Pier Paolo Pasolini giornalista non fu mai un semplice opinionista, né tanto meno un cronista. Il suo giornalismo fu un'arma, uno strumento di scavo e denuncia, ma anche di poesia e disperazione. Usò la parola scritta sulle pagine dei quotidiani come un prolungamento della sua voce e della sua visione tragica del mondo. Non è esagerato dire che fu, per lui, una forma letteraria totale, capace di abbracciare la filosofia, la sociologia, l'antropologia, la profezia e la poesia civile. Il suo fu un giornalismo incarnato, corpo a corpo, vissuto come un atto sacrale e violento insieme. Ogni articolo nasceva da un’urgenza, da uno strappo. Non c’era mai nulla di tiepido, nulla di anodino: scriveva come si grida, come si bestemmia, come si piange.
Negli anni ’60 e ’70, Pasolini usa il giornalismo come tribuna ma anche come trincea. Pubblica sulle testate più diverse: da Vie Nuove, settimanale comunista, a Il Mondo, da Paese Sera fino al Corriere della Sera, quotidiano borghese per eccellenza, dove riesce – con una forza retorica e una libertà intellettuale inaudite – a dire cose che altrove sarebbero state censurate o ignorate. Pasolini non si conforma né al linguaggio della sinistra ortodossa né a quello della destra. È una figura radicalmente isolata: si può dire che, nel suo giornalismo, ogni frase sia un atto di dissenso. Dissente dalla modernità, dal progresso, dalla borghesia, dal conformismo ideologico, dalla televisione, dalla scuola, dal Partito Comunista, dalla Democrazia Cristiana, dal Sessantotto, dal mercato. Dissente da tutto ciò che ha “vinto”. E scrive proprio per testimoniare la sconfitta di tutto ciò che amava: il mondo contadino, l’oralità, la varietà dei dialetti, i corpi poveri, la sacralità pagana della marginalità.
L’ARTICOLO COME FORMA LETTERARIA
Pasolini reinventa l’articolo di giornale. Ne fa un genere letterario a sé. I suoi testi sono spesso scritti in prima persona, attraversati da domande, interruzioni, autoanalisi. Rompe la forma editoriale classica: un suo articolo può diventare un monologo teatrale, una poesia civile, un dialogo filosofico, una confessione. Questo stile spezzato, sghembo, pieno di pathos e al tempo stesso raziocinante, restituisce l’idea che l’intellettuale non sia colui che spiega le cose da fuori, ma che le vive da dentro, sulla propria carne.
A volte lo si è accusato di contraddirsi. E infatti Pasolini si contraddice. Ma lo fa per fedeltà alla complessità, per onestà intellettuale, per evitare la trappola delle ideologie precotte. Ogni articolo è il luogo di una lotta interiore. Si può dire che l’articolo pasoliniano sia una “forma di crisi”. Una crisi personale, politica, linguistica. La verità non è mai data una volta per tutte: è qualcosa che si cerca, che si brama, e che sfugge. Pasolini, con la sua scrittura giornalistica, ci trascina in questo processo.
SCRITTI CORSARI E LETTERE LUTERANE: IL TESTAMENTO CIVILE
Le due raccolte pubblicate postume, "Scritti corsari" (1975) e "Lettere luterane" (1976), sono il punto culminante di questa attività. Sono testi pubblicati originariamente, con alterne reazioni, sul Corriere della Sera, tra il 1973 e il 1975. E sono oggi letti come un autentico testamento. Pasolini vi riversa tutto il suo sguardo profetico, la sua solitudine, il suo disprezzo per le nuove forme di potere, e la sua nostalgia di un’Italia che stava scomparendo.
Tra gli articoli più noti:
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“Il vuoto di potere in Italia”, del 14 novembre 1974, si apre con la celebre invocazione: "Io so. Io so i nomi dei responsabili. Io so, ma non ho le prove...". È una denuncia precisa e visionaria delle trame oscure del potere italiano, delle stragi di Stato, della collusione tra politica, mafia e servizi deviati. È un testo che sembra scritto oggi. Ma Pasolini non vuole fare il magistrato o l’inquirente. Vuole assumersi il ruolo tragico del poeta civile, del testimone etico.
