domenica 1 giugno 2025

Monica Vitti, il corpo moderno del dubbio. Al Lincoln Center una retrospettiva che ne ricompone la figura eversiva

«La Modernista» non è un titolo decorativo, ma una dichiarazione d’intenti. E non a caso approda a New York, nella città che ha sempre amato le donne irregolari.

Dal 6 al 19 giugno, il Film at Lincoln Center dedica a Monica Vitti una retrospettiva monografica, in collaborazione con Cinecittà. Una rassegna che prova — tardivamente, ma con decisione — a restituire all’attrice romana il suo posto nel pantheon delle immagini irrisolte, delle figure che hanno interrogato la modernità invece di accettarla. Non la “musa di Antonioni”, né la bionda svampita della commedia italiana, ma il corpo pensante che ha scardinato — senza proclami — l’ordine simbolico del desiderio, del linguaggio, del genere.

Monica Vitti è stata un dispositivo critico. E il cinema che ha attraversato, da L’Avventura a Dramma della gelosia, da La ragazza con la pistola a Flirt, lo ha capito fino a un certo punto. Il pubblico americano degli anni Sessanta la ricevette come icona art house, associata all’alienazione europea, ai silenzi di Antonioni e alle architetture dell’incomunicabilità. Ma dietro quella recitazione sospesa, quelle frasi mozzate, c’era molto di più: una donna che non aveva bisogno di chiedere il permesso per esistere, e che sullo schermo praticava l’ambiguità come atto di resistenza.

La rassegna newyorkese — intitolata appunto Monica Vitti: La Modernista — include le opere fondamentali del sodalizio con Antonioni (L’Eclisse, Deserto rosso), ma si spinge anche oltre, verso la Vitti comica, nervosa, imprevedibile. La Vitti che, con Monicelli e Scola, smonta il cliché della donna isterica per farne una figura esplosiva, capace di sabotare le liturgie del maschio italiano in crisi. In Polvere di stelle si prende beffe della nostalgia, in Teresa la ladra ruba la scena e l’identità, in L’anatra all’arancia gestisce il desiderio come una questione di autocoscienza borghese.

È un bene che oggi — in una Manhattan sempre più gentrificata — la sua voce roca torni a farsi sentire. Ma è anche il segno che il cinema italiano, quello vero, quello che sapeva mettere in discussione le proprie icone, oggi è materia da retrospettiva. Vitti è scomparsa da tre anni, dopo un lungo silenzio. Ma l’industria l’aveva silenziata molto prima, incapace di starle dietro, di scriverle ruoli, di sopportare la sua libertà.

E allora questa retrospettiva serve, sì, a celebrare, ma anche a far memoria della rimozione. Monica Vitti è stata cancellata dal canone perché non funziona come simbolo semplice: è troppo complessa per fare da santino, troppo intelligente per farsi ridurre a femminilità iconica. È stata il volto di una possibilità: che una donna potesse essere protagonista senza farsi oggetto. Che potesse ridere senza piacere. Che potesse sparire, come ne L’Avventura, lasciando solo il suo enigma.

A New York, la sua immagine torna sui manifesti, nei foyer, nei programmi stampati su carta spessa. Ma la lezione che porta con sé non è finita, né archiviabile. Monica Vitti, modernista vera, ci riguarda ancora. E più di quanto crediamo.