Jole de Sanna non cercava il centro della scena: ma in qualche modo vi stava. La sua era una centralità discreta, quasi laterale, ma tanto più potente perché non imposta ma guadagnata sul campo. Nella Milano degli anni Settanta – un laboratorio incandescente dove le relazioni tra arte, politica, linguaggio e corpo si facevano e si disfacevano ogni giorno – la sua presenza era già un punto fermo. Non per l’alone di autorità accademica, ma per un’altra cosa, più difficile da definire: una combinazione rara di passione e rigore, di ardore e metodo, che trasformava ogni suo intervento, scritto o orale, in una specie di seduta rivelatrice.
Si muoveva tra gli artisti senza mai atteggiarsi a musa, né a giudice. Preferiva il ruolo, più rischioso e invisibile, della mediatrice, dell’interprete, del testimone. Aveva un modo molto personale di entrare nei mondi altrui: ascoltava con precisione, guardava con attenzione assoluta, e poi parlava – o meglio scriveva – con quella limpidezza febbrile che non è affatto freddezza, ma esigenza di verità. Il suo rapporto con l’arte non era contemplativo ma quasi carnale, eppure sempre sorretto da una straordinaria coerenza intellettuale. Per questo, i suoi scritti non si limitano a registrare o commentare: costruiscono, lentamente e inesorabilmente, una visione.
Chi legge oggi i suoi saggi – da Forma. L’idea degli artisti 1943-1997 al fondamentale volume su Medardo Rosso – riconosce un tono inconfondibile: una voce che non spiega soltanto, ma dialoga, costruisce ponti, attraversa epoche e linguaggi. È una voce colta, certo, ma mai accademica; profondamente documentata, ma capace di ardite deviazioni. De Sanna non cercava il consenso: cercava un senso. Per questo sapeva anche discostarsi dalle consuetudini del mestiere, e rifuggiva l’equilibrio rassicurante delle monografie classiche. I suoi testi sono costellati di tensioni, domande aperte, traiettorie non lineari. Sono, a tutti gli effetti, opere critiche nel senso più pieno del termine.
La sua attività alla Casa degli Artisti ne è forse l’esempio più emblematico. Fondata nel 1978 insieme a figure come Luciano Fabro e Hidetoshi Nagasawa, con i quali aveva intessuto un sodalizio che era prima di tutto umano e intellettuale, quella Casa non fu semplicemente un luogo fisico ma un esperimento culturale. Uno spazio attraversato da dialoghi, laboratori, discussioni, ma anche da silenzi fertili, da ostinazioni condivise. Lì, de Sanna dimostrava che il pensiero sull’arte non può essere separato dall’esperienza dell’arte stessa, e che il ruolo del critico non è quello del sorvegliante, ma dell’interlocutore.
Lontana anni luce dalla retorica dell’“intellettuale impegnato”, Jole de Sanna era, senza proclami, totalmente immersa nella propria ricerca. E chiunque abbia incrociato il suo sguardo, anche solo attraverso le pagine, lo sa: c’era in lei qualcosa di segreto e di potente. Lea Vergine, nel ricordarla, evocava un sorriso infantile e occhi "lustreggianti da Minerva". È una definizione perfetta: de Sanna non si è mai davvero lasciata afferrare del tutto, eppure ha lasciato su molti una traccia incancellabile. Non era una pedagoga, ma è stata una grande insegnante. Non cercava di affascinare, ma molti ne sono rimasti affascinati. Non costruiva teorie, ma architetture critiche. E in tutto questo, ciò che colpiva non era solo il contenuto dei suoi interventi, ma lo stile con cui li conduceva: quella sobrietà che non si confonde mai con il distacco, quella serietà che non pesa, quella lucidità che non esclude mai l’intuizione.
Nella sua lettura di Medardo Rosso – artista da lei intuito precocemente come uno dei veri fondatori della modernità, più che come semplice scultore d’avanguardia – de Sanna non solo mostra una competenza storiografica fuori dal comune, ma riformula l’intera nozione di spazio artistico. Il suo sguardo, capace di sottrarre Rosso alla retorica del "precursore" per collocarlo dentro una tensione ancora viva, dimostra quanto la sua idea di storia non fosse mai lineare ma stratificata, vitale, perfettamente inattuale.
Del resto, tutto nel suo lavoro sembra guidato da una strana forma di necessità interiore. Nulla appare accessorio, nessun inciso è gratuito, ogni parola è calibrata con attenzione. E se nelle sue riflessioni l’apparente asciuttezza lascia intravedere vibrazioni intense, è perché ogni scelta è il frutto di un’adesione profonda. Non a caso, i suoi testi sembrano parlare con la stessa voce di chi ne è oggetto: le parole degli artisti, i loro gesti, le loro ombre sono dentro le sue analisi, mai sovrastate ma messe in luce.
Perché accade, a volte, che certe figure non facciano rumore mentre vivono – eppure lo lascino dopo, un rumore sottile, carsico, come di pensieri che si depositano e restano. La storia dell’arte, quella che si scrive e quella che si fa, è attraversata da donne che hanno abitato il margine con la forza muta delle radici. Jole de Sanna è stata una di queste. Ma chiamarla marginale sarebbe già fraintenderla: più corretto dire che è stata decentrata rispetto ai riflettori, ma centrale nel gesto, nell’atto che trasforma la critica in un luogo di costruzione condivisa, e non in un palco.
Non è un caso se chi l’ha conosciuta – allievi, artisti, colleghi – ne parla con una tenerezza incantata, quasi da favola. Era minuta, discreta, eppure non si poteva ignorare. Entrava in uno studio o in un’aula con quell’aria da chi osserva più che dichiarare, ma poi diceva una cosa – una sola – e lo spazio si modificava. Come se qualcuno avesse appena tracciato una nuova linea d’orizzonte.
