Tra i precetti basilari che dominano l’insegnamento cinematografico, soprattutto nei corsi di recitazione e regia, ve n’è uno che risuona con insistenza quasi liturgica: l’attore non deve mai guardare direttamente nell’obiettivo. Si tratta di una norma trasmessa con il tono di una verità dogmatica, raramente messa in discussione. Guardare in macchina significherebbe rompere l’incanto della rappresentazione, interrompere il flusso diegetico del racconto, infrangere la “quarta parete” e con essa il patto invisibile che lega spettatore e narrazione. Eppure, una riflessione più attenta su questo divieto svela non solo la sua parzialità, ma anche la sua natura ideologica.
L’interdizione dello sguardo in camera deriva da un’idea del cinema come finestra neutra sul mondo, una “trasparenza” mutuata dalla pittura rinascimentale e cristallizzata nella grammatica del cinema classico hollywoodiano. In tale concezione, lo spettatore deve osservare la scena come se fosse invisibile, un voyeur impunito che assiste senza conseguenze al dispiegarsi di un’altra realtà. L’obiettivo della macchina da presa, in questa logica, funziona come un occhio disincarnato, non situato, che non appartiene a nessuno e perciò non guarda, né può essere guardato.
Ma la realtà dell’esperienza umana contraddice questa premessa: nella vita quotidiana lo sguardo è tutto fuorché neutro. Guardiamo e siamo guardati. Lo sguardo costruisce relazioni, genera conflitti, fonda la reciprocità. Evitare lo sguardo dell’altro può essere un atto di pudore, ma più spesso è un gesto di esclusione o di negazione. Lo sguardo, al contrario, istituisce un legame: riconosce, interpella, coinvolge.
Nel cinema, il gesto di guardare in macchina — ben lontano dall’essere una violazione del linguaggio — rappresenta uno dei suoi momenti di maggiore intensità espressiva. È lo sguardo che rompe il regime della finzione solo per instaurarne uno nuovo, più consapevole. Il cinema moderno ha fatto dello sguardo in macchina un dispositivo critico e poetico. A partire da Jean-Luc Godard, che in Vivre sa vie (1962) permette ad Anna Karina di guardare dritto nell’obiettivo mentre riflette sulla propria condizione esistenziale, lo sguardo in camera si emancipa dal ruolo di incidente e diventa dichiarazione di poetica. La scena, lungi dal compromettere la “credibilità” del racconto, la intensifica. Lo spettatore si scopre improvvisamente visibile, chiamato in causa, reso co-protagonista di un’epifania.
Questo gesto ritorna, con vari gradi di consapevolezza, in autori come Agnès Varda, Michael Haneke, Chantal Akerman, i fratelli Dardenne, Abbas Kiarostami. In Caché (2005), Haneke mette lo spettatore in una posizione di colpevolezza implicita, costringendolo a interrogarsi sul proprio ruolo di osservatore. Lo sguardo in macchina non è una semplice rottura della finzione: è un atto etico, un meccanismo di responsabilizzazione. Lo stesso può dirsi per Rosetta (1999) o L’enfant (2005), in cui lo sguardo instabile e prossimo dei Dardenne suggerisce una presenza che non è mai completamente esterna. Il loro cinema non ci guarda per caso; ci guarda per scelta.
In ambito extra-europeo, basti pensare al cinema di Tsai Ming-liang, dove lo sguardo in macchina assume una valenza ipnotica e metafisica. Oppure al lavoro di Abbas Kiarostami, che nel finale di Close-Up (1990) dissolve i confini tra autore, attore e spettatore, lasciando che lo sguardo reciproco diventi l’atto di nascita del film stesso.
È necessario notare come la reticenza nei confronti dello sguardo in camera sia legata a una concezione del cinema come illusione protetta, un teatro dell’irrealtà che deve “dimenticarsi” della presenza dello spettatore. Ma l’arte, da almeno un secolo, si muove in tutt’altra direzione. Il teatro brechtiano ha già smascherato la funzione ideologica della finzione “realista”, introducendo la distanza critica come strumento di consapevolezza politica. Allo stesso modo, la videoarte ha fatto dello sguardo frontale uno dei suoi codici fondamentali, ponendo lo spettatore in una relazione esplicita e spesso scomoda con il soggetto rappresentato.
In ambito performativo, lo sguardo diretto non è un incidente da evitare ma un vettore di potere. Si pensi a Marina Abramović e alla forza disarmante dei suoi confronti oculari, come in The Artist Is Present. Il pubblico non può più nascondersi dietro lo schermo: è parte dell’opera, esposto, vulnerabile.
In definitiva, il divieto accademico del “non guardare in macchina” non è tanto una norma tecnica quanto una scelta culturale. Esso presuppone uno spettatore passivo, da proteggere dal coinvolgimento, da mantenere nella distanza. Ma il cinema più vivo e più inquieto si produce proprio nel momento in cui quello sguardo viene restituito. L’obiettivo non è più una soglia da non oltrepassare, ma un punto d’incontro. Guardare in camera significa riconoscere che il cinema è fatto di relazioni, che non esiste immagine senza un occhio che guarda — e, inevitabilmente, senza un occhio che risponde.
Nel tempo delle piattaforme, dei social e della performance continua dell’io, lo sguardo in macchina ha acquisito una nuova centralità. I video su TikTok, Instagram o YouTube sovvertono quotidianamente le regole classiche del linguaggio cinematografico. Qui lo sguardo rivolto all’obiettivo non è solo permesso: è il prerequisito. L’interazione con il pubblico è diretta, non mediata, e il soggetto filmato sa di essere visto, si rivolge esplicitamente a chi guarda. È, in un certo senso, il trionfo di ciò che la didattica tradizionale del cinema ha a lungo negato.
Riconsiderare lo sguardo in macchina significa allora ripensare il cinema non solo come tecnica, ma come atto di relazione. È proprio in quell’attimo in cui l’occhio dell’attore incontra il nostro che il cinema smette di essere un sogno da cui nessuno deve svegliarsi — e diventa invece un incontro che ci riguarda, ci inquieta e ci costringe a rispondere.
📸 Sans Soleil, Chris Marker