mercoledì 25 giugno 2025

Il segreto nascosto di "Memorie di Adriano": perché questo romanzo parla ancora al nostro presente


Prefazione 

Nel silenzio denso che segue la lettura delle Memorie di Adriano, una frase continua a risuonare con una forza quieta, implacabile: “L’avvenire del mondo non mi angustia più.” È una dichiarazione che, in apparenza, potrebbe essere fraintesa come resa, stanchezza, scetticismo di chi ha visto troppo, di chi non spera più. E invece è forse una delle affermazioni più lucide, più necessarie, più politiche — nel senso più alto e più umano del termine — che la letteratura del Novecento ci abbia lasciato in eredità. In essa si concentra un’etica che si misura con la rovina senza cedere alla disperazione, che contempla il caos e tuttavia crede — senza illudersi — nella possibilità intermittente dell’ordine. È una frase che contiene in sé l’intero romanzo, e forse tutta l’opera e la vita della sua autrice.

Marguerite Yourcenar impiega più di vent’anni a costruire la voce di Adriano, a farla emergere con lentezza da un’oscurità fatta di archivi, sogni, memorie, intuizioni, dolori personali e tragedie collettive. Lavorando su fonti storiche, ma anche e soprattutto su una memoria interiore, la scrittrice francese compone non un romanzo storico, ma un testamento metafisico, una lunga lettera che è anche una meditazione sulla condizione umana. Adriano — questo imperatore coltissimo, malinconico, amante della bellezza e della giustizia, signore di un mondo che si sgretola anche mentre lui tenta di salvarlo — ci parla da un altrove che è insieme antico e futuro, vicino e remoto, e ci parla soprattutto come uomini e donne del nostro tempo.

Questo saggio nasce dal desiderio di seguire la traiettoria di quelle parole — “L’avvenire del mondo non mi angustia più” — come se fossero una cometa filosofica che attraversa il cielo oscuro della nostra epoca. Non si tratta solo di commentare un passaggio memorabile: si tratta, piuttosto, di interrogarlo fino in fondo, di sviscerarlo, di farne vibrare le risonanze, di misurarne la portata etica, simbolica, esistenziale. Di ascoltare, tra le righe, la voce dell’imperatore che osserva la propria morte e il mondo che continua a crollare e a rinascere, e che da quella prospettiva ultima ci consegna non una verità, ma un gesto di pensiero: un gesto che ha il sapore del tramonto, ma anche quello dell’aurora.

I. Lo sguardo che non si volta altrove

Nel pronunciare quella frase, Adriano non abdica alla responsabilità del pensiero: la affina. Dice che non si affanna più a calcolare la durata della pace, ma non perché non gli interessi la pace, o l’uomo, o la giustizia. Al contrario: è proprio perché ha dedicato la vita a questi ideali, e ha visto quanto poco basti per vanificarli, che può ora permettersi il lusso dell’onestà. La disillusione di Adriano — e, attraverso di lui, quella di Yourcenar — non è un cinismo né un fatalismo, ma il riconoscimento maturo che le forze del disordine non si lasciano mai vincere una volta per tutte. Ogni pace è transitoria. Ogni ordine è provvisorio. Ma questo non toglie, anzi accresce, il valore dei momenti in cui quei concetti — umanità, libertà, giustizia — tornano a significare qualcosa.

C’è, in questo sguardo, qualcosa che somiglia alla postura dei grandi morali senza illusioni. Una postura che ha qualcosa di tragico, ma anche di profondamente vivo. Adriano non è un filosofo, e tuttavia il suo modo di guardare il mondo si nutre della stessa inquietudine, della stessa ricerca inesausta che attraversa le pagine di Montaigne, di Spinoza, di Pascal, di Camus, di Weil, di Arendt. Ma a differenza di molti pensatori, Adriano ha avuto potere, ha comandato, ha governato. Ha amato profondamente e ha conosciuto l’atrocità della perdita. Ha cercato un equilibrio impossibile tra la ragione e il corpo, tra la guerra e la bellezza, tra la legge e la tenerezza. Le sue parole non vengono da una torre d’avorio, ma dal cuore pulsante di un impero che sta già sprofondando nella sua ombra.

II. Un’etica della precarietà, una politica del possibile

Quello che emerge dalle pagine delle Memorie di Adriano — e in particolare da questo nucleo — è una concezione dell’etica che potremmo definire precarissima, ma tutt’altro che debole. Non si tratta di costruire sistemi etici rigidi, di postulare leggi morali universali, né tanto meno di aggrapparsi a ideologie redentrici. Si tratta, piuttosto, di riconoscere che l’umano è sempre in bilico, che il bene è un miracolo, che ogni parola pronunciata con senso e rispetto è già un atto di resistenza contro l’entropia.

