Ma l’ingresso ufficiale di Banti nel panorama letterario italiano avviene solo nel 1937, con Itinerario di Paolina, raccolta di racconti che già lasciava intravedere lo sguardo nitido e impietoso che avrebbe poi attraversato tutta la sua opera. Tuttavia, è nel dopoguerra, con Artemisia (1947), che la scrittrice si impone definitivamente: un romanzo che sfugge alle etichette, sospeso tra biografia e invenzione, cronaca d’arte e meditazione sull’identità femminile. Qui, la figura di Artemisia Gentileschi diventa più che un soggetto storico: è un alter ego, un’eco, un pretesto per riflettere sul senso stesso della scrittura e della resistenza creativa. L’autrice non racconta Artemisia: la interroga, la rievoca, la accompagna tra le rovine del proprio studio bombardato e, in quel gesto, fonda una forma nuova di romanzo: una meta-narrazione che è insieme elegia e ricostruzione.
L’opera di Banti, del resto, non si esaurisce in Artemisia. Lungo l’arco di decenni, la scrittrice costruisce una costellazione di testi in cui il femminile assume via via le forme della clausura, dell’esilio, della colpa, ma anche della ribellione e del desiderio. In Le monache cantano (1942), le voci recluse del convento diventano canto corale e forma di resistenza. In Il bastardo (1953), la narrazione si fa più aspra, più crudele, mettendo a nudo la brutalità dei legami familiari. Con La camicia bruciata (1973), Banti torna su temi cari come l’identità e la memoria, mentre Un grido lacerante (1981) si presenta come un diario intimo, ultimo affondo nelle pieghe di un’esistenza vissuta sotto il segno della scrittura.
Oltre alla narrativa, Banti ha esercitato un ruolo decisivo come critica d’arte e letteraria. Il suo sodalizio con Roberto Longhi – storico dell’arte fra i più importanti del secolo – diede vita nel 1950 alla rivista Paragone, laboratorio intellettuale dove la scrittura si confrontava ogni mese con il visibile e il dicibile. In quelle pagine si alternavano riflessioni su Masaccio e su Bacon, su Morandi e su Piero della Francesca, sempre con lo stesso rigore che Banti portava nella narrativa: un rigore innervato di passione.
Traduttrice, saggista, donna colta in un tempo ostile, Anna Banti non si lasciò mai contenere da un’unica definizione. La sua scrittura fu il suo gesto di libertà. Più che raccontare storie, cercava di sottrarle all’oblio. E nel farlo, ha dato voce a generazioni di donne e uomini che nell’arte e nella parola cercano ancora oggi un varco, una sopravvivenza, una scintilla.
Artemisia: un romanzo come riscatto e come elegia
Artemisia (1947) non è soltanto un romanzo su Artemisia Gentileschi: è una riflessione sul rapporto fra artista e memoria, fra donna e potere, fra scrittura e perdita. La genesi stessa del libro è già narrazione: il manoscritto originale, scritto durante la guerra, viene distrutto sotto i bombardamenti che colpiscono la casa romana di Lucia Lopresti. In quel momento tragico, la perdita fisica delle parole diventa la miccia per una nuova, più consapevole e radicale riscrittura. Artemisia non rinasce dalle sue ceneri, ma da una forma di dialogo con l’assenza. La scrittrice si rivolge direttamente alla protagonista scomparsa, le parla, la interroga, la evoca nei suoi sogni e nei suoi silenzi. Nasce così un libro profondamente ibrido, in cui la narrazione storica si intreccia con la voce dell’autrice che compare in prima persona, come testimone e interlocutrice.
La Artemisia di Banti non è una figura idealizzata né mitizzata: è una donna ferita, testarda, sola. Figlia di Orazio Gentileschi, allieva di Caravaggio, vittima di violenza e poi testimone in un processo infamante, artista che si batte per la propria dignità e per il proprio talento. In questo senso, il romanzo di Banti anticipa molti temi della letteratura femminista: la riappropriazione della voce, il corpo violato, la resistenza attraverso l’arte. Ma lo fa con una scrittura lontana da ogni didascalismo, sempre lirica e sorvegliata, che oscilla tra il lamento e l’esaltazione, tra il frammento diaristico e l’affresco storico.
