martedì 17 giugno 2025

Francesca Comencini e Greta Scarano ai Nastri d’Argento 2025: genealogie affettive e nuovi paradigmi del cinema italiano

L’edizione 2025 dei Nastri d’Argento ha consacrato due film profondamente diversi ma convergenti nella loro urgenza etica e affettiva: Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini e La vita da grandi di Greta Scarano. Non si tratta semplicemente di un riconoscimento a due registe donne, ma del segno di una mutazione profonda nel tessuto narrativo e simbolico del cinema italiano. Entrambe le opere si muovono nell’ambito di una scrittura intima e autobiografica, in cui l’io narrante non è mai chiuso in sé ma sempre esposto alla vulnerabilità, alla storicità e alla relazione. Come ha scritto Lucia Cardone in un recente intervento sulla trasformazione della narrazione familiare al femminile, “l’autobiografia filmica al femminile non è mai un esercizio di autoaffermazione, ma piuttosto un gesto di attraversamento, di mediazione con l’altro, spesso l’altro familiare, padre o fratello, da cui si origina e da cui ci si separa” (Cinema e genealogie, 2023).

In Il tempo che ci vuole, Francesca Comencini affronta con lucidità e partecipazione una materia incandescente: la propria giovinezza tossicodipendente, il rapporto con un padre ingombrante – trasparente alter ego del celebre regista Luigi Comencini – e la lenta costruzione di una propria soggettività. Il film, elogiato da Enrico Magrelli come “una delle più alte riflessioni sul potere del tempo come montaggio affettivo e linguistico che il cinema italiano recente abbia prodotto” (Cinecritica, n. 287), si sviluppa in una forma composita, dove i ricordi si intrecciano ai film del padre, ai film di famiglia, e infine al presente della narrazione. Lo spettatore si muove così in una geografia fluida della memoria, in cui i luoghi, le voci e i gesti ritornano come fantasmi a interrogare il soggetto narrante.

Il lavoro degli attori è di una misura rara: Fabrizio Gifuni, nella parte del padre, non interpreta tanto un personaggio quanto una postura dell’autorità paterna disillusa, segnata, eppure affettuosa. Come ha notato Marianna Cappi, “Gifuni non costruisce un monumento al padre, ma una figura archetipica di maschile affettivo e spiazzato, che è al tempo stesso presenza e assenza, corpo e fantasma” (Mymovies, marzo 2025). Di fronte a lui, Romana Maggiora Vergano regala una prova di sorprendente tenuta espressiva: la sua Francesca adolescente è attraversata da una fragilità percettiva che si fa carne, sguardo basso, voce tremante, ma mai vittima. La sua parabola è quella di un’autodeterminazione che passa per la caduta e il silenzio, prima di trovare la parola.

Greta Scarano, con La vita da grandi, esordisce alla regia scegliendo una strada altrettanto rischiosa: raccontare la storia vera del proprio fratello autistico senza cedere all’aneddotica né alla retorica. Il film, interpretato da Yuri Tuci – giovane attore realmente neurodivergente – è una luminosa eccezione nel panorama italiano, dove la rappresentazione della disabilità è spesso ancora filtrata dallo sguardo normativo e paternalista. Come ha scritto Ilaria Feole: “Scarano compie un atto di fiducia doppio: verso lo spettatore, cui chiede di ascoltare senza pregiudizi, e verso l’attore, cui non chiede di ‘simulare’ ma di essere, di esistere” (FilmTV, aprile 2025). Il risultato è un film che non tematizza l’autismo, ma lo vive come parte del respiro stesso della narrazione.

La struttura episodica del film – una successione di momenti familiari, piccole crisi, ricordi condivisi – è costruita secondo un ritmo che ricorda il cinema di Kore’eda, più che il melodramma familiare all’italiana. Come ha sottolineato Roy Menarini in un commento apparso su Doppiozero: “La tenerezza del film nasce dalla sua adesione al tempo reale dell’emozione, senza mai ‘spiegare’ troppo, senza imporre cornici di senso: è un film che accompagna, che non guida” (Doppiozero, maggio 2025). Il montaggio è discreto, quasi trasparente, e permette alla vita di scorrere con la sua logica imperfetta, fatta di inciampi, risate, ritardi, carezze improvvise.

Un tratto che accomuna i due film è la qualità della luce: in Comencini, la Roma degli anni Settanta è restituita attraverso una fotografia granulosa e calda, che richiama il Super 8 ma anche la materia dei sogni; in Scarano, la luce domestica è morbida, diffusa, spesso naturale, quasi a suggerire che nulla sia mai messo in scena, ma che tutto accada in un qui e ora che lo spettatore può abitare. A questo proposito, Adriano Aprà ha osservato: “Entrambi i film rinunciano alla spettacolarità per una politica dell’intimità, dove l’inquadratura non è un’arma, ma un abbraccio” (Sentieri Selvaggi, giugno 2025).

Ciò che rende particolarmente rilevante la doppia premiazione ai Nastri d’Argento è la loro capacità di ridefinire il campo del “cinema personale” al di fuori delle categorie di genere o di minoranza. Il tempo che ci vuole e La vita da grandi non sono film “femminili” o “inclusivi” per adesione a un’agenda: lo sono perché mettono in scena, con precisione formale e rigore poetico, il diritto a raccontare da dentro la propria esistenza, con uno sguardo che non è mai totalizzante, ma interrogante. Entrambi i film si oppongono a ogni tentazione pedagogica: non vogliono insegnare, ma condividere. In questo, si inseriscono in una linea che comprende il miglior cinema di Alice Rohrwacher, di Valeria Golino, ma anche – per assonanze tematiche – di Nanni Moretti, sebbene senza il suo egotismo narcisistico.

La ricezione critica è stata ampia e sostanzialmente unanime, ma ciò che più colpisce è come questi film siano stati assunti anche dal pubblico come dispositivi di ascolto. La risposta emotiva, secondo quanto riportato da diverse testate, è stata “trasversale, generazionale, priva di cinismo” (Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, maggio 2025). Questo indica che un certo cinema italiano, se sa parlare dal cuore senza perdere la testa, può ancora produrre senso, dialogo, cambiamento.

In conclusione, i film di Comencini e Scarano ci invitano a ripensare il rapporto tra autobiografia e rappresentazione, tra affetto e struttura, tra etica e stile. Sono film che costruiscono genealogie nuove: Francesca interroga la figura paterna come nodo originario e da sciogliere; Greta riscrive il rapporto tra sorella e fratello come atto di cura e complicità. Entrambe si muovono contro la corrente, evitando l’epica, il cinismo, il trauma spettacolare. Offrono invece un tempo lungo, feriale, meditativo, dove il cinema torna a essere non solo un linguaggio, ma una forma di vita. In un paese dove la memoria si consuma in fretta e l’autonarrazione rischia spesso di chiudersi nel compiacimento, i loro film aprono uno spazio altro: intimo, politico, e necessario.