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“Il PCI ai giovani!!”, del 16 giugno 1968, in cui, scandalosamente, difende i poliziotti contro gli studenti borghesi in rivolta. Ma il vero bersaglio del testo è l’ipocrisia della sinistra rivoluzionaria, che a suo dire ha già introiettato il linguaggio borghese, che parla di cambiamento ma vive nel privilegio.
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“Contro la televisione”, dove smaschera il nuovo totalitarismo mediatico. Secondo Pasolini, la TV non informa: deforma. Impone un modello unico di comportamento, una lingua standardizzata, un immaginario borghese travestito da progresso. È il nuovo fascismo, molto più sottile del precedente, perché agisce senza apparire.
IL CONSUMISMO COME GENOCIDIO CULTURALE
Al centro di questa battaglia, vi è la denuncia radicale della mutazione antropologica. Pasolini vede nell’Italia del boom economico, e poi degli anni Settanta, non un paese che cresce, ma un paese che si suicida culturalmente. L’introduzione forzata del modello borghese e consumista, secondo lui, non ha portato solo automobili e frigoriferi. Ha distrutto millenni di civiltà. Ha cancellato dialetti, riti, corpi, relazioni. Il consumismo ha reso l’essere umano un oggetto tra gli oggetti. Lo ha svuotato, appiattito, omologato.
Pasolini chiama tutto questo genocidio culturale. E lo denuncia con una lucidità che ancora oggi mette i brividi. Aveva intuito che la televisione e la pubblicità avrebbero cambiato non solo l’economia, ma la psiche. Che il capitalismo non si limita a vendere merci, ma trasforma i desideri. E che l’omologazione non è soltanto politica, ma esistenziale. Tutto questo lo scrive prima degli studi di Baudrillard, prima di Foucault sulla biopolitica, prima dei saggi sulla società dello spettacolo. Pasolini vede prima degli altri. Ma non viene ascoltato.
UN’INATTUALITÀ CHE È PROFETISMO
Essere giornalista, per Pasolini, significava anche essere un profeta tragico, un uomo che grida nel deserto. Le sue parole, oggi, risuonano con forza rinnovata. Aveva visto l’Italia per quella che stava diventando, e non fu perdonato. Il suo linguaggio era troppo libero per i partiti, troppo poetico per i giornali, troppo politico per i poeti. Non aveva nessuna collocazione. Per questo è stato marginalizzato, deriso, temuto. E in fondo: assassinato.
Oggi, il suo giornalismo appare come un monumento alla responsabilità dell’intellettuale. Non quella cattedratica, ma quella sacrale. Pasolini scriveva con il corpo, con la sofferenza, con la rabbia. Non per ottenere consenso, ma per dire la verità. Anche quella scomoda, anche quella che gli faceva perdere amici, lettori, sostenitori. Anche quella che lo avrebbe condotto, inevitabilmente, al martirio.
IL GIORNALISTA E IL REGISTA: DUE VOLTI DELLO STESSO SGUARDO
Pasolini non fu mai un “giornalista” nel senso comune del termine. Non possedeva la forma mentis dell’inviato o del cronista, né si riconosceva nel tono rassicurante dell’editorialista di opinione. Tuttavia, il suo ingresso nelle pagine del Corriere della Sera a partire dal 1973 segnò una svolta nel giornalismo italiano, tanto da costituire un caso a sé stante nella storia della stampa nazionale. La sua scrittura travalicava ogni codice giornalistico: non inseguiva l’attualità, la mordeva. Non costruiva analisi obiettive: scagliava invettive liriche, giudizi morali, profezie apocalittiche. Più che informare, Pasolini voleva smascherare.
È fondamentale, per comprendere la portata di questo gesto, partire dal presupposto che Pasolini era un artista integrale: poeta, romanziere, cineasta, filologo, polemista, pensatore politico, testimone. In ogni medium che attraversava, portava con sé uno sguardo unico, iconoclasta, ossessivamente volto a smascherare le ipocrisie del potere, le trappole dell’ideologia, le menzogne del progresso. Per questo non esiste scissione tra il Pasolini regista e il Pasolini editorialista: ogni articolo è un campo di battaglia estetico e politico, tanto quanto ogni suo film è un editoriale visivo, un pamphlet incarnato.