In Artemisia non c’è solo la storia di una pittrice, ma il rispecchiamento inquieto di due donne separate da tre secoli, entrambe alla ricerca di una forma per dire se stesse. Il tempo della narrazione è il tempo interiore del trauma e della creazione. L’autrice si insinua nelle crepe della storia, e da quelle crepe fa nascere una nuova voce. In questa forma narrativa del lutto – per un manoscritto, per un’epoca, per la figura della donna artista – Artemisia si pone come romanzo fondativo, non solo per Banti, ma per un’intera tradizione di scrittura al femminile che nel Novecento italiano ha cercato di cucire la vita con la parola.
Paragone: una rivista come laboratorio del visibile
Fondata nel 1950 da Anna Banti e Roberto Longhi, Paragone fu una delle esperienze editoriali più sofisticate e influenti della cultura italiana del secondo dopoguerra. Non una semplice rivista d’arte, né una piattaforma accademica: Paragone si proponeva come spazio di confronto – come suggerisce il titolo – tra epoche, forme, linguaggi. La rivista si articolava in due serie parallele: una dedicata all’arte, l’altra alla letteratura. Entrambe curate con uno spirito critico che univa rigore filologico e slancio interpretativo.
Il ruolo di Banti in Paragone fu tutt’altro che secondario. Se Longhi garantiva l’autorità dello storico d’arte, Banti offriva una scrittura colta e raffinata, capace di mettere in dialogo la pittura con la narrazione, la critica con la sensibilità letteraria. Nei suoi interventi, spesso firmati con uno stile essenziale ma vibrante, si avverte la volontà di restituire all’arte non solo il peso estetico, ma anche quello esistenziale. Che si parli di pittura antica o contemporanea, Banti affronta l’opera come un enigma che riguarda la condizione umana. La figura femminile, anche nella critica d’arte, continua a emergere come una delle sue ossessioni: ritroviamo nei suoi scritti su Artemisia, ma anche su Lavinia Fontana, Fede Galizia o le “donne invisibili” delle botteghe italiane, una costante volontà di far riemergere i volti cancellati dalla storiografia maschile.
Paragone, nel corso degli anni, pubblicò autori come Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Giovanni Testori, e offrì una delle prime piattaforme di riflessione sulla pittura informale e sulle avanguardie post-belliche. Ma ciò che la distingue è la sua impostazione quasi “letteraria” della critica: ogni testo è curato nella forma quanto nei contenuti, come se l’analisi dell’immagine richiedesse una lingua che fosse a sua volta immagine, vibrazione, sguardo.
Anna Banti diresse Paragone fino alla morte, nel 1985. La sua presenza ha segnato in profondità il tono della rivista, mantenendola lontana dalle derive tecnocratiche o meramente accademiche. In un’epoca in cui la critica si irrigidiva in gergo e apparati, Paragone restava un luogo di pensiero appassionato, dove la parola cercava ancora il mistero dell’opera, non la sua decifrazione.
Un approfondimento critico sul tema della doppia soggettività femminile in Artemisia di Anna Banti, e su come questo romanzo ne rappresenti uno degli esempi più complessi e anticipatori nella narrativa italiana del secondo Novecento.
La doppia soggettività: un io che guarda e un io che parla
Nel cuore narrativo di Artemisia si insinua una frattura fondamentale: quella tra la voce dell’autrice e la voce del personaggio. Non si tratta però di un semplice sdoppiamento narrativo, ma di un vero e proprio dispositivo esistenziale: due soggettività femminili che si specchiano, si inseguono, si fraintendono. Anna Banti non racconta Artemisia: la interroga, la evoca, le si accosta e poi si ritrae. La scrittura non è il luogo di una fusione identitaria, ma di una tensione continua, un campo magnetico in cui le due figure si osservano da lontano, con un misto di empatia e sospetto.