In questo senso, il pensiero di Yourcenar si avvicina a quello di Simone Weil, nella sua idea che la giustizia non sia un diritto ma una grazia, qualcosa che avviene nei margini, nei gesti inattesi, nei momenti in cui qualcuno guarda l’altro senza dominio. Si avvicina anche al pensiero di Spinoza, nella sua idea che la libertà consista nel comprendere la necessità. E si avvicina a Camus, nella sua fiducia paradossale nell’assurdo, e nell’idea che proprio perché la vita non ha un senso garantito, ogni sforzo verso il bene è tanto più prezioso.

Ma Yourcenar aggiunge a tutto questo una dimensione che è propria dell’arte, della forma, della letteratura: la capacità di dire con precisione, con bellezza, con gravità. Le sue frasi sono scolpite come colonne doriche, essenziali ma capaci di portare il peso del mondo. In esse, la parola non è mai superflua. Ogni frase è scelta, limata, cesellata, come se davvero contenesse un ordine che possa durare — non per sempre, ma abbastanza a lungo da consolare, da nutrire, da far pensare.

III. Dialoghi inattesi e genealogie dell’essenziale

Il presente volume si propone dunque di leggere questa pagina — e, attraverso essa, tutto il romanzo — come una forma di etica dell’intermittenza, di estetica del limite, di filosofia narrativa della precarietà. Per farlo, attraversa una serie di dialoghi: con i filosofi (da Montaigne a Kierkegaard, da Arendt a Pascal), con gli scrittori (da Thomas Mann a Natalia Ginzburg, da Borges a Robert Musil, da Pavese a Camus), con l’intera genealogia dell’Europa che ha riflettuto sul naufragio e sulla misura.

Questi dialoghi non sono pedanti né accademici: sono affioramenti, risonanze, sussurri da epoche diverse che si intrecciano nella voce solitaria di Adriano. Voce che, pur nella finzione, ha saputo incarnare un pensiero necessario, una parola giusta, una possibilità di ascolto tra i rumori del mondo. Nella cultura odierna, attraversata da urgenze che sembrano consumare ogni riflessione, Yourcenar ci insegna che la lentezza del pensiero, la precisione dello sguardo, la compostezza del linguaggio sono ancora forme di responsabilità. Che il silenzio, se ben articolato, può diventare la più alta forma di parola.

IV. L’eredità di un pensiero fragile ma ostinato

Settant’anni dopo la sua pubblicazione, Memorie di Adriano continua a suscitare un ascolto silenzioso, una fedeltà profonda. Non perché contenga risposte, ma perché restituisce alle domande la loro gravità. Il romanzo non ci dice come salvare il mondo, ma ci mostra come non disprezzarlo. Non ci promette la pace, ma ci insegna a riconoscere quei momenti — rari, parziali, a volte quasi invisibili — in cui la pace si affaccia tra le guerre. Non ci offre salvezza, ma ci affida alla possibilità che le parole giustizia, libertà, umanità non siano solo rumori, ma sillabe vive.

Il saggio che segue tenta di accogliere questa lezione e di restituirla in forma di riflessione. Non come omaggio, ma come prosecuzione. Perché finché ci saranno lettori capaci di percepire, come Adriano, “i progressi parziali, gli sforzi di ripresa e di continuità” come prodigi, finché ci sarà qualcuno disposto a tentare di infondere senso nelle parole, allora quella voce — la voce composta e inquieta di Marguerite Yourcenar — non avrà mai smesso davvero di parlarci.



Introduzione

In Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar ci offre ben più di una meditazione senile sull’impero e sulla morte: ci consegna un’etica. Un’etica spoglia di illusioni, disincantata eppure profondamente partecipe, dove l’ordine non è mai promessa ma possibilità, mai dato ma scommessa. In un passaggio chiave, l’imperatore, giunto alle soglie della fine, ammette: “L’avvenire del mondo non mi angustia più”. Ed è proprio da questa resa — che non è sconfitta, ma lucidità — che il presente lavoro prende le mosse.

