spiritualità nel mondo contemporaneo. Non una spiritualità rassicurante, ma una spiritualità tragica, consapevole del silenzio, della dismisura, del buio.

L’aspetto più profondamente politico – ma in senso esistenziale – della visione di Rella: Kafka ci obbliga a interrogarci su cosa significhi ancora oggi essere “responsabili”. In un mondo in cui nessuno sa più a chi rispondere, in cui la legge è muta e l’autorità svuotata, Kafka mostra il volto dell’uomo che risponde comunque. Risponde al vuoto, al silenzio, alla propria solitudine. E in questa risposta senza destinatario, senza garanzia, si cela la più alta forma di fedeltà. Una fedeltà all’enigma dell’essere, che Rella – in dialogo con la filosofia, con l’arte, con la psicoanalisi – riconosce come il compito ultimo del pensiero.

Kafka, dunque, non come autore da spiegare, ma come esperienza da attraversare. E Franco Rella, in tutta la sua opera, ha fatto di questa attraversata una pratica del pensiero: vigile, appassionata, sempre sul filo del paradosso. Un pensiero che, come Kafka, non salva. Ma illumina.


Un punto essenziale del pensiero di Franco Rella: Kafka, nella sua radicale marginalità, non è isolato. È piuttosto un centro oscuro intorno al quale gravitano altre figure del pensiero e della letteratura, con cui Rella tesse un dialogo sotterraneo e profondissimo. Benjamin, Blanchot, Celan, Hölderlin – questi nomi non emergono mai in Rella come puri riferimenti, ma come voci con cui Kafka entra in consonanza o in tensione, e che, a loro volta, vengono rilette a partire dalla “faglia” kafkiana. Procedo quindi a espandere questa trama di relazioni.

Kafka e Benjamin:
Rella si muove in un solco benjaminiano non solo per prossimità tematica, ma per affinità metodologica. Walter Benjamin vedeva in Kafka un autore “profetico”, ma di una profezia priva di certezza: una serie di parabole senza chiave, come se l’interpretazione stessa fosse parte del mistero e non una sua soluzione. Rella riprende e amplifica questo sguardo: Kafka è per lui un autore della soglia, un autore messianico in senso negativo. Proprio come Benjamin legge la storia come un cumulo di rovine, e intravede nell’angelo di Klee lo sguardo del testimone impotente, così Rella vede in Kafka il narratore che porta la lingua fino al limite, fino a quel punto in cui la parola non serve più a comunicare, ma solo a esistere.

L’analogia si spinge oltre: per entrambi, Kafka è il luogo di una scrittura “paradossale”, che mette in scena l’autorità ma la priva di fondamento, che nomina la Legge ma non la rivela mai. E se Benjamin, nel suo celebre saggio su Kafka, parla del “comitato degli animali” come immagine del ridicolo potere, Rella legge quell’animale che scrive (la scimmia, il cane, il topo) come il soggetto esiliato dalla polis, costretto a imitare la lingua dell’altro per sopravvivere. In entrambi i casi, Kafka diventa un sismografo della modernità, capace di registrare le vibrazioni più profonde del crollo della tradizione giudaico-cristiana e dell’emergere di una burocrazia spiritualmente cieca.

Kafka e Blanchot:
Con Maurice Blanchot, il rapporto è più sottile e inquieto. Rella lo coltiva come un’eco: entrambi leggono Kafka come autore dell’impossibilità, ma anche dell’insistenza. In Kafka, scrivere è inseguire una verità che si sottrae, e in Blanchot questa tensione diventa vera e propria poetica del “neutro”. Rella riconosce che in Blanchot c’è una comprensione profonda del “tempo kafkiano”: un tempo sospeso, né pienamente presente né definitivamente passato, un tempo dell’attesa e del ritardo.

Blanchot afferma che ogni racconto kafkiano è un testo in cui la parola si sprofonda in sé, in cui ciò che è detto non coincide mai con ciò che si intende. E Rella raccoglie questa intuizione per definire Kafka come un autore “non rivelato”, sempre sulla soglia del silenzio. Il narratore kafkiano non è mai un portatore di senso, ma un funzionario dell’assurdo, un essere che ripete formule vuote cercando una legge che si è dissolta. Rella non si limita a confermare Blanchot: lo rilancia. Kafka è per lui la figura di un’interruzione assoluta, ma anche la promessa che qualcosa, nel linguaggio, ancora resiste. Una promessa fatta non all’uomo, ma all’enigma stesso.