Questa tensione dà luogo a una costruzione narrativa inedita, in cui l’io narrante è al tempo stesso soggetto della narrazione e suo spettatore. Artemisia, la pittrice del Seicento, viene riscritta da una donna del Novecento che porta in sé ferite analoghe – il silenzio imposto, l’identità mutilata, il bisogno di riconoscimento – ma che non si sovrappone mai completamente alla sua protagonista. Non c’è identificazione, ma rispecchiamento distorto. È in questo scarto che nasce la potenza del romanzo: nel fatto che la scrittrice non si sostituisce all’artista, ma la scruta da un angolo dell’anima dove abita la mancanza.
Un romanzo-soglia tra autobiografia e storia
Questo meccanismo di doppia soggettività è ciò che trasforma Artemisia in un romanzo-soglia, sospeso tra generi: biografia storica, racconto interiore, diario di una perdita. La voce della Banti si insinua nel tempo dell’altra, ma non per appropriarsene, bensì per abitarlo come un tempo impossibile, come un’eco. La pittrice barocca appare dunque come figura emblematica non solo della lotta femminile per l’espressione, ma anche come proiezione delle fratture stesse dell’io moderno.
La modernità del romanzo sta nel suo rifiuto della linearità: il tempo narrativo è scandito da digressioni, interruzioni, visioni oniriche, frammenti. L’autrice parla a Artemisia, e Artemisia non risponde mai veramente. Questo silenzio è il cuore del libro: l’altro non risponde, eppure il dialogo continua. L’interiorità femminile si sdoppia allora in un sé che scrive e un sé che non può più essere raggiunto, in un tempo che è al tempo stesso presente e remoto.
Femminismo prima del femminismo
Pur non appartenendo esplicitamente al movimento femminista, Anna Banti anticipa nella sua opera molti dei nodi teorici che diverranno centrali nella riflessione delle donne scrittrici degli anni Settanta: la necessità di recuperare genealogie femminili, la complessità dell’io diviso, il conflitto tra parola e corpo, tra rappresentazione e autenticità. La doppia soggettività in Banti non è solo una strategia narrativa: è il riflesso di una doppia coscienza storica, di un’identità che si costruisce attraverso lo scarto e il ricordo.
In questo senso Artemisia può essere letto accanto ai testi teorici di Hélène Cixous, Luce Irigaray, Julia Kristeva: anche in essi la scrittura femminile si configura come atto di resistenza alla logica univoca del logos maschile, come possibilità di esprimere una soggettività non pacificata, discontinua, porosa. L’io femminile, in Artemisia, non si dà mai come unità: è sempre tra due, sempre in attesa, sempre in relazione a un’altra.
Una voce che cerca un’altra voce
Infine, il tema della doppia soggettività nel romanzo di Banti si può leggere anche come una meditazione sullo statuto stesso della scrittura: chi parla, quando si scrive? Da dove viene la voce che racconta, e a chi si rivolge? Artemisia non è una risposta a queste domande, ma un modo per mantenerle aperte. L’autrice cerca nella pittrice un’immagine possibile di sé, ma sa che quell’immagine è già alterata, lontana, filtrata dal tempo e dalla morte. Scrivere è allora tentare di raggiungere una voce che non potrà mai essere raggiunta, ma che proprio per questo continua a chiamare.
Ecco perché il romanzo non si chiude, ma resta sospeso: perché il dialogo tra le due donne – tra le due soggettività – non può risolversi. È un’eco che si ripete attraverso i secoli, un’ombra che si allunga sulla pagina. E in questa ombra si intravede la vera materia della scrittura: la tensione tra ciò che si è e ciò che si cerca.
Procedo con un approfondimento sulla ricezione critica di Artemisia nel tempo e con un confronto suggestivo con le scritture visive di Leonor Fini e Carol Rama, artiste che, come Anna Banti, hanno saputo lavorare sul confine tra biografia, finzione e rivolta interiore.
