Aveva sulla schiena qualcosa che somigliava a una scritta. Nessuno l’aveva mai letta davvero, ma si diceva in giro che fosse un nome. Non il suo, però. Un nome che portava con sé come un’etichetta sbagliata cucita sul cuore. Una volta, anni prima — o secoli, che per lui era lo stesso — aveva capito di sapere a memoria centinaia di indici, prefazioni, bibliografie: tutti i margini di libri scomparsi, quelli che nessuno cercava più. Gli bastava chiudere gli occhi e sentiva l’odore delle pagine perdute, la forma esatta di una parola che stava sul bordo.
Nel quartiere lo chiamavano “il trovatello vecchio”. Un ossimoro, forse, ma non se ne curava. Portava il soprannome come una medaglia svuotata, accettando che la lingua degli altri fosse spesso più precisa della propria. Camminava senza fretta, misurando i gradini con un’attenzione da cieco, anche se vedeva. I passanti lo sfioravano con indifferenza cortese, lasciandolo entrare ed uscire dal paesaggio come una nota di pentagramma mai suonata.
Era scarcerato, sì. Ma non c’era carcere peggiore dell’essere dimenticato prima ancora di essere conosciuto. Nessuno riusciva a rendere prospera la sua assenza, né a rispondere alla sua presenza muta. Il campanello a cui apparteneva — se mai ne avesse avuto uno — era rotto. Non squillava. Nessuno l’avrebbe sentito nemmeno se avesse pianto a gola spiegata.
Eppure, ogni giorno, sedeva e attendeva. Non una persona, non una parola. Solo un suono. Quel suono secco e familiare, che fa tremare le porte e destare le anime. Ma non veniva. Mai. Era il campanello che non sveglia. E a poco a poco, anche lui, smise di dormire.