martedì 10 giugno 2025

Il lento svuotamento della democrazia



Esiste un punto di non ritorno, un confine netto oltre il quale ciò che stiamo osservando non può più essere descritto come una semplice prassi, una consuetudine amministrativa o politica usuale, ma assume i contorni inquietanti di un’erosione sistematica, metodica e quasi silenziosa. Questo fenomeno va ben oltre la dimensione tecnica, oltre il dibattito tra specialisti e addetti ai lavori; tocca direttamente il cuore stesso del sistema democratico che ci governa, mettendo a rischio la sua stessa essenza e validità. Quello che sta accadendo non è solo una serie di pratiche amministrative o legislative discutibili, ma un processo di svuotamento progressivo, una lenta e inesorabile sottrazione di sostanza alla democrazia, come se ne stessimo privando l’anima, riducendola a un involucro vuoto, fragile, destinato a perdere sempre più la sua forza e la sua capacità di rappresentare davvero la volontà popolare.

I segnali di questa erosione sono molteplici, distribuiti su piani diversi e in modi che non saltano immediatamente all’occhio. Essi si manifestano spesso in forme sottili, a volte quasi impercettibili, nascosti dietro il linguaggio criptico e tecnico dei bollettini ufficiali, nei comunicati istituzionali, nelle norme approvate quasi in sordina, o ancora nella crescente indifferenza, talvolta coltivata deliberatamente, con cui la società sembra accogliere questi cambiamenti. L’apparente “normalità” di questo stato di cose è in realtà frutto di un’attenta costruzione di senso, un’opera di rimozione che consente a chi detiene il potere di procedere indisturbato, facendo leva sull’apatia, sulla stanchezza politica, sul senso di impotenza diffuso.

Se volessimo partire dal cuore pulsante della democrazia rappresentativa, il parlamento è il primo esempio lampante di questo fenomeno. Per definizione costituzionale, il parlamento è il luogo in cui si esercita la sovranità popolare, dove si discute, si confrontano opinioni diverse, si compiono scelte attraverso il dibattito, e da cui devono provenire le leggi che regolano la vita di tutti i cittadini. Tuttavia, da tempo questo ruolo fondamentale è stato progressivamente marginalizzato e, di fatto, delegittimato. Invece di essere il centro del potere legislativo, il parlamento si trova sempre più spesso relegato a un ruolo di mera ratifica o, peggio, a un ingranaggio secondario nel meccanismo del potere. Al suo posto, è il governo che ha assunto un ruolo predominante, legiferando attraverso decreti legge, strumenti che per natura dovrebbero essere utilizzati solo in situazioni eccezionali, in presenza di urgenze concrete e temporanee.

La realtà che emerge, invece, è profondamente diversa e preoccupante. L’“urgenza” che giustifica l’uso massiccio e reiterato di questi decreti non è altro che una volontà esplicita di eludere il dibattito parlamentare, di sottrarsi al confronto con la rappresentanza eletta e al controllo democratico che ne deriva. È un meccanismo studiato per impedire la discussione, per imporre decisioni già prese, senza mediazioni né possibilità di revisione. Così, ogni nuovo decreto legge approvato corrisponde a un voto parlamentare che viene bypassato, a un dibattito pubblico che viene cancellato, a una voce popolare che si spegne. Il cittadino, che elegge i propri rappresentanti proprio per far sentire la propria voce, per partecipare alle decisioni che riguardano la collettività, si trova sempre più spesso a essere un semplice spettatore impotente di un gioco le cui regole e decisioni sono state stabilite a porte chiuse, in luoghi lontani dal parlamento e da qualunque forma di trasparenza.

Ma la delegittimazione della democrazia non si limita a questo solo aspetto rappresentativo. Anche la democrazia diretta, quell’istituto potentissimo che consente ai cittadini di esprimersi senza intermediari attraverso strumenti come il referendum, viene sistematicamente svuotata del suo significato e della sua efficacia. Questa operazione non avviene, almeno per ora, attraverso divieti espliciti o leggi restrittive, bensì mediante una strategia più subdola e sofisticata. Si promuove l’astensione come mezzo per delegittimare la partecipazione popolare: non si invita a votare contro un determinato provvedimento o a discutere apertamente del suo merito, ma si cerca di costruire un vuoto, un’assenza deliberata. Si esorta i cittadini a “non partecipare”, a “non sporcarsi le mani”, a evitare l’impegno politico e il confronto, nella speranza che il quorum previsto per rendere valido il referendum non venga raggiunto.

Questo silenzio calcolato, questa assenza voluta, diventa poi un’arma nelle mani di chi vuole scoraggiare l’uso di questo strumento. Il mancato raggiungimento del quorum viene brandito come prova inoppugnabile che “il referendum non serve”, che “la gente non è interessata”, che “è uno spreco di risorse pubbliche”. Ma dietro questa narrazione si nasconde una verità ben più amara: il vero obiettivo è quello di rendere sempre più difficile, frustrante e scoraggiante l’esercizio della sovranità popolare diretta, minando così alla radice le possibilità di partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica.

A poco a poco, giorno dopo giorno, si radica nella coscienza collettiva l’idea che gli strumenti democratici, quelli che dovrebbero essere celebrati e tutelati come il fulcro della nostra convivenza civile, siano in realtà un fastidio, un ostacolo burocratico, un impedimento da ridurre all’osso o addirittura da eliminare. Parlamenti, assemblee, referendum e cittadini stessi vengono progressivamente marginalizzati, ridotti a comparse senza voce né potere reale, mentre il comando si concentra sempre più in ambiti opachi, oscuri, autoreferenziali, lontani dagli occhi e dalle orecchie della popolazione. Un potere che si autoalimenta e si protegge, avvolto in una cortina di nebbia che ne nasconde le dinamiche e impedisce il controllo democratico.

Questa analisi non è una mera opinione, una posizione soggettiva o un semplice sospetto: è una constatazione fondata su fatti concreti, su dinamiche reali osservabili nelle nostre istituzioni e nella pratica politica quotidiana. Ed è proprio per questo motivo che sento urgente e doveroso scrivere e diffondere queste riflessioni oggi, in questo momento cruciale. Perché il rischio più grande che corriamo non è solo quello di perdere pezzi di democrazia, ma di assuefarci, di abituarci a questa situazione come se fosse normale, inevitabile, naturale. Un’abitudine pericolosa che porta alla rassegnazione, al fatalismo, alla convinzione che non ci siano alternative, che non sia possibile immaginare né costruire un percorso diverso.

Ma alternative, in realtà, esistono e sono concrete. Non sono utopie né sogni irrealizzabili: sono possibilità reali, percorsi aperti che possono riportare la democrazia al centro della vita pubblica, restituendo ai cittadini il ruolo che gli spetta di diritto. L’unico modo per realizzare questa rinascita è tornare a parlare, a discutere, a partecipare, a far sentire la propria voce con forza e consapevolezza. È necessario riappropriarsi degli spazi di confronto e decisione prima che questi si chiudano definitivamente, che le porte si serrino e che la democrazia diventi un ricordo sbiadito di ciò che era un tempo. Partecipare non è solo un diritto, è un dovere civile e morale, l’ultimo baluardo contro la deriva autoritaria e l’indifferenza. Solo attraverso un rinnovato impegno collettivo potremo fermare questa erosione, restituendo alla democrazia la sua sostanza, la sua forza e la sua speranza di futuro.