Ricezione critica di Artemisia: un romanzo in anticipo sul suo tempo
Alla sua uscita nel 1947, Artemisia non fu accolto con l’entusiasmo che oggi lo circonda. In un’Italia ancora profondamente patriarcale e scossa dal dopoguerra, l’opera venne letta soprattutto come un’“esercitazione letteraria” di una scrittrice già nota per la sua cultura e per la sua vicinanza a Roberto Longhi. In molti casi la profondità del romanzo fu offuscata dalla difficoltà di catalogarlo: non era una biografia storica, non era un romanzo tradizionale, non era saggistica. La voce narrante sdoppiata e oscillante tra passato e presente disturbava i canoni della narrazione lineare.
Fu solo a partire dagli anni Settanta, in parallelo con la rinascita dei movimenti femministi e con la riscoperta della figura di Artemisia Gentileschi come simbolo di resistenza e autodeterminazione, che il libro cominciò a ricevere letture più attente. Grazie anche agli studi di critica letteraria femminista – basti citare Giuliana Bruno, Lea Melandri o Sandra Gilbert e Susan Gubar nel contesto anglosassone – Artemisia venne riletto come esempio di scrittura relazionale, in cui l’autrice non impone la propria visione, ma cerca di ascoltare e affiancare una soggettività altra.
Negli anni Duemila, con la crescente attenzione alle pratiche autofinzionali e alla scrittura delle donne nel secondo Novecento, Artemisia è stato finalmente riconosciuto come un’opera fondamentale, capace di fondere innovazione formale, consapevolezza storica e tensione politica. Le edizioni recenti, corredate di introduzioni critiche (come quella di Susan Sontag nella versione inglese), hanno sottolineato il valore preveggente del romanzo: la sua capacità di mettere in crisi la voce dell’autore e di restituire spessore a un personaggio femminile storicamente marginalizzato.
Leonor Fini, Carol Rama e Anna Banti: genealogie visionarie
Nel panorama artistico del Novecento, Leonor Fini e Carol Rama rappresentano, ciascuna a suo modo, delle voci laterali e potenti che come Anna Banti hanno lavorato su immagini femminili disallineate, scomode, inquiete. Tutte e tre hanno costruito linguaggi che partono dal rifiuto della norma – stilistica, sessuale, narrativa – per riscrivere un'immagine del femminile come eccedenza, trauma, resistenza.
Leonor Fini – pittrice cosmopolita, autodidatta, amata dai surrealisti ma mai imbrigliata da essi – ha creato per tutta la vita un immaginario popolato di creature ibride, sacerdotesse, sfingi, donne dominanti e ambigue. Il suo mondo pittorico, costruito su simboli alchemici e visioni oniriche, ha la stessa qualità sospesa e inquieta della Artemisia di Banti: entrambe danno voce a soggettività femminili che sfidano l’ordine simbolico maschile. Fini, come Banti, immagina e reinventa genealogie femminili autonome, libere, non redimibili.
Carol Rama, invece, lavora su un linguaggio più corporeo, disturbante, viscerale. I suoi disegni, le sue installazioni, sono testimonianze di un corpo che grida, che si deforma, che si fa luogo di piacere e di violenza. Il suo universo è radicalmente intimo e autobiografico, ma non narcisistico: è un corpo che racconta la marginalità, la malattia mentale, il desiderio non eteronormato. Anche in questo caso, il parallelo con Artemisia è profondo: la protagonista del romanzo di Banti, violata e ridotta al silenzio, trova una lingua nuova proprio attraverso il corpo, attraverso l’arte, attraverso l’ostinazione. La sorellanza impossibile che Banti cerca di instaurare con Artemisia risuona nelle opere di Rama come tensione irrisolta tra sé e l’immagine di sé.
Queste tre autrici – in forme diverse ma affini – ci mostrano che l’arte e la scrittura non sono soltanto spazi di espressione, ma di lotta. Lotta per la voce, per la memoria, per una rappresentazione che non sia consolatoria ma radicalmente altra.
