C’è qualcosa di profondamente inquietante nella comparsa del piccolo Hitler inginocchiato — e stavolta incappucciato — ad Art Basel 2025. Ma non è l’oggetto in sé a scandalizzare. L’opera, intitolata “Him”, è nota, discussa, documentata, già esposta in luoghi segnati dalla Storia e già controversa fin dalla sua realizzazione nel 2001. È piuttosto la sua ricomparsa nel contesto dell’art fair più blasonata d’Europa, con un prezzo che supera il milione di dollari, a rendere tutto un po’ più torbido, un po’ più ambiguo, un po’ più nostro.
L’artista è Maurizio Cattelan, uno che di ambiguità ha fatto materia scultorea. Ironico, blasfemo, lucidissimo nel comprendere e manipolare le logiche del mercato dell’arte, ha spesso agito come sabotatore dall’interno. Eppure, proprio perché consapevole delle regole che muovono il sistema, ogni suo gesto appare come una sfida pericolosa all’intelligenza collettiva. “Him” è una di queste sfide. Forse la più estrema, la più viscerale, la più disturbante.
Il ritorno dell'indicibile
La scena è semplice, quasi teatrale. Una piccola figura, inginocchiata, in posizione di preghiera. Vista da dietro, emana una malinconia infantile, una fragilità disarmante. La dimensione è ridotta, i piedi sono quelli di un bambino. Lo spettatore si avvicina, curioso, forse intenerito. E poi gira intorno. E allora lo vede. Il volto è quello di Adolf Hitler, ricreato con precisione da statua di cera. Gli occhi sono alzati al cielo, lo sguardo assorto, quasi supplice.
In questa nuova versione, un cappuccio copre il volto, o almeno lo nasconde parzialmente. L’effetto è ancora più destabilizzante. Non perché neghi l’identità del soggetto, che tutti conosciamo, ma perché trasforma la figura in un simbolo più vasto, più mobile, più spettrale. Il cappuccio può essere quello del penitente, del carnefice, del prigioniero. Ma può anche essere il nostro cappuccio, quello con cui proteggiamo gli occhi da ciò che non vogliamo più vedere.
A cosa serve oggi, nel 2025, mostrare ancora questa opera? Non l’abbiamo forse già vista, commentata, digerita? Non è forse diventata essa stessa un cliché del contemporaneo, un’immagine pop della provocazione artistica? Eppure, c’è qualcosa che continua a risuonare. Qualcosa che rifiuta di spegnersi, che resta scomodo anche nel tempo dell’assuefazione e della neutralizzazione estetica.
Lo scandalo come coreografia
Cattelan sa bene che oggi lo scandalo è parte del sistema, una coreografia prevista, calcolata, spesso monetizzata. Gagosian, d’altronde, è il campione mondiale nella valorizzazione della trasgressione trasformata in status symbol. Presentare “Him” ad Art Basel, nel 2025, significa innestare un cortocircuito esplosivo: la figura storicamente più mostruosa del Novecento diventa oggetto da fiera, da compravendita, da salotto.
Si parla di un prezzo che supera il milione di dollari. E già qui il significato si infiamma. Perché nessun prezzo può “pagare” davvero il trauma. Eppure, la somma in sé diventa parte dell’installazione. Un’opera che già riflette sulla relazione tra colpa, pentimento e rappresentazione, ora si carica anche del peso del denaro come misura della memoria.
Chi compra quest’opera? Con quale diritto? Con quale fine? E cosa possiede, davvero, quando la porta a casa? Il volto di Hitler? O la possibilità di maneggiare il Male senza farsene bruciare? Comprare “Him” è, in un certo senso, comprare il diritto di osservarlo con distacco, di renderlo feticcio, oggetto d’arredo, trofeo concettuale. E non c’è niente di più inquietante di questo.