Questo saggio indaga la tensione che percorre quel momento centrale del romanzo: la tensione tra la rovina e il tentativo, tra la memoria e la responsabilità, tra il riconoscimento dell’atrocità della vita e l’ostinata ricerca di un senso. A partire da una lettura ravvicinata di poche righe, si apre un ampio arco di riflessioni che mette in dialogo Yourcenar con alcuni tra i pensatori più acuti della modernità e della contemporaneità: Montaigne, Spinoza, Camus, Simone Weil, fino ad Hannah Arendt e Pascal. Accanto a questi, il confronto si allarga a figure letterarie che, come Borges, Mann, Pavese, Musil e Ginzburg, hanno fatto della fragilità dell’umano e della resistenza del linguaggio il cuore della loro opera.

L’obiettivo di queste pagine è duplice: da un lato restituire la densità e la stratificazione di un’opera che, nel simulare una voce antica, parla radicalmente al nostro presente; dall’altro, mostrare come l’etica della precarietà, dell’ordine intermittente, del bene parziale che Yourcenar articola nella figura di Adriano, costituisca ancora oggi una delle più alte proposte morali della letteratura europea.



Capitolo I: La quiete dell’imperatore, la crisi dell’umano

L’opera di Marguerite Yourcenar, in particolare le Memorie di Adriano, non è mai stata un’esaltazione del potere né una celebrazione storica, ma piuttosto una riflessione sull’interiorità che persiste in condizioni di dominio, perdita e disillusione. Il passaggio che fa da fulcro di questo saggio — “L’avvenire del mondo non mi angustia più” — esprime un atteggiamento spirituale che, più che fatalismo, è un raffinato equilibrio tra lucidità e distacco. In questo equilibrio si intravede qualcosa di più di una poetica: una vera e propria etica del limite, che nasce dalla consapevolezza della propria irrilevanza e insieme della propria responsabilità.

Adriano è l’uomo che ha governato il mondo e che, giunto alla fine del suo potere e della sua vita, si guarda indietro senza eccessi di rimorso, ma neppure con indulgenza. La quiete che lo pervade — e che affiora in ogni frase — è il risultato di un lungo processo di sottrazione: ha dismesso le illusioni della gioventù, le ambizioni della gloria, l’inganno della durata. Rimane la nudità del pensiero. E con essa, un senso paradossale di pace. Non la pace storica, che egli stesso ha cercato di garantire all’impero attraverso le sue riforme, i suoi viaggi, le sue guerre. Ma una pace interiore, fatta di consapevolezza della discontinuità dell’umano e della provvisorietà di ogni ordine.

Questa quiete è tutt’altro che passiva. È una forma di resistenza: la resistenza di chi ha deciso di non cedere né all’angoscia né alla speranza ingenua. In questo, Adriano si colloca idealmente nella scia dei pensatori che hanno saputo parlare del potere senza esserne sedotti, che hanno attraversato la storia non per cantarne la gloria ma per osservarne le crepe. Come Seneca, egli vive da stoico nell’impero, ma con una consapevolezza che lo rende in fondo tragico: il fatto che nessun ordine dura, che nessuna armonia è definitiva.

L’intera architettura del romanzo si costruisce su questa tensione. Il lettore moderno, abituato a leggere l’impero romano come luogo di decadenza o di brutalità, si ritrova invece immerso in una riflessione sobria, affilata, profondamente umana. Non si tratta di restaurare il mito dell’uomo giusto al potere, ma di restituire alla figura del governante una dimensione di interiorità, di dubbio, di vulnerabilità. L’imperatore che parla non è un monumento, ma una coscienza. E questa coscienza si presenta al lettore con una sincerità disarmante, a volte persino inquietante.

Nel contesto del secondo dopoguerra, quando il romanzo fu pubblicato, questa voce si oppose silenziosamente alle voci trionfali o disperate che occupavano lo spazio della cultura. Yourcenar non prende partito, non denuncia, non predica. Ma nella sua scelta di ritrarre un potere che pensa, un uomo che medita sui propri limiti, c’è una presa di posizione fortissima contro la disumanizzazione che aveva travolto l’Europa. La quiete di Adriano è anche la risposta a un secolo di rumori e macerie.

Se dunque l’“angoscia per l’avvenire del mondo” si dissolve, non è perché il mondo è migliorato o perché l’imperatore si è rassegnato. È perché la sua coscienza ha fatto un passo oltre: ha accettato che il caos è inevitabile, ma anche che l’ordine — sebbene intermittente — è possibile. E che questa possibilità va custodita, anche quando sembra destinata a scomparire. La pace interiore di Adriano, che non è né religiosa né ideologica, si fonda proprio su questo paradosso: accettare il peggio per salvare il poco che può essere salvato. È una lezione di rara forza morale, che il nostro tempo, in perenne stato di crisi, ha ancora tutto da apprendere.