Da un lato, ora, un confronto articolato tra Anna Banti e alcune grandi scrittrici italiane coeve o successive (Morante, Ortese, Amelia Rosselli); dall’altro, un approfondimento stilistico sul linguaggio e sul ritmo narrativo di Artemisia, che si rivela – anche sul piano formale – un romanzo rivoluzionario.
Scritture in dialogo: Anna Banti, Elsa Morante, Anna Maria Ortese, Amelia Rosselli
Pur appartenendo a temperamenti e percorsi molto diversi, queste scrittrici hanno tutte lavorato, con mezzi differenti, su una rappresentazione altra della realtà, dei suoi traumi, delle sue illusioni. Non si tratta di rintracciare affinità tematiche semplici – la “condizione femminile” o la “scrittura femminile” – ma piuttosto di riconoscere come ciascuna di loro abbia inventato una lingua per dirsi, dislocarsi, frantumarsi, e al tempo stesso per ricostruire uno spazio d’ascolto.
Elsa Morante, per esempio, elabora nei suoi romanzi un mondo dove l’epica e la crudeltà infantile convivono in una forma lirica e tragica insieme. In La Storia, la sua protagonista Ida – come Artemisia – è una donna travolta dagli eventi della Storia con la maiuscola, eppure capace di resistenza segreta. La lingua della Morante, intensamente emotiva, si nutre di registri orali e letterari insieme, mescolando la favola al documento. Come Banti, anche lei lavora sullo strappo tra memoria personale e racconto pubblico, ma mentre la Morante cerca una mitopoiesi collettiva, Banti rimane fedele a un’indagine dell’interiorità attraverso la mediazione critica e artistica.
Anna Maria Ortese, invece, è la più vicina a Banti sul piano della tensione visionaria. I suoi racconti e romanzi – da Il mare non bagna Napoli a Il porto di Toledo – sono attraversati da una scrittura in bilico tra realtà e sogno, che crea atmosfere rarefatte, metafisiche, abitate da figure fragili, sospese, ferite. Come Banti, Ortese adotta uno stile inusuale, spesso ostico, per esplorare soggettività ai margini e riflettere sulla solitudine della conoscenza. Anche Ortese – come Banti con Artemisia – scrive da un luogo liminare: una camera d’eco da cui osservare il disastro, cercando voci perdute.
Amelia Rosselli, infine, rappresenta una forma estrema di frantumazione linguistica e psichica. I suoi versi spezzati, trilingui, ossessivi, sono figli di un trauma genealogico (la morte del padre Carlo Rosselli) e di una lacerazione mentale mai risolta. Ma in questa crisi permanente, Rosselli produce una lingua che non obbedisce, che balbetta, che ricompone il dolore in forma musicale. Anche in Artemisia, Banti costruisce una lingua che non è mai fluida, ma densamente stratificata, dolorosa, irrisolta: la voce narrante, che parla dal lutto della distruzione del manoscritto, è già orfana all’inizio. Rosselli e Banti condividono, pur con mezzi diversi, il rifiuto della linearità, la necessità della frattura, il culto della memoria come sismografo.
Linguaggio e ritmo narrativo in Artemisia: una lingua che esita, che interroga
Il linguaggio di Artemisia è quanto di più lontano da una narrazione "classica" si possa immaginare. Anna Banti, pur con una formazione accademica rigorosa e una sensibilità estetica coltissima, sceglie una lingua turbata, che inciampa, si ripete, si corregge, scrive il dubbio e non la certezza.
Il romanzo è dominato da un uso virtuosistico e inquieto del periodo: frasi lunghe, frantumate da virgole e incisi, con subordinazioni che sfuggono a ogni simmetria. Questa sintassi tesa, spesso spezzata da esitazioni o riflessioni metaletterarie, mima la voce della narratrice che tenta di riallacciare i fili di un discorso spezzato dalla perdita – il manoscritto distrutto nel bombardamento di casa Longhi – e da un rapporto impossibile con la protagonista. La scrittura di Banti è come la materia pittorica di Artemisia: stratificata, vischiosa, non levigata.