Film come Accattone (1961), Mamma Roma (1962), Teorema (1968), Porcile (1969), Salò (1975) sono vere e proprie inchieste etico-visive. Non si limitano a narrare una storia, ma costruiscono un atto d’accusa contro le strutture sociali, culturali, sessuali e ideologiche del presente. Questi film sono impensabili senza il Pasolini giornalista: è come se gli articoli fossero la colonna vertebrale teorica del suo cinema. E allo stesso modo, i film nutrono e legittimano i suoi interventi giornalistici, come se il linguaggio cinematografico avesse bisogno della parola scritta per completare la propria carica eversiva.
L’intreccio tra i due registri è strutturale. Gli articoli sembrano scritti “in macchina da presa”: costruiti per inquadrature, per scarti semantici, per zoom improvvisi. Pasolini scrive come se stesse montando un film. Invece di seguire una linea argomentativa tradizionale, costruisce una drammaturgia della parola: giustappone registri linguistici diversi (alto-basso, dotto-volgare, biblico-televisivo), costruisce climax emotivi, fratture sintattiche, uso provocatorio della punteggiatura, persino dei corsivi e dei punti esclamativi. È un linguaggio esplosivo, infiammato, che oscilla continuamente tra analisi razionale e invettiva poetica. In questo senso, ogni suo articolo è una performance, un’azione politica e poetica allo stesso tempo.
IL POETA CIVILE NEL LABIRINTO DELLA STORIA
Pasolini aveva un rapporto ossessivo con la storia. Non in senso storiografico, ma esistenziale e sacrale. La storia per lui non era solo una sequenza di eventi, ma un campo spirituale, un luogo di rotture e tradimenti. Il trauma centrale del suo pensiero – che si legge nei versi di Le ceneri di Gramsci, ma anche nelle pagine dei Corsari – è la scomparsa del sacro dal mondo moderno. Una perdita che egli vedeva riflettersi nei corpi, nei linguaggi, nelle pratiche quotidiane. Il sacro, per Pasolini, si manifestava nel mondo contadino, nel sottoproletariato urbano, nei dialetti, nei rituali popolari. E proprio queste forme erano quelle che il “nuovo fascismo” – quello del consumo, della televisione, dell’omologazione – stava distruggendo.
Quando scrive articoli, Pasolini non abbandona mai questo sguardo sacrale. Anche quando parla di scuola, di politica, di urbanistica, di costume, lo fa con lo stesso tono con cui un poeta maledetto scriverebbe una preghiera. Il suo giornalismo non è mai riducibile a semplice critica della società: è una forma di liturgia negativa, un oratorio profano. Ogni suo articolo contiene una sorta di Requiem per ciò che è stato perduto: la diversità antropologica, l’autenticità, la comunità, il silenzio.
L’originalità pasoliniana sta anche nella sua capacità di ibridare i registri. Nella stessa pagina, può mescolare dati statistici e reminiscenze omeriche, citazioni ecclesiastiche e bestemmie, note filologiche e insulti politici. Il suo è un linguaggio febbrile, ossimorico, sempre sul punto di implodere. È la lingua di chi vuole gridare, ma sa di non essere ascoltato. Di chi non ha più interlocutori, e perciò si rivolge direttamente alla storia, come in un monologo tragico.
RICEZIONE, POLEMICHE, FASCINO
L’apparizione di Pasolini sulle pagine del Corriere della Sera negli anni ’70 fu, al tempo stesso, scandalosa e magnetica. La borghesia italiana, che comprava il giornale per trovare equilibrio e rassicurazione, si ritrovò improvvisamente di fronte a un intellettuale che li chiamava “idioti”, “colpevoli”, “complici”. Eppure lo leggevano. Lo aspettavano. Perché in lui c’era qualcosa che mancava a tutti gli altri: il coraggio di dire l’indicibile. Non solo: di dirlo con arte. Nessun altro intellettuale italiano del tempo possedeva questa fusione tra lucidità analitica e potenza letteraria. Calvino era sottile, ma cerebrale. Moravia era incisivo, ma prevedibile. Solo Pasolini sapeva parlare con la forza della tragedia greca e il lessico del marxismo eterodosso, della mistica medievale e del realismo cinematografico.
