Frigidaire non fu una rivista, come non fu una pubblicazione né un semplice oggetto di consumo culturale. Chi insiste nel chiamarla “rivista” non ha capito. O mente. Era un varco, un’apertura. Una ferita editoriale lasciata volutamente aperta in un corpo — quello della cultura italiana — che da tempo si era anestetizzato sotto il peso della retorica, della borghesia culturale, del PCI come habitat mentale, dell’intellettuale impegnato e delle sue cene tristi. Frigidaire era la scarica elettrica che rianima il cadavere, ma che ti lascia ustioni di secondo grado sul petto. Nessun altro oggetto editoriale ha mai preteso di entrare nel lettore con una tale brutalità erotica, e poi restarci come una protesi mentale.
L’epoca che la generò era un’arena. Un paese avvolto nella plastica, nel piombo, nella pornografia rimossa, nella TV che cercava di diventare mamma e carnefice nello stesso tempo. Ma era anche un paese di figli randagi, figli ribelli, figli infelici. Ecco cosa fu Frigidaire: un’urgenza di paternità alternativa, di madri simboliche nuove. Non più le riviste patinate, non più la sinistra dei buoni sentimenti, non più il Sessantotto trasformato in souvenir. Volevano una madre con la frusta e il rossetto sbavato, un padre in minigonna, un fratello tossico che disegnava Dio come una scimmia sgozzata.
Ogni numero di Frigidaire era un’alba e un’implosione. Usciva e ridefiniva il tempo, ridefiniva l’essere lettore. Perché tu non leggevi davvero. Tu partecipavi. Tu venivi inglobato, sputato, risucchiato, disintegrato. E poi — solo poi — potevi dire di aver capito. Era un'esperienza sinestetica. Le parole puzzavano. Le immagini facevano rumore. Le pagine erano tatuaggi. Gli inserti si comportavano come droghe lente: entravano nel cervello e si aprivano settimane dopo, mentre eri sotto la doccia, o mentre facevi sesso con qualcuno che non ti piaceva più.
Lo spirito che animava i suoi autori era quello del sabotatore affamato, del partigiano grafico, dell’attore porno concettuale. Gente che sapeva che il sistema non si abbatte con le teorie, ma con le storie — e con il corpo. Pazienza, con la sua dolcezza da animale ferito e la sua furia da mistico trash, ne fu il profeta suicida. Tamburini, con il suo genio isterico e il suo desiderio di decomporre ogni linguaggio borghese, fu il sacerdote. Mattioli era il dandy anarchico, Liberatore il Michelangelo coatto. Scòzzari era il pugno nel viso: lurido, delirante, geniale, indecente. E Sparagna — Sparagna era il demiurgo. Il curatore di un culto che non aveva bisogno di santi, ma solo di stregoni. Aveva capito tutto: che l’arte non serve, se non graffia. Che la grafica deve essere tossica. Che la scrittura deve essere tossica. Che tutto, in una rivista, dev’essere tossico.
E non si trattava solo di fumetti. Certo, i fumetti erano l’aspetto più clamoroso, più iconico, più immediatamente riconoscibile. Ma Frigidaire era anche testo puro. Era saggistica che si fingeva delirio. Era giornalismo inventato, o troppo vero per essere accettato. Era il luogo in cui si poteva finalmente dire: “io penso che Cristo fosse un punk e Marx un poeta arrapato”. E lo si diceva seriamente, ma senza mai diventare saccenti. Era filosofia del cesso, teologia del graffito, politica delle mutande. Era realismo sociopatico. Era il sogno di un linguaggio altra-cosa, dove non si doveva chiedere il permesso, dove si poteva ancora creare senza mediazioni.
Il lettore ideale di Frigidaire non era un lettore. Era un corpo che bramava essere corrotto. Non cercava conforto, né informazioni. Cercava un’altra possibilità. Cercava — nel fondo — una liberazione. E trovava, tra le righe, tra i disegni, una visione. Una visione in cui la bellezza non era mai bella, in cui la verità non era mai vera, in cui la satira diventava quasi pornografia teologica, in cui il linguaggio era un campo di battaglia e il corpo un oggetto sacro, sfigurato, mitizzato.
Zanardi, Ranxerox, Pompeo: questi personaggi sono diventati più reali di noi. Perché erano più onesti. Perché non fingevano. Perché in un mondo dove tutti giocavano a fare i bravi ragazzi con la maglietta del Che, loro ci dicevano che il Che, se fosse vissuto, avrebbe fatto il deejay a Caracas. Frigidaire ci insegnò il culto dell’osceno che dice la verità, dell’eccesso che smaschera la misura, dell’abisso come unica via per comprendere davvero il cielo.
La redazione stessa era un’opera. Una performance continua. Si racconta che fosse un misto tra un dormitorio, un laboratorio di alchimia pop, un postribolo intellettuale e una casa occupata da fantasmi. Nessuno scriveva con ordine. Nessuno consegnava in tempo. Nessuno lavorava per soldi. L’unica regola era: “Non siate mai normali”. E quella regola la rispettavano. A costo di morire. A costo di bruciare. E infatti qualcuno morì. Qualcuno bruciò. E noi, nel silenzio, lo sapevamo. Eppure, in quel gesto di combustione creativa, c’era un senso di libertà assoluta. Di purezza.
Perché oggi Frigidaire non è solo un ricordo. È un’assenza che si sente forte, ovunque. Ogni volta che sfogli un magazine trendy e senti che non ti dice niente. Ogni volta che apri una rivista di fumetti e vedi che è tutta carina, tutta stampata bene, tutta rassicurante. Ogni volta che un disegnatore dice che bisogna piacere al pubblico. Ogni volta che un articolo su un artista parla solo del curriculum. Ogni volta che tutto è troppo “giusto”. Troppo corretto. Troppo pulito. Ecco, ogni volta che senti tutto questo — sai che Frigidaire non c’è più. E ti manca.
Ma poi, se hai il coraggio di cercare tra gli scaffali polverosi, tra le bancarelle dei collezionisti, tra i ricordi di una generazione dispersa, la trovi ancora. E aprirla è come sniffare l’anima di un tempo perduto. È come guardare in faccia il demone del talento. È come fare l’amore con un’idea che non ti chiede scuse, che non ti dà tempo, che ti consuma — e ti ama.
Era una rivista? No.
Era un grido.
Un orgasmo mentale.
Una bestemmia amorosa.
Un monumento all’inadeguatezza.
Una finestra aperta nel punto sbagliato della casa.
Un gioco proibito che però dovevi giocare.
Un testamento, scritto da vivi per i morti.
Un’eredità che ancora oggi non siamo degni di raccogliere.
E allora resta lì, muta e feroce. Pronta a esplodere di nuovo.
Nel momento in cui qualcuno, da qualche parte, avrà di nuovo il coraggio di dire:
«Non voglio piacere. Voglio vivere.»