domenica 11 maggio 2025

Sul desiderio di disvelamento in Merda d’artista

Tutto comincia nel momento in cui ci si arresta. Non davanti a un capolavoro, non al cospetto di una tela monumentale o di una scultura marmorea, ma di fronte a un cilindro metallico, opaco, perfettamente comune. Nulla, a prima vista, distingue quella scatoletta da ciò che si potrebbe trovare su uno scaffale di conserve. Eppure, nel tempo che serve allo sguardo per leggere le parole stampate in dodici lingue — “Merda d’artista. Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961.” — qualcosa cambia. L’opera ci sposta. Ci deforma. Non con la forza del bello, ma con l’urgenza dell’enigma.

Non ci troviamo più nel territorio della visione, ma in quello del gesto mancato. Il barattolo non contiene un’opera: è l’opera. Ma proprio perché si dichiara completo, sigillato, compiuto, genera un conflitto profondo. Chi guarda resta invischiato in una tensione che non si risolve. Non è un oggetto da fruire, ma una trappola ontologica. È arte che si sottrae, che si nega, che ci interroga senza offrirci alcuna risposta.

Manzoni non ironizza, non gioca. Formalmente, la scatoletta è pulita, industriale, fredda. Eppure dentro — o almeno così si dichiara — si nasconde qualcosa di irriducibile: il corpo. Più precisamente, il corpo espulso. L’idea stessa di contenere “merda” — parola oscena solo in apparenza — frantuma ogni retorica artistica. Non c’è allegoria, non c’è simbolo. Solo l’ipotesi, terribile, di un reale inattingibile.

Non sapere. Questo è il punto della questione. Il barattolo non si apre. Non deve essere aperto. Ma proprio per questo ci costringe a volerlo fare. Ogni volta che lo si guarda, nasce una tensione viscerale: il desiderio di rompere il sigillo, di infrangere l’interdetto. Ma il divieto è assoluto. Toccarla sarebbe sacrilegio, o forse esegesi. Chi può dirlo? Il fatto è che non possiamo. E nel non poterlo, restiamo spettatori incompiuti.

Molti hanno detto: è una provocazione. Ma la provocazione è effimera, vive dell’istante. Qui invece siamo in presenza di qualcosa che sfida il tempo, che si rinnova a ogni sguardo. La Merda d’artista non è una battuta, non è una barzelletta dadaista. È una reliquia moderna, un oggetto rituale. O forse, più radicalmente, è un’ostensione. Ma non del corpo santo: del corpo espulso, scartato, negato. E in questo gesto c’è tutta la violenza dell’arte vera.

Il collezionista che conserva la scatoletta intatta non è innocente. È un sacerdote di un culto che si fonda sulla rimozione. Fa del contenitore una reliquia, un oggetto sacro che non si tocca. Eppure sa, in fondo, che quel gesto di custodia è anche una forma di censura. L’arte chiede di essere vissuta, attraversata, compiuta. E il compimento qui — crudele, inevitabile — sarebbe l’apertura.

Ma l’apertura distruggerebbe l’opera? O la realizzerebbe? È questo il paradosso che Manzoni costruisce. Non sappiamo cosa c’è dentro. Ma proprio per questo, dentro c’è tutto. Il barattolo è un campo di tensione: tra gesto e potenziale, tra verità e simulacro, tra sacro e profano.

Nessuna scatoletta è uguale all’altra, anche se lo sembra. Ogni singolo barattolo — novanta in tutto — è un’esca lanciata nella storia. Ogni pezzo è identico nella forma, ma differente nella ricezione. Alcuni sono stati esposti nei musei, altri sono passati di mano in asta, altri ancora sono nascosti, silenziosi, in collezioni private. Tutti però portano la stessa domanda inchiodata sulla latta: mi aprirai?

C'è chi ha parlato di Manzoni come di un continuatore di Duchamp. Ma la parentela è solo apparente. Duchamp gioca con l’oggetto, lo scardina semanticamente. Manzoni, invece, costruisce un enigma ontologico. Il suo gesto non è una firma provocatoria, è un atto che interroga la possibilità stessa dell’arte. Non si limita a dire: qualunque cosa io firmi è arte. Piuttosto suggerisce: se io sigillo qualcosa e lo dichiaro arte, cosa ne sarà della tua libertà di sapere?