Kafka e Celan:
Il dialogo tra Kafka e Paul Celan è forse quello più segreto e vibrante. Entrambi parlano una lingua “sradicata”, entrambi attraversano la devastazione, ma non cedono al mutismo. Celan, che ha conosciuto il cuore nero della storia – la Shoah, il lutto, la cancellazione – scrive in una lingua tedesca spettrale, piena di vuoti, rotture, scarti. Kafka, ebreo di lingua tedesca in un impero che non lo riconosceva, scrive invece in una lingua di vetro, trasparente e fragile, in cui ogni parola è una trappola. Rella coglie questa affinità profonda: per entrambi la scrittura è un atto di resistenza, non contro qualcosa, ma “verso” qualcosa che non si lascia nominare.

Celan scrive: “La poesia è un respiro” – e Rella legge Kafka come colui che trattiene quel respiro, che lo porta fino all’asfissia. La pagina kafkiana, per Rella, è come una camera senza ossigeno: si scrive per non morire, si scrive come atto estremo. Come in Celan, anche in Kafka il linguaggio non salva, ma testimonia. E qui Rella compie un passaggio filosofico cruciale: mette in risonanza la scrittura kafkiana con la tradizione negativa della mistica ebraica, con l’idea che ciò che vale non si può dire, ma solo alludere. Celan e Kafka si incontrano, nelle pagine di Rella, come due solitari che conoscono il fallimento della comunicazione, ma che scrivono lo stesso – perché non possono fare altrimenti.

Kafka e Hölderlin:
Hölderlin è, apparentemente, molto lontano da Kafka. È il poeta dell’Assoluto, della Grecia perduta, della nostalgia per un linguaggio originario. Ma Rella, con una mossa filosoficamente audace, li accosta non nei temi ma nel destino. Entrambi sono stati abitati dalla “follia della lingua”. Hölderlin nella sua tensione verso il sublime, Kafka nella sua discesa nell’assurdo: in entrambi, la lingua diventa luogo di eccesso, di sprofondamento, di perdita.

Rella legge in Hölderlin la figura del poeta esiliato nella propria lingua, e in Kafka quella dello scrittore che cerca una patria in una lingua che non gli appartiene. Ma il punto di contatto profondo sta nella loro comune visione della parola come abisso. Per Hölderlin, Dio è assente e la parola deve sostituirlo. Per Kafka, la legge è oscura e la parola è la sua unica traccia. Rella, su questa linea, costruisce una fenomenologia della parola che fallisce, ma che proprio nel fallimento rivela la sua potenza etica.


Il pensiero di Rella costruisce un coro dissonante, dove Kafka è il punto nevralgico attorno a cui si muovono spiriti affini. Benjamin lo avvicina al pensiero del frammento e del rovesciamento; Blanchot lo riconosce come fratello nel deserto della significazione; Celan lo ascolta da dentro il trauma; Hölderlin lo prefigura nel gesto poetico assoluto. E Rella, con la sua scrittura interrogativa, li ascolta tutti. Senza mai volerli conciliare, senza risolvere il loro dolore, ma lasciando che si tocchino – come ombre sullo stesso muro.

La lettura che Franco Rella offre di Kafka si muove come un filo teso tra le crepe della modernità, tra i vuoti della rappresentazione e i labirinti della soggettività. Kafka, per Rella, non è solo un autore da interpretare, ma una soglia epistemologica, un punto di non ritorno che obbliga a ripensare radicalmente la nostra idea di arte, di potere, di visione, di scena, di esistenza. In questa prospettiva, Kafka non è un oggetto di studio, ma un dispositivo di pensiero, un luogo di interrogazione ininterrotta. Le sue pagine diventano lo spazio in cui la visione si fa opaca, il teatro si fa muto, la politica si mostra come macchina cieca. Ed è su questi tre assi – il visivo, il teatrale e il filosofico-politico – che Rella costruisce una lettura che è, insieme, analitica e vertiginosa, critica e poetica.