Il ritmo narrativo è costellato di paesaggi mentali: non c’è una successione lineare degli eventi, ma piuttosto una geografia interiore che alterna ricostruzioni storiche, meditazioni sul tempo, visioni liriche e dialoghi fantasmatici con Artemisia. Il tempo del romanzo è circolare, ipnotico, scandito da riprese, allusioni, ritorni: il lettore è chiamato non a seguire, ma ad abitare il ritmo della voce narrante, che non racconta ma interroga, non afferma ma suppone.
Un altro elemento chiave è l’uso della seconda persona: l’autrice si rivolge direttamente ad Artemisia, ma questo "tu" è anche uno specchio, una doppia, un alter ego immaginario. È una lingua che non descrive ma evoca, che non consola, ma mette in crisi. In questo senso, Artemisia è un romanzo che sta più vicino al monologo interiore che alla narrazione epica. È una lettera senza risposta, un sogno dentro il sogno della Storia.
Post-memoria e narrazione queer: l’attualità di Anna Banti
Nel nostro presente culturale, attraversato da una profonda riflessione sulle forme della trasmissione, della ferita, dell’identità spezzata, l’opera di Anna Banti – e in particolare Artemisia – assume una rilevanza insospettata. Lungi dall’essere solo un grande romanzo storico, o una biografia letteraria raffinata, Artemisia è oggi leggibile come un laboratorio discorsivo che prefigura molte delle istanze che la critica contemporanea, in ambito tanto memoriale quanto queer, ha teorizzato negli ultimi decenni.
La post-memoria, concetto centrale nella riflessione di Marianne Hirsch, si riferisce all’esperienza di chi eredita, senza averle vissute direttamente, le memorie traumatiche delle generazioni precedenti. Questo tipo di memoria è indiretta, immaginaria, spesso lacunosa, ma nondimeno profondamente sentita: una ferita trasmessa, un’identificazione empatica, una forma di narrazione che cerca di colmare il silenzio con la risonanza affettiva. Artemisia è esattamente questo: un atto di post-memoria.
La voce narrante non è un testimone diretto, né una storica in senso stretto: è una donna che, nel mezzo del trauma collettivo della guerra, perde il manoscritto della sua Artemisia e ricomincia a scriverlo non dalla documentazione, ma dalla memoria del desiderio. La narratrice si rivolge a una figura del passato come a una compagna d’anima, le presta voce, la ricostruisce non come fu, ma come avrebbe potuto essere nella sua libertà, nella sua solitudine, nella sua urgenza di autodeterminazione. È un dialogo impossibile, ma necessario. È post-memoria come gesto di alleanza tra donne divise dai secoli ma unite da un’identica fame di parola.
Ma in questa identificazione si innesta anche un altro asse di lettura: quello queer. Non tanto perché Banti (o Artemisia) sia "omosessuale" nel senso moderno del termine – questo sarebbe un anacronismo – quanto perché il dispositivo narrativo che struttura Artemisia è, nel suo profondo, queer nella forma: scarta il centro, disfa il binarismo tra soggetto e oggetto, tra passato e presente, tra autore e personaggio. La narratrice è donna che scrive una donna, ma anche si sdoppia, si moltiplica, si proietta. Il "tu" con cui si rivolge ad Artemisia non è solo narrativo: è anche amoroso, mimetico, ossessivo, e per questo eccede la norma.
Il romanzo inscena così una relazione queer con la Storia: non lineare, non autorizzata, non riparatrice. È un lutto non elaborato che diventa forma, una perdita che si trasforma in una lingua obliqua. Come nelle scritture queer contemporanee – da Maggie Nelson a Paul B. Preciado – anche in Artemisia il soggetto non è mai un’identità data, ma una faglia dove si sovrappongono tempo e desiderio, memoria e creazione, eros e frustrazione. La voce narrante è continuamente sospesa tra l’io e il tu, tra la contemplazione e il bisogno di essere l’altra.