È anche per questo che molti lo odiano, ancora oggi. Perché era inevitabile. Perché non si poteva ignorare. Perché ti guardava dentro, anche quando non volevi. Il suo linguaggio era una lama. E chi la riceveva, anche quando era consenziente, sanguinava.
IL TESTAMENTO CIVILE: DAI CORSARI AI LUTERANI
Le due raccolte fondamentali del suo giornalismo – Scritti corsari e Lettere luterane – costituiscono il suo vero testamento intellettuale e spirituale. Non vanno letti solo come raccolte di articoli: sono autobiografie politiche, forme moderne di “confessioni” in senso agostiniano. Nei Corsari, Pasolini getta uno sguardo lucido e disperato sull’Italia della modernizzazione forzata, sulla distruzione antropologica del popolo, sulla fine della cultura umanistica. Ma nelle Lettere luterane la disperazione si fa totale. Il tono si incupisce, si fa oracolare. Ogni frase sembra prefigurare la sua morte. C’è un senso di abbandono, di lamento funebre. È come se Pasolini, scrivendo, stesse componendo la sua stessa lapide.
E tuttavia, anche nella massima oscurità, non viene mai meno la lucidità. Pasolini non è mai confuso. È furente, ma chiarissimo. Accusa, ma argomenta. Offende, ma spiega. Persino le sue visioni più radicali – come quella della “mutazione antropologica” – sono oggi studiate, discusse, riprese. A distanza di cinquant’anni, molte delle sue previsioni appaiono non solo attuali, ma profetiche. Il consumismo ha vinto. Il popolo è scomparso. Il potere è diventato invisibile. La televisione ha formato un nuovo analfabetismo emotivo e critico. L’Italia non ha più dialetti, non ha più villaggi, non ha più periferie resistenti. Tutto è stato inglobato nel grande centro commerciale globale.
UN GIORNALISMO SACRILEGO
Pasolini fu un giornalista eretico. Scrisse in uno dei giornali più istituzionali d’Italia, ma da nemico interno. Parlò al pubblico borghese, ma per condannarlo. Scrisse di costume, ma come si scrive di tragedie. Fu, in definitiva, un sacerdote senza chiesa, un filosofo senza cattedra, un giornalista senza redazione. Uno che trasformò la pagina di giornale in un altare laico, o forse in un patibolo da cui gridare al mondo il proprio “non ci sto”.
La sua voce manca, oggi, come manca un padre esiliato, un fratello morto troppo presto. Eppure, i suoi articoli sono ancora lì: vivi, taglienti, presenti. Non come monumenti, ma come mine antiuomo. Basta leggerli, e qualcosa esplode.
I TESTI ICONICI: UN’ESPLORAZIONE DAL VIVO
1. “Il vuoto del potere in Italia” (Corriere, 1 febbraio 1975)
È forse l’articolo più violento, più oscuro e insieme più compiuto del secondo Pasolini. Vi si denuncia la natura criminale e mafiosa del potere italiano. Si parla apertamente di un paese in decomposizione morale, guidato da uomini «senza volto, senza sesso, senza ideologia». Pasolini lo scrive nel pieno della crisi del governo Rumor e delle trame oscure degli anni di piombo. Ma il suo bersaglio non è solo il potere politico: è la struttura stessa del potere democratico degenerato, quella che lui chiama «democrazia reale» e che oggi potremmo leggere come un’anticipazione delle critiche alla post-democrazia.
«I politici italiani non sono semplicemente corrotti: sono ormai in uno stato di purezza criminale, come se avessero raggiunto la loro forma compiuta.»
Il tono qui è apocalittico, ma mai vacuo. Pasolini usa la retorica come un’arma chirurgica: l’anafora, la ripetizione incalzante di immagini, l’iperbole sono strumenti per colpire non l’intelligenza ma la coscienza del lettore. È una scrittura teatrale, ma non teatraleggiante: c’è in gioco la tragedia dell’Italia, e il giornalista è attore e giudice di questo processo. Non ci sono prove materiali, ma c’è una verità interiore. Scrive infatti: «Io so. Io so i nomi. Ma non ho le prove».
Questa frase, ripetuta più volte, è diventata uno degli emblemi della sua poetica del vero: la verità non è ciò che si dimostra, ma ciò che si grida, ciò che si porta come stigma.