Capitolo II: Il tempo e la parola: la forma epistolare come meditazione

La scelta della forma epistolare in Memorie di Adriano non è un mero artificio letterario. È, invece, l’esito di una riflessione profonda sulla natura della memoria, del linguaggio e del tempo. L’epistola, nella tradizione occidentale, non è solo mezzo di comunicazione, ma dispositivo di meditazione, forma intima di pensiero in atto. Nelle mani di Yourcenar, essa si trasforma in un laboratorio della coscienza, in uno spazio sospeso in cui il passato non è mai del tutto chiuso, e il presente si fa costantemente trasparente alla sua perdita.

Scrivere a Marco Aurelio — destinatario ideale, successore reale, ma in questo caso interlocutore silenzioso — diventa per Adriano un gesto di trasmissione, ma anche di resa. Egli affida le sue parole non a un popolo, non alla storia, ma a un singolo, quasi a dire che ogni forma di saggezza, per quanto universale, può essere compresa solo in un dialogo privato, irripetibile, delicato come un rapporto tra maestro e discepolo, tra padre e figlio, tra uomo e uomo.

In questo senso, l’epistola è una forma che introduce il tempo nella scrittura. Essa non è una dichiarazione ma una durata; non è un manifesto, ma un’attesa. Adriano non annuncia, racconta. Non proclama, riflette. Ogni frase ha il peso dell’irrevocabile, ma anche la leggerezza dell’ipotesi. L’epistola rende possibile la digressione, la lentezza, la divagazione. Ma soprattutto, permette alla voce del morente di prendere congedo non dal mondo, ma da se stesso. E questa forma di congedo è quanto di più umano la letteratura possa ospitare.

Il tempo del romanzo, così, si struttura non secondo una cronologia degli eventi, ma secondo una logica interiore. È il tempo del ripensamento, della nostalgia, del bilancio. Adriano non racconta i fatti per registrarli, ma per capirli. Li ripercorre come un archeologo che scava nella propria vita alla ricerca di un ordine possibile. In questo senso, ogni episodio — dalla guerra in Giudea all’amore per Antinoo, dalle riforme amministrative al rifiuto della vendetta — viene riletto non per ciò che è stato, ma per ciò che continua a significare.

In questo lento movimento della scrittura, la parola assume una funzione decisiva. È la parola che resiste alla morte, che tenta di dare forma a ciò che sfugge, che si fa corpo e respiro. La parola, in Yourcenar, è sempre scelta con rigore, cesellata come un oggetto antico, scolpita come una statua greca. Non c’è ridondanza, non c’è sfoggio: solo l’ostinata volontà di dire l’essenziale. E l’essenziale, in queste pagine, è sempre qualcosa che riguarda il rapporto tra il tempo e la responsabilità, tra il vivere e il tramandare.

Ciò che viene consegnato a Marco Aurelio non è quindi un’eredità politica, ma un’esortazione silenziosa alla vigilanza: vigilare su di sé, sul proprio potere, sul proprio desiderio di ordine. Adriano non pretende di essere imitato, né di essere compreso del tutto. Chiede solo che le sue parole trovino ascolto. E in questo ascolto si gioca tutto: la sopravvivenza di una voce oltre la morte, la possibilità che la parola, pur fragile, contenga ancora una forma di verità.

In un’epoca in cui la comunicazione è spesso urlata, immediata, performativa, Memorie di Adriano ci propone l’opposto: un pensiero che si raccoglie, che si ritrae, che sussurra. La lettera diventa così non solo una forma narrativa, ma una pratica spirituale. Un esercizio di attenzione. Una meditazione sulla durata e sul senso. Scrivere, per Adriano, è un modo di restare umano fino alla fine. E leggere le sue parole, oggi, è un invito a rientrare nel tempo profondo della riflessione, là dove ogni cosa può ancora essere compresa.



Capitolo III: Tra ordine e caos: l’etica dello sguardo lucido

Uno dei nodi centrali di Memorie di Adriano — e uno dei suoi più persistenti insegnamenti — riguarda la tensione tra il desiderio di ordine e l’inevitabilità del caos. In questo senso, Adriano non è semplicemente un imperatore che governa un impero: è un uomo che prova, con strumenti limitati, a tracciare un confine nella sabbia del tempo. La sua esperienza non è diversa da quella di ogni essere umano che tenti di orientarsi in un mondo fragile, instabile, minacciato dalla violenza e dall’oblio.

