domenica 8 giugno 2025

SULLA NATURA DEL PRIVILEGIO

C’è un pensiero che mi visita da anni, discreto come certe verità che si apprendono non con l’intelligenza, ma con la durata. È il pensiero che il privilegio, ogni privilegio, corrompa. E che lo faccia non per accidente, ma per necessità. Una necessità che non nasce dal male, ma dalla forma stessa del privilegio.

Non si tratta, sia chiaro, di una colpa individuale. Nessuno sceglie dove nascere. E la nascita, in molte parti del mondo, decide tutto. Ma vi è differenza tra ciò che accade e ciò che siamo disposti a riconoscere. Il privilegio, quando non è pensato, pensato a fondo, si trasforma in abitudine. E l’abitudine è il primo grado della cecità.

Chi possiede privilegi vive — anche senza volerlo — in un regime di eccezione. Le sue parole sono più ascoltate, i suoi errori più perdonati, le sue assenze più giustificate. Non lo sa, o meglio: lo sa nel modo in cui si sanno le cose che non si vogliono davvero sapere. Perché sapere, veramente sapere, è sempre doloroso. E il privilegio protegge anche da quel dolore.

Siamo abituati a pensare che l’intelligenza e la morale siano strumenti di discernimento, ma non ci domandiamo mai da dove traggano la loro linfa. L’intelligenza che non si misura con il rischio, con la perdita, con la possibilità del fallimento reale — è ancora intelligenza o è solo riflesso ben addestrato? E la morale che nasce senza conflitto, senza la frizione della scelta, è ancora etica o solo comportamento appreso?

Spesso chi detiene un privilegio crede di poterne fare buon uso, di poterlo mettere al servizio degli altri. Ma può il potere farsi davvero neutro? Può il vantaggio non generare asimmetria? Ogni gesto che parte da una posizione dominante — anche il più nobile — contiene in sé una distanza. E dove c’è distanza, c’è gerarchia. Anche se non la si nomina.

Platone ci insegna a diffidare delle apparenze, ma chi ha privilegi vive in un mondo di apparenze benedette. Belle case, belle scuole, belle amicizie. E la bellezza, se non è scalfita, se non è attraversata da domande scomode, diventa velo. Ciò che è comodo non è mai del tutto vero. Perché la verità è ruvida. E non fa sconti.

Chi è privilegiato può scegliere se occuparsi del dolore altrui. Chi non lo è, non ha scelta: o lo affronta o soccombe. Questo è il primo discrimine. Il privilegio non consiste tanto nell’avere di più, ma nel poter voltare lo sguardo. Nel potersi dire: non è il mio problema. E nel non pagare conseguenze per questo gesto.

La corruzione a cui penso non è una degenerazione morale spettacolare. È più sottile. È una smemoratezza. Un modo di pensarsi fuori dalla storia. Di credere che le proprie idee siano frutto di razionalità, quando invece sono figlie di una posizione comoda, mai veramente sfidata. Il privilegio rende incapaci di pensare l’altro. Non per malizia, ma per mancanza d’urto.

E tuttavia, c’è una via. Non di redenzione — che è parola troppo grande e troppo cristiana — ma di onestà. Ed è il pensiero continuo. Il sospetto verso se stessi. Il non dare per scontata la propria centralità. Il chiedersi, in ogni gesto, da dove si parla, per chi si parla, cosa si rischia.

Non si tratta di odiare il privilegio. Né di rinnegarlo, se lo si possiede. Ma di conoscerlo. Di studiarlo. Di disarticolarlo. Di sapere che esiste una forma di sapere che nasce solo nell’assenza, nella marginalità, nell’inadeguatezza. E che quel sapere, spesso, è più vicino alla verità di quanto non lo siano tutte le parole dei ben sistemati.

Forse non esistono uomini interamente corrotti dal privilegio. Ma è certo che nessun uomo ne esce intatto. Nessuno. Il privilegio si insinua nella voce, nei gesti, nel ritmo con cui si cammina, persino nei silenzi. È un’aria che si respira fin da bambini. E che non si espelle mai del tutto. Ma se non altro, si può imparare a riconoscerla. A non far finta che non esista.

Perché la vera filosofia non si domanda solo cosa sia il bene, o il giusto. Si chiede chi può permettersi di porsi la domanda. E chi no.