Hitler bambino: la regressione della colpa
Una delle intuizioni più perturbanti dell’opera sta proprio nella sua iconografia distorta: Hitler è qui rappresentato come un bambino. O meglio, con il corpo di un bambino e il volto adulto. È un gesto che disorienta. Si tratta di una miniaturizzazione della colpa? Di una regressione della responsabilità? O di un tentativo, folle e assurdo, di umanizzazione?
Il gesto di inginocchiarsi richiama la preghiera, la supplica, il pentimento. Ma si può perdonare Hitler? E soprattutto, può lui implorare perdono? La posizione è ambigua. Non è chiaro se sia sincera o sarcastica. È una trappola morale, un cortocircuito emotivo: chi guarda si trova costretto a fare i conti con il proprio giudizio, con la propria capacità o incapacità di rispondere all’ambiguità.
E qui l’opera si fa specchio. Riflette la necessità tutta contemporanea di “umanizzare” anche l’orrore, di dargli forma, di renderlo gestibile, narrabile, acquistabile. Ma al tempo stesso mostra il pericolo insito in questa tendenza: il rischio che l’immagine del Male perda la sua forza devastante e diventi narrazione addomesticata, carne da esposizione.
La teatralizzazione della memoria
Non è un caso che “Him” sia stato esposto, anni fa, nel ghetto di Varsavia. Lì l’opera acquistava una potenza storica e affettiva specifica. Il luogo stesso ne caricava il senso, obbligava il pubblico a confrontarsi con la Storia e le sue lacerazioni. Era una forma di teatro tragico: il palco era il reale, la scena era la memoria.
Ma ad Art Basel tutto cambia. Qui il luogo è quello della transazione, non del lutto. Non c’è commemorazione, ma contrattazione. La memoria diventa merce rara, da collezione. E in questo passaggio si consuma una delle più sottili violenze simboliche del nostro tempo: la privatizzazione della colpa. Chi possiede l’opera possiede anche il diritto di disinnescarla, di reinterpretarla, di depotenziarla.
In questo senso, “Him” è anche un monito sul destino stesso dell’arte contemporanea, sempre più costretta a scegliere tra rilevanza politica e appetibilità commerciale. E Cattelan, con il suo solito gesto da sciamano e clown, ci sbatte in faccia questa contraddizione. Con una sola scultura, mostra il baratro tra ciò che dovrebbe restare indicibile e ciò che diventa vendibile.
Lo spettatore è l’opera
Forse, alla fine, non è nemmeno Hitler il vero soggetto dell’opera. È lo spettatore. Il pubblico che guarda, che valuta, che desidera o respinge. Chi guarda “Him” è chiamato a interrogarsi: che cosa provo? Rabbia? Tenerezza? Disgusto? Curiosità? Sensazione di potere? E in questa risposta si cela il nucleo dell’opera. Cattelan non dice nulla. Non spiega. Non moralizza. Ci lascia lì, con l’inquietudine che sale, col cappuccio che copre ma non protegge, con il disagio di una coscienza non risolta.
“Him” è un’opera che non può essere spiegata una volta per tutte. Ogni contesto in cui appare la ridefinisce. Ogni sguardo che le si posa addosso la ricrea. E ogni nuova esposizione — soprattutto una così sfrontatamente commerciale come quella di Basilea — ne rilancia la domanda cruciale: è possibile rappresentare il Male senza riprodurlo? È possibile esporre la colpa senza consumarla?
E allora si torna alla domanda più intima e forse più terribile: sotto quel cappuccio, c’è davvero lui? O c’è l’umanità che ha permesso che accadesse? O ci siamo, senza accorgercene, noi stessi?
Forse è proprio questo il punto: “Him” non è un’opera su Hitler. È una trappola etica, una lente oscura che ci costringe a guardare nel buio e a scoprire che il buio ci assomiglia più di quanto pensassimo. Inginocchiato, sì. Ma ancora lì. Ancora vendibile. Ancora collezionabile. E, soprattutto, ancora rappresentabile.
E questo, forse, è il vero scandalo.