2. “Gli italiani non sono più quelli” (Corriere, 10 luglio 1974)
Qui Pasolini introduce in modo compiuto la teoria della “mutazione antropologica”: l’idea cioè che il popolo italiano – inteso come entità storica e culturale – non esista più, travolto dalla modernizzazione forzata, dalla cultura del consumo, dalla televisione. Il tono è quasi elegiaco: un misto di dolore e disperazione lucida. Eppure, non manca la furia. L’oggetto polemico è la scuola media unificata, che secondo Pasolini ha distrutto l’intelligenza critica e ha omologato i linguaggi.
Scrive:
«Gli italiani si sono omologati. Ma non verso l’alto, come sognava il progressismo democratico. Verso il basso. Verso la miseria spirituale.»
Questa diagnosi è diventata uno dei pilastri delle riflessioni successive sull’egemonia culturale dei media e sulla desertificazione dell’immaginario collettivo. Pasolini non è reazionario: è un rivoluzionario che vede la rivoluzione tradita, e che reagisce con una radicalità che la sinistra stessa, all’epoca, non riesce più a tollerare.
3. “Lettera al ministro della Pubblica Istruzione” (Corriere, 24 settembre 1975)
Si tratta di un vero e proprio pamphlet in forma epistolare, in cui Pasolini rivolge una lunga invettiva al ministro Malfatti, colpevole – secondo lui – di aver consegnato la scuola italiana nelle mani del degrado linguistico e del conformismo ideologico. Il linguaggio qui è elevatissimo, persino barocco in certi punti. Non c’è intento divulgativo: Pasolini non scrive per farsi capire da tutti, scrive per scavare, per umiliare, per provocare un trauma intellettuale.
La lettera è un esempio estremo della sua “scrittura per scomunica”: non cerca il confronto, ma la rottura. È l’esatto opposto dell’opinionismo giornalistico contemporaneo, che mira al consenso o alla viralità. Pasolini invece scrive per separarsi, per farsi fuori, per diventare irricevibile. E in questo gesto, in questa marginalità intenzionale, sta la sua potenza.
I. Retorica e linguaggio: il corpo vivo della parola pasoliniana
La lingua di Pasolini giornalista è una lingua in stato di allerta permanente. Non è solo mezzo di comunicazione, ma gesto, atto etico, dramma verbale. In ogni articolo, la lingua vibra come se fosse appena uscita da una rissa o da un’agonia. È una lingua che non vuole essere compresa: vuole essere sentita, percepita nel dolore e nel rischio.
1. L’anafora come martello
«Io so. Io so i nomi. Io so i nomi dei responsabili. Io so. Ma non ho le prove.»
L’anafora, cioè la ripetizione iniziale di una frase o parola, ha in Pasolini una funzione martellante: non mira a chiarire, ma a ferire il lettore, a svegliarlo da quella “falsa coscienza” che egli attribuisce alla sinistra borghese. Ogni ripetizione è un atto di fede laica, quasi una litania di denuncia. Non siamo nella logica discorsiva, ma nella performatività rituale. Il linguaggio si fa battito, ritmo ossessivo, scandito come i colpi di un tamburo funebre. Questa tecnica retorica, già usata nella poesia liturgica e nelle orazioni antiche, viene qui trasfigurata in un gesto politico, in una sorta di invocazione solenne. Le ripetizioni ossessive scavano un solco nella mente del lettore, lo obbligano a ricordare, a sentire, a reagire.
2. La sintassi interrotta
Pasolini non costruisce periodi limpidi e ordinati. Spesso usa frasi spezzate, subordinate senza principale, punti che cadono come ghigliottine. Questo stile spezzato riflette la crisi della ragione discorsiva borghese: come se la sintassi classica – razionale, aristotelica – fosse anch’essa complice della menzogna. Egli si serve della frattura linguistica come rappresentazione della frattura antropologica: se l’uomo è stato disgregato, anche la sua lingua deve esplodere.
«Vi è un che di viscido, di putrido, dietro le facce sorridenti. Ma chi può dirlo? Chi può dimostrarlo? Nessuno. Solo un poeta può.»