Banti anticipa le pratiche transdisciplinari e affettive della narrazione queer: la storicizzazione attraverso l’empatia, l’autorappresentazione attraverso l’altro, la scrittura come atto di disobbedienza cronologica. La sua Artemisia non è solo una pittrice barocca restituita alla coscienza storica: è un avatar trans-temporale di tutte le soggettività che hanno cercato, nei secoli, di uscire dal quadro, di riscrivere la propria cornice, di firmare la tela col proprio nome.
1. La doppia soggettività: un io che guarda e un io che parla
Nel cuore pulsante del romanzo Artemisia, la scrittura di Anna Banti non si limita a costruire una biografia romanzata, né a proporre un semplice omaggio a una figura femminile dimenticata. La narrazione prende vita da un dialogo impossibile, spezzato, quasi medianico, tra due donne separate da tre secoli ma legate da una tensione profonda: la ricerca di una voce propria, in un mondo che non concede parola al femminile.
Banti crea una struttura narrativa in cui l’io narrante – che si può identificare con l’autrice, ma mai del tutto – si rivolge direttamente ad Artemisia Gentileschi, evocandola come un fantasma della storia, un’alleata in esilio. Ma la narrazione non si costruisce sul presupposto di un’identificazione lineare: la scrittrice non si sostituisce alla pittrice, bensì la insegue. Le si accosta con timore, ammirazione, a tratti anche con una certa invidia. Artemisia resta altro – remota, irriducibile. Questo scarto produce una soggettività sdoppiata: una voce che scrive e una voce che è stata zittita.
Il sé narrante è al tempo stesso autrice e personaggio, cronista e testimone, soggetto e spettatrice. È una narratrice che, più che scrivere su, cerca di scrivere con – e fallisce, perché il tempo, la morte e la distanza le impediscono di raggiungere Artemisia. Eppure questo fallimento diventa il fulcro di una nuova possibilità narrativa: scrivere dal margine, dal vuoto tra due soggettività.
2. Un romanzo-soglia tra autobiografia e storia
L’impianto ibrido del romanzo si rivela fin da subito nella sua genesi: Banti aveva cominciato a scrivere Artemisia prima della guerra, ma il manoscritto andò distrutto durante il bombardamento di Firenze del 1944. La riscrittura, cominciata dopo la tragedia, porta in sé una coscienza lacerata, una consapevolezza del tempo come frammento e ferita. Questo fa sì che il testo sia strutturato come una memoria di una memoria, dove il racconto non scorre, ma affiora in zolle, in visioni, in brandelli.
Il romanzo è anche una riflessione sulla sopravvivenza della memoria femminile: chi racconta le donne dimenticate dalla storia? Chi può ricostruire ciò che è stato cancellato? Artemisia non è una semplice eroina da celebrare, ma una figura spezzata, la cui grandezza viene riconquistata attraverso un atto di immaginazione affettiva. L’io narrante ne ricostruisce le tracce come un’archeologa dell’anima: tra i quadri, le lettere, le omissioni degli storici, le allusioni al processo per stupro subito dalla pittrice. Ogni lacuna è una ferita del tempo che la narrazione tenta di rimarginare, pur sapendo che è impossibile.
La storia si intreccia all’autobiografia non come confessione, ma come reperto. L’autrice si insinua nella vita dell’altra come un’ombra che cerca riparo. La scrittura diventa allora un ponte tra due vite incomplete, una forma di vicinanza senza fusione. È in questo senso che Artemisia si fa romanzo-soglia: un testo che non sta da una parte né dall’altra, ma vibra nel passaggio tra intimo e collettivo, tra tempo storico e tempo esistenziale.
3. Femminismo prima del femminismo
Nel 1947, l’Italia usciva da una guerra devastante e si apriva lentamente al futuro repubblicano. Le donne avevano appena ottenuto il diritto di voto, ma il panorama culturale restava largamente maschile, con rare eccezioni. Anna Banti, in questo contesto, costruisce un’opera che anticipa molte delle domande centrali della scrittura femminile degli anni a venire. Non lo fa con le armi del pamphlet o della militanza, ma con un’opera che è profondamente politica proprio perché radicalmente intima.