La famosa frase che funge da perno di questo saggio — “Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l’ordine” — condensa una delle più alte forme di lucidità morale. In essa non c’è né ottimismo né rassegnazione. C’è invece l’accettazione profonda di un’alternanza: non quella astratta del bene e del male, ma quella più concreta tra il disfacimento delle strutture e la loro ricostruzione, tra l’angoscia dell’assenza di senso e la grazia di un senso che, talvolta, emerge.

Adriano è consapevole che l’ordine, in quanto tale, non è eterno, né garantito. Al contrario: è sempre da guadagnare, da proteggere, da reinventare. Ma proprio questa consapevolezza lo rende prezioso. L’ordine che conta non è quello imposto con la forza, né quello codificato nei testi di legge. È l’ordine interiore, quello che rende possibile la misura, la giustizia, la delicatezza nei gesti e nelle decisioni. È l’ordine che permette di vivere con sobrietà anche nella decadenza, e che si manifesta nei dettagli: nel modo in cui si ascolta un altro essere umano, nel modo in cui si dispone la luce in una stanza, nel modo in cui si riconosce ciò che non può essere cambiato.

Yourcenar costruisce questa visione attraverso una scrittura che è essa stessa ordine. L’equilibrio delle frasi, la struttura dei paragrafi, l’alternanza di registri — tutto contribuisce a creare un senso di compostezza, anche quando si parla della morte, della follia, del fallimento. La forma del romanzo rispecchia la sua etica: una forma che non urla, che non travolge, ma che guida il lettore dentro un mondo complesso con chiarezza e grazia. Questo equilibrio formale è tutt’altro che freddo: è un modo per contenere la vertigine.

Nella figura di Adriano, l’ordine non è più un progetto imperiale, ma una postura dell’anima. Egli non crede più nella possibilità di dominare il futuro, ma non smette di credere che si possa abitare il presente con dignità. Questa è la sua scommessa, e anche il suo lascito. Il caos trionferà, sì — ma non definitivamente. E ogni volta che un essere umano riesce a custodire un gesto di bontà, una parola precisa, una legge giusta, quell’ordine intermittente torna a brillare, anche solo per un attimo.

In questo senso, lo sguardo di Adriano non è quello del profeta né quello del cinico. È uno sguardo che ha visto troppo per credere nella permanenza, ma che ha anche visto abbastanza per non rinunciare del tutto alla speranza. È uno sguardo che non elude la rovina, ma che la attraversa senza farsene travolgere. E proprio in questa traversata si compie una delle esperienze morali più profonde del romanzo: imparare a vivere sapendo che nulla dura, e tuttavia agire come se ogni gesto potesse avere senso.

Il lettore contemporaneo trova in questa etica dello sguardo lucido una bussola. In un tempo che sembra oscillare tra l’apocalisse e il consumo, tra l’indifferenza e il panico, la voce di Adriano invita a un’altra forma di esistenza: più lenta, più attenta, più fragile ma più vera. Non una via di salvezza, ma un sentiero possibile. Un sentiero fatto di scelte parziali, di giustizie temporanee, di equilibri provvisori. Eppure, proprio per questo, un sentiero che vale la pena percorrere.



Capitolo IV: Spinoza, Montaigne, Pascal: la ragione e il limite

Le Memorie di Adriano si presentano, in superficie, come un romanzo storico; ma a un’analisi più profonda, rivelano la struttura di un’opera filosofica disseminata di riferimenti, echi, consonanze. Yourcenar non cita direttamente i filosofi, ma la sua scrittura — così misurata, così densa — testimonia una familiarità profonda con il pensiero europeo, in particolare con quella corrente di pensiero che potremmo definire etica della lucidità, incarnata da figure come Spinoza, Montaigne e Pascal.

Tra questi tre pensatori — così diversi per temperamento e visione del mondo — corre un filo comune: l’attenzione per la condizione umana nella sua fragilità e la volontà di dare senso al limite, alla finitezza, alla precarietà. È proprio questo il tratto che li lega ad Adriano, e attraverso di lui a Yourcenar.

Spinoza offre un punto di partenza decisivo. La sua etica, fondata sulla comprensione della necessità e sulla potenza della mente che comprende, risuona in Adriano ogni volta che questi rinuncia all’illusione del controllo. Quando l’imperatore afferma di non affaticarsi più per calcolare la durata della pace romana, sembra far propria l’idea spinoziana secondo cui la libertà non consiste nel dominio, ma nella comprensione dell’ordine necessario delle cose. L’imperatore che rinuncia all’angoscia non è un fatalista, ma qualcuno che ha accettato di pensare sub specie aeternitatis — dalla prospettiva dell’eternità, come avrebbe detto Spinoza — e da questa visione deriva la sua pace.