La poesia, in questo senso, è l’ultima verità: non perché dica il vero in modo oggettivo, ma perché conserva il potere di evocarlo. Il discorso giornalistico non è dimostrativo, ma oracolare. Le interruzioni, i punti lasciati in sospeso, sono come respiri affannati nel mezzo di una corsa: Pasolini non spiega, denuncia. Non persuade, chiama in causa.
3. Il lessico dell’apocalisse
Pasolini attinge a un vocabolario visionario, quasi escatologico: corruzione, decomposizione, mutazione, potere occulto, violenza muta. Sono tutte parole che non descrivono: profetizzano. Il giornalismo pasoliniano è una forma di oracolo tragico, e la sua lingua non rassicura né spiega: scuote, maledice, predice. Ogni parola è scelta come se fosse l’ultima. Non c’è spazio per la mediazione, per il compromesso terminologico. Quando scrive “mutazione antropologica”, non intende una metafora: intende letteralmente un cambiamento dell’essere umano, una nuova forma di vita plasmata dal potere mediatico.
Il suo vocabolario è spesso intriso di termini organici, corporei, viscerali: decomposizione, corpi, liquami, carni. Come se la lingua stessa volesse imitare la carne che deperisce, la fisicità della fine. Ma accanto a questo, c’è anche un lessico religioso, quasi biblico: colpa, innocenza, verità, profanazione. Questo doppio registro – carnale e sacrale – fa del suo giornalismo un’operazione teologica laica, una sorta di Vangelo al contrario.
II. Mappa dei nemici: chi Pasolini combatte, e perché
In un’opera sistematica e viscerale come quella pasoliniana, i nemici non sono mai figure isolate: sono entità culturali, collettive, archetipiche. Pasolini non scrive contro Tizio o Caio, ma contro ciò che essi rappresentano nell’inconscio collettivo.
1. La borghesia: la maschera dell’uniformità
«La borghesia non è una classe: è una malattia dello spirito.»
Per Pasolini, la borghesia non è un ceto sociale, ma una categoria psicologica, un habitus esistenziale. È la classe che ha distrutto ogni conflitto, ogni diversità, ogni desiderio. Il suo potere non è economico, ma simbolico: ha creato l’uomo senza qualità, l’uomo che non desidera più. È la borghesia che ha educato i giovani alla televisione, li ha resi consumatori, li ha convinti che tutto è già stato detto.
Questo nemico è insidioso perché non si manifesta con violenza: agisce per seduzione, per dissoluzione del senso. Il borghese è colui che accetta tutto, che ha sostituito l’etica con l’estetica, che si compiace del proprio relativismo. Pasolini lo vede nei professori, nei pubblicitari, nei politici riformisti, nei padri democratici: ovunque si annidi una resa ai valori dominanti.
2. La sinistra istituzionale: il grande tradimento
Il bersaglio polemico più doloroso è il PCI. Non perché Pasolini sia anticomunista, ma perché si sente tradito da ciò in cui credeva. Vede nella sinistra l’incapacità di comprendere le nuove forme di dominio: mentre i dirigenti comunisti parlano ancora di fabbriche, la vera fabbrica del potere è diventata la scuola, la TV, il linguaggio. La sinistra ha rinunciato a pensare.
«La sinistra è ancora convinta che progresso significhi libertà. Ma il progresso ha portato all’omologazione, non alla liberazione.»
Pasolini chiede alla sinistra una “nuova resistenza culturale”, ma sa che non verrà. Ed è qui che nasce la sua solitudine. Accusato di qualunquismo, di populismo, di nostalgia, Pasolini in realtà denuncia la fine del dissenso reale: la sinistra è diventata un apparato, incapace di vedere che il potere si è spostato nel simbolico.
3. La Chiesa cattolica: il teatro della menzogna
Pasolini ha un rapporto profondamente contraddittorio con la Chiesa. Da un lato, ne denuncia l’ipocrisia, la funzione reazionaria, il moralismo. Dall’altro, nutre una profonda nostalgia per la religiosità arcaica, quella del popolo, dei contadini, del sacro incarnato nei corpi e nei riti.
«La Chiesa ha benedetto il boom economico e l’inferno che ha prodotto. Ma nei paesi, nel silenzio delle vecchie donne, la fede è ancora qualcosa di vero.»