Kafka e il visivo. Rella coglie con estrema lucidità come l’universo di Kafka sia popolato da immagini che non si offrono alla contemplazione, ma che continuamente sfuggono, si spostano, si deformano. Le figure kafkiane – dall’uomo trasformato in insetto a quella porta che si chiude sempre troppo presto, al castello che non si lascia mai raggiungere – non sono icone ma enigmi. Non servono a rassicurare lo sguardo, ma a metterlo in crisi. L’immagine, in Kafka, è sempre uno scarto: qualcosa che promette rivelazione e invece consegna spaesamento. È una soglia, non un approdo. E in questo Kafka è, secondo Rella, profondamente moderno, anzi post-moderno: mette in scena un mondo in cui lo sguardo è sempre ecceduto da ciò che tenta di vedere, in cui l’apparire è sempre compromesso da una opacità intrinseca. In questo senso Kafka, per Rella, è anche un teorico – inconsapevole eppure esemplare – della crisi del visibile. La sua scrittura smonta la pretesa della visione trasparente, mette in scena l’impossibilità della piena visibilità. Così come nei dipinti di Magritte l’oggetto è sempre doppio, spostato, differito, anche in Kafka ogni descrizione, ogni figura si fa specchio che non riflette. Non a caso, Rella collega l’opera kafkiana a un’intera linea dell’arte contemporanea – da Francis Bacon a Giacometti – in cui la figura si fa fantasma, e l’immagine si apre su un’assenza. È in questa “mistica dell’apparizione”, come la definisce Rella, che Kafka rivela il suo potere di svelamento: proprio attraverso ciò che nasconde.

Kafka e il teatrale. Ma il visivo non è mai, per Rella, separabile dalla scena. Kafka è, nel suo nucleo più profondo, uno scrittore della messinscena. Eppure, non si tratta di teatro in senso classico. Non c’è azione, non c’è evoluzione, non c’è catarsi. Ciò che Kafka costruisce è un antiteatro, un contro-teatro dell’assurdo e della ripetizione. Ogni gesto, ogni dialogo, ogni processo nei suoi testi si presenta come una replica deformata, una performance che non mira al compimento ma all’ossessione. Il processo non si conclude, la colpa non è nominata, la pena non è spiegata. In questo senso Kafka è parente stretto di Beckett e di Artaud, ma anche – scrive Rella – di un certo teatro dell’Ottocento mitteleuropeo, dove tutto si gioca nella parola, nel gesto minimo, nella sospensione. L’aula di tribunale, l’ufficio, la stanza in cui si aspetta sono le nuove quinte sceniche di un teatro in cui si rappresenta l’indecidibile. Ma soprattutto, ed è qui che Rella è più radicale, Kafka costruisce un teatro senza spettatori. O meglio: uno spazio teatrale in cui lo spettatore viene assorbito, trascinato, implicato. Non c’è più distanza: siamo tutti coinvolti. Non assistiamo, ma siamo interpellati, chiamati a entrare nel gioco delle parti, senza sapere quale parte ci spetti. Questa è per Rella la vera forza teatrale di Kafka: non quella di mettere in scena un dramma, ma quella di costruire una scena in cui il soggetto stesso si dissolve. Una scena vuota, ma terribilmente piena di senso. Un altare su cui si celebra il mistero della soggettività moderna.

Kafka e il politico. Sul versante filosofico-politico, la lettura di Rella è forse quella più vertiginosa. Kafka non è un autore politico in senso ideologico, ma è uno dei più radicali analisti del potere del Novecento. Il potere, in Kafka, non ha volto, non ha centro, non ha ragione. È una macchina che funziona per automatismi, per esclusioni, per deleghe. Non è il sovrano che decide, ma il funzionario che rimanda, il burocrate che archivia, il regolamento che si autoalimenta. In questo senso, Rella legge Kafka in sintonia con le riflessioni foucaultiane sul biopotere, con le genealogie del dominio, ma anche con Benjamin e la sua teoria della violenza mitica: quella che si impone non per necessità, ma per diritto alla sua stessa esistenza. Il potere, in Kafka, è l’apparato. È il tribunale che giudica senza mai nominare l’accusa, è il castello che esiste solo perché si deve obbedire a ciò che proviene da esso, anche se non si capisce cosa. Rella coglie con forza la radicalità politica di questa rappresentazione: il soggetto moderno è catturato in una rete che lo precede, lo eccede, lo priva della propria voce. Eppure, Kafka non è solo la cronaca della sconfitta. In quella voce balbettante, in quella resistenza muta del corpo che non si adatta, Rella vede un resto: un punto di non potere, un gesto minimo che sottrae. È lì che Kafka diventa, anche, un pensatore dell’etica. Non c’è salvezza, forse, ma c’è la possibilità di non aderire. Di non riconoscersi. Di restare opachi.

In questo incrocio tra immagine, scena e dispositivo, Kafka appare, nella lettura di Rella, come il più lucido dei diagnostici del nostro tempo. Ma anche, paradossalmente, come uno dei pochi che ancora ci parla di un'altra possibilità: quella di un linguaggio che si sottrae, di un soggetto che resiste, di una scena che non si chiude. Kafka, insomma, come il nostro contemporaneo più necessario. Un autore che, scrive Rella, non si finisce mai di leggere – perché non è mai del tutto leggibile. Ed è in questa illeggibilità che si apre, forse, la vera forza della letteratura.