La forza dell’opera sta tutta in questa sospensione. È come se l’artista si ritirasse nel momento stesso della creazione, lasciando allo spettatore la responsabilità di completare — o distruggere — l’opera. In questo senso, la Merda d’artista non è un oggetto, ma un campo di possibilità. Un buco nero semantico che inghiotte ogni tentativo di catalogazione.

Il corpo dell’artista, qui, non è solo alluso. È l’unico vero materiale. Ma non nella forma nobile dell’autoritratto, né nella sofferenza mitizzata dell’artista maledetto. È corpo che defeca. Che espelle. Che produce un rifiuto. E che fa di quel rifiuto il centro della propria poetica. Manzoni non vuole sublimare nulla. Non cerca la bellezza. Cerca il punto in cui l’arte collassa su se stessa. E in quel collasso, trova la sua verità.

Ogni opera precedente — le Linee invisibili, i Corpi d’aria, le Uova, il Fiato — prelude a questa. Tutte pongono la stessa questione: che cosa resta dell’arte, se la si priva della materia, della visione, della permanenza? Che cosa resta, se l’opera è solo il segno di un’assenza? La risposta, in Merda d’artista, è brutale: resta il corpo. Ma nella sua forma più indecente, più irrappresentabile.

E allora chi oggi desidera aprire la scatoletta non è un provocatore, né un folle. È un esegeta. Un interprete. Qualcuno che ha compreso che l’opera vive solo nel momento in cui viene attraversata. Ma quel momento è impossibile. E per questo, eterno.

Il barattolo chiuso è una domanda che non si spegne. Una soglia che nessuno ha il diritto — o il coraggio — di oltrepassare. Ma proprio per questo, Merda d’artista è un’opera totale. Non si limita a rappresentare: ci convoca. Non si offre: ci sfida. E nel rifiuto di mostrarsi, ci costringe a guardare dentro di noi. A interrogarci su cosa siamo disposti a fare per sapere. Per vedere. Per capire.

Forse un giorno qualcuno romperà quel sigillo. Forse lo farà in segreto. O forse in pubblico, davanti a telecamere e testimoni. E allora l’opera morirà — o nascerà davvero. In ogni caso, quel gesto sarà irrimediabile. E dirà, finalmente, che l’arte non è né dentro né fuori. Ma nel gesto che decide, una volta per tutte, di aprire.

E se non accadrà mai, allora continueremo a restare qui. In ascolto. A sentire quel barattolo che non parla, ma sussurra. Che non mostra nulla, ma ci guarda. Che ci dice, sempre, ostinato, irriducibile:

Tu sai che io sono qui. Ma non saprai mai chi sono.


L’aura impura. Fortuna critica, museale e collezionistica di “Merda d’artista” di Piero Manzoni

Merda d’artista, creata da Piero Manzoni nel 1961, si staglia come una delle opere più audaci, enigmatiche e destabilizzanti della seconda metà del Novecento. Si compone di novanta barattoli di latta sigillati, ciascuno recante l’etichetta tipografica, sobria e funzionale, che recita: "Merda d’artista. Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale. Prodotta e inscatolata nel maggio 1961." Redatta in quattro lingue (italiano, inglese, francese e tedesco), questa formula ne afferma la portata internazionale, già nel suo tempo.

La genesi di quest’opera coincide con un momento di crisi delle categorie tradizionali dell’arte: la figurazione, l’oggetto, la firma, l’opera come manufatto unico e sacro. Merda d’artista si pone come una dichiarazione poetico-filosofica, ma anche come un gesto ironico e beffardo, nei confronti del feticismo mercantile che stava già allora cannibalizzando l’arte contemporanea, trasformando l’artista in un produttore di “valori” e l’opera in un oggetto finanziario.

Manzoni, con radicale lucidità, concepisce la provocazione assoluta: l’elevazione degli escrementi dell’autore a opera d’arte. Non è più la mano dell’artista a produrre un capolavoro, ma è il corpo stesso dell’artista, nella sua funzione fisiologica più bassa e più privata, a diventare fonte di valore. In un paradosso concettuale che rovescia Duchamp: non è l’oggetto banale che diventa arte per effetto della firma, ma è la materia di scarto, privata e invisibile, che si trasfigura in opera perché contenuta e numerata come reliquia.

Ad oggi, numerosi esemplari originali di Merda d’artista sono conservati in musei prestigiosi, come reliquie di una nuova iconoclastia. 