Montaigne, dal canto suo, è presente in ogni tratto della scrittura yourcenariana. Il suo stile fatto di digressioni, di affondi improvvisi, di riflessioni che si piegano all’esperienza personale, è il modello nascosto delle Memorie. Montaigne insegna a guardare l’umano senza superbia e senza disprezzo. Ogni essere umano è un microcosmo, e nessuna verità può essere definitiva. In Adriano, questa lezione si traduce in una forma di saggezza aperta, disponibile, mai assoluta. La sua voce è quella di un uomo che, come Montaigne, ha imparato a pensare attraverso le sue stesse contraddizioni, e che ha fatto della conoscenza di sé un esercizio di equilibrio.

Infine, Pascal introduce una tensione più acuta, più drammatica, che però non è estranea alla coscienza di Adriano. Pascal vede nell’uomo un essere lacerato tra grandezza e miseria, tra la ragione e l’abisso. Questa lacerazione è presente anche nelle Memorie, soprattutto nel modo in cui Adriano riflette sulla morte, sull’amore per Antinoo, sulla precarietà delle istituzioni umane. Pascal parla dell’uomo come di una “canna pensante”: fragile, destinata a spezzarsi, ma capace di pensare la propria fragilità. Adriano è, in questo senso, una canna pensante imperiale. La sua grandezza non risiede nel comando, ma nella sua consapevolezza del nulla. È un uomo che ha toccato il potere assoluto, e che proprio da quella vertigine ha imparato la modestia del pensiero.

Nel confluire di questi tre filosofi, Yourcenar costruisce una figura che è al tempo stesso antica e modernissima. Adriano non propone un sistema, non professa una dottrina. Ma la sua voce, il suo sguardo, la sua malinconia, raccontano di un’etica che conosce il limite e lo abita senza panico. Egli non cerca di superarlo, né di cancellarlo. Ne fa il proprio spazio di esistenza. Ed è in questo spazio che si gioca, forse, la possibilità di una forma di umanesimo che non sia illusorio, ma tenace, sobrio, necessario.

Questo capitolo, in dialogo con Spinoza, Montaigne e Pascal, mostra come Memorie di Adriano non sia soltanto un romanzo sul potere, ma un’opera che custodisce — nella sua struttura, nella sua lingua, nella sua visione — una delle più alte forme di meditazione laica sul senso del vivere e del morire. In essa, la filosofia si fa carne, si fa voce, si fa esperienza. Ed è forse proprio per questo che continua a parlarci ancora oggi.




Capitolo V: Simone Weil e Albert Camus: l’assurdo e la grazia

Nel cuore della riflessione etica contenuta nelle Memorie di Adriano, si apre un varco per due pensatori che, pur operando in un’epoca radicalmente diversa da quella dell’imperatore romano, incarnano una visione del mondo inquieta e rigorosa, nutrita da un senso profondo della sproporzione tra l’umano e il reale. Simone Weil e Albert Camus sono figure centrali per comprendere come Marguerite Yourcenar abbia dato forma, attraverso la voce di Adriano, a un’etica che tiene insieme consapevolezza del male e fedeltà a un bene fragile ma ostinato. Se Spinoza, Montaigne e Pascal forniscono il fondamento razionale ed esistenziale del limite, Weil e Camus introducono il senso del vuoto e della resistenza: l’uno come assurdo da abitare, l’altra come grazia da accogliere.

Simone Weil, con la sua tensione intransigente verso il bene, la giustizia e la purezza dell’attenzione, ha scritto che “ciò che è sacro, ben lungi dall’essere ciò che l’uomo tocca con fiducia, è ciò che non si può toccare senza essere colpiti da una ferita mortale.” In questa visione, la giustizia non è un diritto acquisito, ma un evento raro, un miracolo fragile, che si manifesta quando il potere si arresta e l’altro viene visto nella sua nudità. Adriano, nel suo progressivo distacco dalle illusioni del potere, sembra seguire questa lezione weilliana: la pace, la giustizia, la continuità che egli celebra non sono conquiste, ma prodigi, interruzioni della violenza, brevi apparizioni della grazia nel mondo.

Ma Weil introduce anche un concetto che Yourcenar condivide profondamente: l’attenzione. Adriano è, in tutto il romanzo, un uomo che guarda. Che osserva se stesso, gli altri, l’impero, i cieli, le rovine, la bellezza. La sua è una vita costruita sull’attenzione e sulla memoria. In ciò, egli è sorella e fratello di Simone Weil, per la quale solo l’attenzione salva, perché soltanto l’attenzione toglie il mondo dal regno dell’abitudine e lo restituisce alla luce.