Il gesto di riportare alla luce Artemisia Gentileschi – pittrice straordinaria e dimenticata, violentata dal maestro del padre, processata, ridicolizzata – non è solo un recupero storiografico: è un atto di restituzione simbolica. In un’epoca in cui le donne artiste erano ancora relegate a ruoli secondari, Banti propone la figura di una donna che ha combattuto per dipingere, per esistere, per firmare la propria opera. L’ossessione della firma – presente in tutto il romanzo – diventa metafora della lotta per la soggettività: essere riconosciute, non solo come donne, ma come soggetti creatori di senso.
Molti dei temi esplorati da Banti – la scrittura del corpo, la maternità simbolica, la voce interrotta, l’identità molteplice – saranno poi sviluppati in chiave teorica da pensatrici come Hélène Cixous (Le rire de la Méduse), Luce Irigaray (Ce sexe qui n’en est pas un) e Julia Kristeva (Pouvoirs de l’horreur). Ma ciò che in queste autrici si formula come elaborazione concettuale, in Artemisia prende la forma di una scrittura che incarna il dissenso, che svela la fatica dell’esistere al femminile dentro e contro la lingua ereditata.
4. Paragone: una rivista come spazio di resistenza culturale
Fondata nel 1950 da Anna Banti e Roberto Longhi, Paragone è una delle più influenti riviste italiane del dopoguerra. Divisa in due sezioni – arte e letteratura – rappresenta un laboratorio intellettuale in cui le arti visive e la scrittura si confrontano sul terreno comune della forma, della visione, della critica come esercizio del pensiero.
Per Banti, Paragone non fu solo una rivista, ma un’estensione del suo sguardo e della sua voce. Attraverso le pagine della rivista, ella costruì uno spazio in cui la letteratura potesse confrontarsi con la pittura, il teatro, la storia e la psicanalisi. Non a caso, molte delle sue opere più sperimentali nascono in dialogo con i saggi pubblicati su Paragone, in una sorta di intertestualità costante tra finzione e saggio critico.
Ma c’è di più: Paragone fu anche un luogo di resistenza contro l’appiattimento culturale, contro le semplificazioni ideologiche, contro il populismo estetico. In anni di grandi mutamenti, Banti e Longhi imposero uno sguardo colto, rigoroso, spesso eretico. L’impegno di Banti alla direzione della sezione letteraria fu un modo per dare voce a scritture non conformi, non omologate, spesso difficili. La sua attenzione alla forma, alla memoria, alla differenza, fu costante. In questo senso, Paragone rappresenta non solo un momento della storia culturale italiana, ma una testimonianza dell’etica intellettuale di Banti.
5. Confronto con altre narrazioni “a due voci”: Duras e Maraini
Il dispositivo della doppia soggettività, così centrale in Artemisia, trova echi importanti in altre opere della letteratura europea contemporanea. Tra tutte, due meritano un confronto ravvicinato: L’amante di Marguerite Duras (1984) e La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini (1990).
In L’amante, Duras mette in scena una memoria scissa: la narratrice evoca sé stessa da giovane con uno sguardo distante, quasi estraneo. La voce narrante non coincide mai con la figura raccontata. Anche qui si gioca una tensione tra due soggettività: la scrivente e la scritta, la donna che ricorda e la ragazzina che visse. L’eros, il tempo coloniale, il desiderio, diventano il campo di battaglia di un’identità divisa. Come in Banti, la scrittura è un modo per restituire vita a ciò che è perduto – ma senza mai colmare il vuoto.
In La lunga vita di Marianna Ucrìa, invece, la protagonista – muta dalla nascita – attraversa la Storia del Settecento siciliano portando in sé un silenzio che è insieme trauma e potenza. Maraini costruisce una voce interiore fatta di pensiero e di visione, dove il corpo muto parla attraverso la scrittura e il desiderio. Anche qui, come in Banti, il gesto narrativo è un atto di riscatto, ma anche di decostruzione: la soggettività femminile si esprime solo nel momento in cui viene ascoltata dal proprio stesso silenzio.