Le giornate si allungano, si distendono lente come i fiumi sacri dei miti antichi, quei fiumi che scorrono eterni fra terra e cielo, fra vita e morte, tra gli echi delle leggende e il battito del tempo che tutto inghiotte. Come il fiume Stige che attraversa l’oltretomba greco, così anche il mio tempo si fa liquido, incerto, sospeso tra il mondo visibile e quello invisibile. Le membra stanche che trascinano l’onda del giorno sono come Eracle stanco dopo le sue dodici fatiche, segnate da cicatrici invisibili che raccontano storie di lotta e redenzione, di dolore e trionfo. È un amplesso con la notte che richiama il racconto di Orfeo ed Euridice, un intreccio di luce e ombra, di passione e perdita, in cui la luce dell’estate è come quel tenue bagliore che Orfeo cercava di seguire, ma che sfugge tra le dita della memoria e del destino.
L’aria si fa più dolce, eppure porta con sé un’angoscia nuova, simile a quella che attraversa le pagine di Dostoevskij, nelle sue profondità esistenziali, dove il soffio dell’angoscia diventa presagio di redenzione o dannazione. Un’angoscia rarefatta e insidiosa come il pensiero di Kierkegaard, che parla di quella “angoscia” che è la vertigine della libertà, la consapevolezza del possibile e dell’impossibile, del peso schiacciante della scelta e della caduta nel vuoto. In questo respiro sottile si avverte il richiamo delle filosofie orientali, come il Tao che insegna a seguire il flusso senza opporsi, a lasciarsi trasportare dall’eterna danza degli opposti, luce e tenebra, vita e morte, piacere e dolore, in un eterno gioco di trasformazione.
Io aspetto l’estate come un amante attende il veleno del primo bacio, evocando la passione tragica di Medea, colei che conosce il potere distruttivo e salvifico dell’amore e del tradimento. Non cerco la dolcezza, ma la dannazione che promette, come nell’eterna tensione fra Eros e Thanatos teorizzata da Freud, dove la pulsione di vita e quella di morte si intrecciano in una danza irresistibile e ineluttabile. L’estate si fa allora simbolo di quel “momento apocalittico” descritto da Walter Benjamin, il momento in cui il tempo si ferma, si carica di senso e si trasforma in una catarsi in cui passato, presente e futuro si fondono in un unico istante di verità.
Oh, stagione crudele, in cui la luce rivela ciò che l’inverno aveva pietosamente celato! Qui riecheggiano i temi della “luce rivelatrice” di Blake, che brucia le tenebre dell’ignoranza e svela il volto nascosto dell’anima. Non è il sole che cerco, ma la fine che in esso si annida, la fine che richiama la “notte oscura dell’anima” di San Giovanni della Croce, quel cammino spirituale attraverso il vuoto e la prova, verso una rinascita che si compie solo dopo aver attraversato il deserto della solitudine e della disperazione.
È una promessa già scritta, come il destino implacabile del fato nelle tragedie greche, dove gli dei tessono la tela degli eventi e gli uomini ne sono vittime e protagonisti insieme. Un altarino seminascosto dove il mio destino, come il fiore carnivoro di cui parlava Nietzsche, ha aperto le sue fauci per nutrirsi della mia volontà e della mia fragilità. Qui si incrocia la filosofia di Schopenhauer, che vede il mondo come “volontà e rappresentazione”, un luogo dove il desiderio è un fuoco inestinguibile che consuma chi lo accoglie e chi lo teme.
Sta nello spazio — sì, nello spazio — ciò a cui il tempo m’incatena con le sue catene d’oro. Lo spazio, quel “vuoto” tanto caro al Buddhismo Zen, non come semplice assenza, ma come potenzialità infinita, come campo primordiale in cui tutte le cose nascono e si dissolvono. Lo spazio, fratello segreto del Silenzio, quel silenzio mistico che accompagna le meditazioni di Meister Eckhart e che è presenza assoluta, grembo di ogni nascita e di ogni fine. Io, mendicante di segni, avanzo verso quella geometria fatale, come il pellegrino di “Siddhartha” di Hermann Hesse, che percorre il sentiero tra le ombre e le luci del mondo, consapevole che ogni passo è un atto di scoperta e di abbandono.
Il tempo m’illude con le sue carezze, con le sue promesse di eternità e di riposo, come il sonno dolce e ingannevole di Morfeo, ma è lo spazio che incide il mio nome nella pietra, quel nome che è la traccia indelebile della mia esistenza in questo universo fragile e potente. È là, in quello spazio infinito e terribile, che devo giungere, ineluttabilmente, come il viaggiatore di Dante che si avventura tra Inferno, Purgatorio e Paradiso, cercando la luce che guarisce e che trasforma.
Come il navigante che sogna porti che non esistono più, come Ulisse che sfida il mare e gli dei, mosso dalla nostalgia per un’Itaca sempre sfuggente, così io avanzo, lento, superbo, rovinato, con il cuore pieno di antiche canzoni e di nuove ferite. E l’estate, la mia estate, quella che non consola ma giudica, mi attende. Maestosa e impassibile come Atena nella sua saggezza e crudeltà, con l’indifferenza sacra degli dèi pagani e il sorriso enigmatico della Morte, che si profuma con l’essenza del mistero eterno.
In questo abbraccio tra luce e tenebra, tra desiderio e abbandono, si consuma la tragedia e la bellezza del mio cammino. Sono l’eroe e la vittima, il cantore e il silenzio, il seme e la pianta che germoglia nell’ombra della fine. Sono l’eterno viaggiatore che cerca la sua verità nell’abisso del tempo e nello spazio infinito, e che sa che ogni passo, ogni respiro, ogni attimo, è un frammento sacro di un poema senza fine, scritto con l’inchiostro della vita e della morte, dell’amore e del dolore, della luce e dell’ombra.