La Chiesa è la madre che ha tradito. È il potere simbolico che ha rinunciato alla verità per una pastorale della pace e del compromesso. Pasolini non odia il cristianesimo, odia la sua istituzionalizzazione. Ama il Cristo povero e perseguitato, ma detesta il Vaticano.
4. La scuola: fabbrica dell’ignoranza
Pasolini detestava la riforma della scuola media unificata. Non perché volesse un’istruzione classista, ma perché vedeva nella democratizzazione della scuola la sua omologazione culturale. La scuola ha abbandonato la cultura per diventare un sistema di gestione, un’industria dell’accesso al mercato.
«Gli studenti non parlano più italiano: parlano una lingua senza passato. Parlano la lingua del potere.»
Non è un’accusa ai giovani, ma una diagnosi del sistema: la scuola non forma più coscienze, forma utenti. Non trasmette più saperi, ma abilità. Il latino, il greco, la letteratura non servono più: e per questo vengono abbandonati. È la vittoria della funzionalità sull’identità.
5. L’industria culturale: la televisione come totalitarismo dolce
Pasolini è forse il primo, in Italia, a comprendere che la televisione non è solo un medium, ma un’ideologia. Una forma di fascismo senza manganello, ma infinitamente più efficace: perché non impone, seduce.
«Il nuovo fascismo è la pubblicità, la televisione, il sorriso. È un fascismo che non vuole consenso, ma complicità.»
Pasolini non propone di spegnere la TV, ma di capirla come arma di distruzione antropologica. L’industria culturale ha preso il posto della scuola e della Chiesa. È il nuovo pulpito, la nuova famiglia, il nuovo maestro. E il suo linguaggio – semplificato, ammiccante, onnipresente – ha distrutto la complessità del pensiero.
6. La magistratura: complice del Potere
Nei suoi ultimi scritti, Pasolini insinua – con furia e dolore – che anche la magistratura sia parte del meccanismo della menzogna. Non perché sia corrotta, ma perché è cieca, incapace di vedere dove si annida il nuovo potere: non nel crimine organizzato, ma nella gestione della normalità.
«I giudici sono onesti. Ma giudicano con le leggi della menzogna. Non possono capire ciò che non si dimostra: e il potere oggi si nasconde dietro il lecito.»
Il paradosso è tragico: la verità non è più giudicabile, perché si è resa invisibile. La giustizia è diventata un apparato che ignora il reale. Il vero potere, oggi, è legale: ed è per questo che è inattaccabile.
III. Giornalismo e intellettualità oggi: una distanza siderale
1. L’opinionismo senza rischio
Pasolini si esponeva fino al martirio. I giornalisti oggi si espongono fino al click. È la logica della visibilità a guidare ogni scrittura, non quella della verità. Si pubblicano opinioni come si postano selfie: per marcare una presenza, non per scavare.
Non esiste più l’intellettuale che scandalizza, che si fa irricevibile. Oggi gli intellettuali sono invitabili, addomesticati, spesso embedded nel sistema che fingono di criticare. Pasolini, invece, scriveva contro se stesso, contro il suo stesso pubblico. L’opinionismo è diventato un mestiere, non un rischio. Le parole non bruciano più.
2. L’assenza del corpo
Pasolini metteva il corpo nella scrittura: il suo essere omosessuale, il suo desiderio, la sua rabbia, il suo sguardo sui corpi del popolo, tutto questo era fisico, non ideologico. Oggi la scrittura giornalistica è disincarnata: neutra, spettrale, priva di odore e sangue.
Chi oggi potrebbe scrivere:
«La vera lotta non è tra ricchi e poveri. È tra chi ha il coraggio del proprio desiderio e chi si accontenta di un desiderio prefabbricato.»
Il corpo è stato esiliato. Il giornalista è una firma, non una voce.
3. L’intellettuale come manager della complessità
Il modello oggi dominante è l’intellettuale “moderato”, “razionale”, che gestisce la complessità con tono pacato, con citazioni opportune, con linguaggio inclusivo. Ma Pasolini non gestiva la complessità: la aggrediva. La faceva esplodere. La metteva in scena.
E soprattutto: non chiedeva di essere capito. Chiedeva di essere ascoltato come si ascolta un oracolo.