Jole de Sanna ha attraversato la seconda metà del Novecento italiano con una voce laterale ma decisiva, una voce che non ha mai gridato, ma ha inciso. Da giovane filosofa formata in piena stagione fenomenologica, si è immersa poi nell’avanguardia artistica con un’intelligenza che sapeva restare limpida anche quando affrontava temi complessi. Ma non è solo la limpidezza a colpire. È l’amore per la precisione, il rifiuto di ogni approccio preconfezionato, il desiderio costante di comprendere a fondo, senza pregiudizi e senza compiacimenti.
Molti la ricordano nella sua fase matura, con il rigore della studiosa che ha scelto di stare dalla parte degli artisti, ma non in modo ideologico. La sua era una militanza affettiva e metodica, tanto più rara quanto più lontana da ogni posa accademica o modaiola. Jole de Sanna era lì, con loro: con Luciano Fabro, con Hidetoshi Nagasawa, con Carla Accardi e Dadamaino, con quegli artisti che hanno trasformato la materia in idea e viceversa, e che sapevano riconoscere in lei una sorella di visione.
Nel 1978, insieme a Fabro e Nagasawa, fu tra i fondatori della Casa degli Artisti in Corso Garibaldi a Milano. Quel luogo – che oggi sopravvive, in forme diverse, e per molti versi annacquate – fu allora un esperimento radicale. Non solo una residenza, ma un laboratorio di convivenza culturale, dove vivere l’arte non significava solo produrla, ma pensare insieme a ciò che stava cambiando. La Casa, nelle intenzioni di de Sanna, era un atto politico nel senso più profondo del termine: uno spazio condiviso di responsabilità, di dialogo, di costruzione di senso. In anni in cui l’arte italiana era attraversata da spinte ideologiche, polemiche, esasperazioni teoriche, lei proponeva un modello diverso, quasi etico, fondato sull’ascolto e sulla ricerca costante.
Eppure, Jole de Sanna non è mai stata una teorica nel senso astratto del termine. La sua scrittura – che si tratti di una monografia o di un saggio breve – è sempre aderente alle opere, sempre legata a un’esperienza concreta, visiva, sensibile. I suoi testi brillano per una capacità unica di intrecciare analisi formale e rigore filologico con una dimensione quasi narrativa, dove l’autrice si ritrae, ma mai del tutto. Ogni parola è scelta con cura, e dietro a ogni osservazione si avverte la fatica, la gioia, la dedizione di chi ha pensato a lungo, e ha amato profondamente ciò che scriveva.
Nel suo metodo – che è prima di tutto una postura mentale – nulla è lasciato al caso. Si può dire che de Sanna abbia agito come una restauratrice del pensiero, riportando alla luce le venature delle opere, le loro implicazioni profonde, i fili nascosti che collegano la forma all’idea. Non c’è nulla di calligrafico nella sua scrittura, eppure ogni frase ha una forza visiva: è come se, leggendo, vedessimo. Vedessimo l’opera, l’intento dell’artista, ma anche l’epoca, il gesto, il contesto. Questo è particolarmente evidente in quel volume capitale che è Forma. L’idea degli artisti 1943–1997, un libro che non solo raccoglie, ma sintetizza e rilancia, come se fosse un romanzo saggio, il percorso teorico e critico della studiosa.
In quel libro – denso, polifonico, appassionato – de Sanna costruisce una mappa mobile dell’arte del secondo Novecento, mostrando come il rapporto tra forma e idea non sia mai pacificato, ma sempre in tensione. La sua lettura non cerca di pacificare, ma di mettere in risonanza. Per lei, la forma non è mai un’apparenza, e l’idea non è mai disincarnata. Le due si cercano, si sfuggono, si trasformano. Come in un gioco di specchi tra artista e opera, tra tempo e spazio, tra teoria e pratica. La sua voce, in questo senso, è unica: non impone, ma guida; non spiega, ma accompagna. Ci fa vedere ciò che non avevamo visto, o ci obbliga a guardare più a lungo, con maggiore intensità.
Altrettanto esemplare, per capire la profondità del suo approccio, è il volume dedicato a Medardo Rosso. Anche qui de Sanna non si limita a offrire una lettura storica o stilistica, ma coglie – forse prima di altri – l’intuizione più radicale dell’artista: quella per cui lo spazio non è più il contenitore dell’opera, ma diventa esso stesso soggetto, materia, vibrazione. Rosso, in questa lettura, non è solo un precursore della scultura moderna, ma un pensatore dello spazio, un anticipatore di modalità percettive che verranno esplorate solo molto più tardi, anche nel campo dell’installazione e della videoarte. De Sanna lo dimostra con grazia e fermezza, accompagnando il lettore dentro un ragionamento che è anche una presa di posizione: la storia dell’arte non può essere un archivio, deve essere un organismo vivente.
In tutto questo – va detto con chiarezza – c’era in lei qualcosa di “mistico”, ma non nel senso esoterico del termine. Mistica nel senso di intera dedizione, di fusione tra pensiero e azione, tra studio e vita. Chi l’ha frequentata sa che la sua figura emanava una strana luce: non appariscente, non teatrale, ma luminosa nel senso più intimo. Come certi libri che, anche se dimenticati in uno scaffale, ci ricordano qualcosa di noi.
Jole de Sanna è stata una maestra, nel senso più profondo. Non per la quantità di allievi, né per una carriera costruita a colpi di titoli. Ma perché ha lasciato segni. E i segni restano. Non ha mai avuto bisogno di imporsi, perché aveva già scelto di appartenere. E questo, oggi più che mai, è un gesto rivoluzionario.