Era un geografo della carne, un geologo dello sguardo. Fotografava uomini e donne ridotti a larve dal lavoro coatto e dal colonialismo, ma li restituiva alla dignità della luce. Non ha mai cercato il sensazionalismo: cercava l’essenziale, e lì trovava il sacro. Il suo obiettivo tremava come tremano le mani di chi ama troppo.
Non voleva pietà, voleva memoria. Non cercava la spettacolarità, ma la giustizia. E anche quando immortalava i ghiacciai dell’Antartide o gli stormi impazziti sopra l’Amazzonia, sembrava sempre parlare di noi, piccoli e devastanti abitanti di un mondo che non meritiamo.
Era brasiliano, sì, ma apparteneva al mondo. E il mondo oggi è un po' più cieco.
Addio, Salgado. Continueremo a guardare le tue fotografie come si guarda un vecchio amico che sa troppo e non dice mai tutto. Le tue immagini ci sopravvivranno, perché sono fatte della stessa materia dei sogni. Ma sogni che non possiamo più permetterci di ignorare.