Albert Camus, da parte sua, sviluppa una filosofia dell’assurdo che trova nell’azione senza garanzia di senso la più alta forma di dignità. L’uomo assurdo è colui che sa che il mondo è privo di risposte ultime, eppure agisce. Non per trarre un vantaggio, ma per affermare un’adesione al reale. Memorie di Adriano condivide questo sguardo. L’imperatore non si illude più: non attende salvezza né giudizio. Ma non per questo smette di agire. Egli costruisce, pensa, riforma, educa, ama. La vita, dice Camus, è la somma degli sforzi compiuti “con la certezza dell’assurdo e la fedeltà alla terra.” Adriano non cerca un altro mondo: cerca di comprendere questo, con tutte le sue brutture e le sue epifanie.

In L’uomo in rivolta, Camus descrive la rivolta non come negazione ma come fedeltà. L’uomo che si rivolta non dice solo “no”, ma dice anche “sì” a un valore, a una dignità che vuole salvare. Adriano, nella sua scelta di non farsi più tormentare dall’avvenire del mondo, si rivolta in questo senso: egli dice sì alla possibilità che l’ordine, la giustizia, l’umanità abbiano ancora un senso, anche se provvisorio. In questo, la sua postura è più che stoica: è tragica nel senso più nobile del termine, ovvero consapevole del destino eppure operante dentro il tempo.

Weil e Camus, pur non avendo mai dialogato direttamente con l’opera di Yourcenar (e viceversa), sono in essa profondamente presenti. La loro idea che l’azione umana sia valida non in quanto efficace ma in quanto giusta, che il bene sia raro ma possibile, che la coscienza sia l’unico baluardo contro la disintegrazione morale — tutto questo risuona nella figura di Adriano. E risuona, soprattutto, in quella frase che è il cuore del romanzo: “Mi affido agli dèi.” Una frase che, letta nella chiave di Camus e Weil, non è affermazione religiosa, ma atto di abbandono, di fiducia in qualcosa che non si può possedere. Una fede senza dogma, una grazia senza promessa.

In questo capitolo, dunque, abbiamo voluto mostrare come l’etica intermittente e modesta di Adriano non sia una rinuncia, ma un modo alto e sottile di resistere. Weil e Camus, in modi diversi, offrono le categorie per comprendere questa resistenza: l’una attraverso il concetto di attenzione e il mistero della grazia; l’altro attraverso il rifiuto del nichilismo e la scelta del bene come rivolta. In entrambi i casi, come nel romanzo di Yourcenar, la domanda non è se il mondo meriti di essere salvato, ma se l’uomo sia ancora capace di salvare in sé qualcosa di umano.



Capitolo VI: Hannah Arendt e la politica del fragile

In un’opera in cui la riflessione sul potere è intimamente intrecciata a quella sulla fragilità, non può non emergere, come interlocutrice ideale, la figura di Hannah Arendt. Pur non avendo mai scritto direttamente di Marguerite Yourcenar, il pensiero arendtiano e le Memorie di Adriano si parlano a distanza, come due luci che si rifrangono sul medesimo specchio: quello del XX secolo, segnato da imperi crollati, genocidi, totalitarismi e, forse per la prima volta, da una consapevolezza nuova e radicale della precarietà della condizione umana.

Il rapporto tra politica e fragilità è centrale nell’opera di Arendt. In Vita activa, essa distingue tra tre forme di attività umana: il lavoro, l’opera, e l’azione. È quest’ultima — l’azione — a costituire il cuore della sua riflessione sulla politica. L’azione, a differenza del lavoro (che è necessità) o dell’opera (che è produzione), è il luogo dell’imprevedibile, dell’irripetibile, dell’apertura all’altro. Essa nasce quando gli uomini si mettono in relazione nel mondo pubblico, nel logos, nella parola condivisa. Ed è proprio in questa idea che possiamo ritrovare un legame profondo con Adriano.

Nelle Memorie, l’imperatore riflette continuamente sul senso del potere, sulle sue ambiguità, sullo scarto tra l’intenzione e l’effetto. Egli sa che governare significa, spesso, scegliere il male minore. Ma sa anche — e questo è il tratto arendtiano — che il potere autentico non è mai fondato sulla violenza, bensì sul consenso, sulla parola, sulla fiducia. La sua lettera a Marco Aurelio, in questo senso, non è solo un testamento personale, ma un atto politico nel senso più alto: un gesto che cerca di lasciare al futuro un orientamento, non una verità assoluta.