Queste presenze museali non sono neutre: ogni acquisizione da parte di un’istituzione pubblica comporta una presa di posizione ideologica e culturale, un riconoscimento implicito del valore non solo estetico ma anche teorico e storico dell’opera. Inserire Merda d’artista in un museo significa, paradossalmente, canonizzarne il contenuto profano, istituzionalizzare il dissenso.

Dal punto di vista economico, l’opera ha conosciuto un’impennata spettacolare. Nel 2007, un esemplare fu battuto da Sotheby’s per 124.000 euro. Ma il record arriva nel 2016, quando il barattolo n. 69 viene venduto da Christie’s per 275.000 euro: quasi 10.000 euro al grammo, un valore superiore a quello dell’oro e del platino. Ironia perfetta: gli escrementi dell’artista diventano più preziosi delle gemme.

Questo fenomeno pone interrogativi profondi su cosa sia oggi il “valore”: se esso risieda nel contenuto, nella firma, nella narrazione, o in un rituale finanziario che trasforma qualsiasi cosa – anche la materia più umile – in capitale simbolico. Merda d’artista viene comprata, assicurata, custodita, trasportata, ma nessuno può confermare né smentire cosa contenga realmente. In questo senso, ogni barattolo è anche una trappola epistemica, un oggetto chiuso, opaco, impenetrabile – come il mercato stesso.

Le problematiche legate alla conservazione sono parte integrante dell’opera. I barattoli sono sigillati, ma soggetti a corrosione interna. Nel 1994, uno di essi, in prestito a un museo danese, si ruppe a causa della pressione interna, provocando una perdita liquida. Seguirono controversie legali e perizie; ma il contenuto, lungi dall’essere chiarito, accresceva il mistero.

Nel 1989 l’artista francese Bernard Bazile aprì pubblicamente un barattolo (che si rivelò uno dei prototipi, quindi non parte delle 90 unità originali), trovandovi una seconda scatoletta più piccola. Si ipotizzò la presenza di gesso, argilla o altro materiale inerte. Altri racconti – mai verificabili – parlano di marmellata d’arancia o di cemento. Ma questa ambiguità è il fulcro semantico dell’opera: il contenuto è oggetto di fede, come una reliquia cristiana. Si crede perché non si può sapere.

Persino il gesto di aprire la scatola costituisce un atto sacrilego, come se si violasse la tomba dell’artista. È una materia che esiste solo nella distanza, nell’ipotesi, nella sospensione del giudizio.

Sul piano critico, Merda d’artista è stata oggetto di letture interdisciplinari: dalla semiotica alla psicanalisi, dalla critica marxista alla teologia negativa. Alcuni vi hanno letto una metafora dell’alienazione dell’artista, costretto a produrre valore dal proprio stesso corpo; altri una riflessione sul consumismo e sull’ipocrisia del gusto borghese. Georges Didi-Huberman ha osservato come Merda d’artista metta in scena la “produzione simbolica dell’abietto”, anticipando le poetiche del rifiuto proprie dell’arte degli anni Ottanta e Novanta.

In chiave freudiana, la scatoletta può essere interpretata come una materializzazione della pulsione anale, fase in cui il bambino scopre il potere di controllo e di dono attraverso l’evacuazione. Offrire la propria merda, incartata con rigore formale, è un atto di rivalsa infantile ma potentemente concettuale: l’artista si sottrae al sistema producendo il suo stesso rifiuto come opera suprema.

A oltre sessant’anni dalla sua realizzazione, Merda d’artista resta un punto di riferimento essenziale per comprendere le derive, le tensioni e le utopie dell’arte contemporanea. È un’opera che rifiuta la bellezza, la tecnica, il sublime, ma che esige venerazione. La sua ironia è tagliente ma serissima. Nessuna opera meglio di questa ha incarnato il momento in cui l’arte ha scelto di abbandonare l’oggetto per diventare gesto, atto, paradosso, domanda.

È un’opera che interroga lo spettatore, lo mette a disagio, lo costringe a pensare. È una provocazione senza tempo, ma anche una meditazione sull’essere umano e sulle sue secrezioni, fisiche e simboliche. L’artista, qui, non è più demiurgo ma corporeità intransitiva, presenza che non crea ma espelle, e nella sua espulsione, genera una nuova forma di sacro.