Arendt ha insistito molto sul concetto di natalità, in opposizione all’idea di mortalità che domina la filosofia esistenzialista. La natalità è la possibilità di iniziare qualcosa di nuovo. Ogni essere umano, nascendo, inaugura un mondo possibile. In questa chiave, Memorie di Adriano può essere letto come un’opera fondata sulla tensione tra fine e inizio. L’imperatore, morente, non consegna un ordine compiuto, ma il racconto di una lotta continua tra caos e forma, tra rovina e ordine. Egli non propone una dottrina da conservare, ma una possibilità da riattivare. E proprio questo lo rende, in senso arendtiano, politico: non per ciò che ha fatto, ma per ciò che ha reso pensabile.

C’è poi un altro punto di contatto: il rifiuto dell’ideologia. Arendt ha mostrato come le ideologie — fascismo, comunismo, razzismo — abbiano devastato il secolo proprio perché pretendevano di racchiudere il senso della storia in una struttura necessaria, eliminando la contingenza, la pluralità, l’imprevisto. Yourcenar, nella sua ricostruzione della voce di Adriano, propone l’opposto: un pensiero che accetta la contraddizione, che non cerca rifugi consolatori, che riconosce l’irriducibilità dell’umano. In ciò, la sua scrittura è una forma di resistenza.

Adriano non è un sovrano che crede nella propria missione salvifica. È, piuttosto, un uomo che ha cercato di contenere il male, di sostenere il fragile, di mantenere uno spazio di vita in un mondo che tende alla distruzione. Questo è, per Arendt, il compito della politica: non salvare l’uomo, ma creare le condizioni affinché l’uomo possa nascere ancora, possa parlare, possa agire. La politica non come dominio, ma come spazio di possibilità. Come luogo in cui l’azione fragile degli esseri umani si inscrive nel tempo.

Infine, c’è una consonanza profonda tra le due autrici nella loro idea di storia. Arendt ha sempre rifiutato la visione teleologica della storia, e ha preferito pensare in termini di frammenti, di narrazioni, di memoria discontinua. Anche Yourcenar lavora con una storia fatta di fratture: non il progresso, ma la permanenza intermittente dell’umano; non la civiltà come marcia trionfale, ma come accumulo precario di momenti di lucidità. È in questi momenti — scrive Adriano — che le parole umanità, giustizia, libertà ritrovano il loro senso.

Dunque, leggere Memorie di Adriano attraverso lo sguardo di Arendt significa comprenderne la natura profondamente politica. Non nel senso dei decreti, delle guerre o delle riforme, ma nel senso di una politica del fragile: una politica che riconosce la vulnerabilità come punto di partenza, la parola come strumento primario, e la memoria come condizione della responsabilità. In questo senso, l’opera di Yourcenar continua a parlarci oggi, in un’epoca che sembra aver dimenticato proprio la fragilità dell’umano che la politica dovrebbe custodire.



Capitolo VII: Borges, Mann, Pavese: l’ombra della memoria

La dimensione letteraria delle Memorie di Adriano si apre a un confronto fecondo con alcune figure centrali del modernismo e del primo secondo Novecento, in particolare con Jorge Luis Borges, Thomas Mann e Cesare Pavese. Se nei capitoli precedenti abbiamo indagato il rapporto tra Marguerite Yourcenar e il pensiero filosofico, qui ci muoviamo sul terreno dell’estetica e della memoria narrativa, osservando come il romanzo di Yourcenar si collochi in un dialogo sotterraneo ma persistente con questi tre autori che, ognuno a suo modo, hanno interrogato la storia, il tempo, la morte e la costruzione dell’identità attraverso la scrittura.

Borges è il primo grande specchio. Nonostante le differenze geografiche e culturali, vi è una profonda affinità tra lo sguardo di Borges e quello che Yourcenar attribuisce ad Adriano. Entrambi sono ossessionati dalla vertigine del tempo e dal mistero del linguaggio. In racconti come El inmortal o El Aleph, Borges costruisce personaggi che vivono nell’eternità o accedono a una percezione totale del mondo, salvo poi precipitare nella solitudine e nel dubbio. Adriano, per parte sua, vive un tempo "lungo", ma lo attraversa con la coscienza che la durata è illusoria, che anche il più solido impero è destinato a frantumarsi. Come Borges, Yourcenar si interroga sul peso della memoria: non come archivio del passato, ma come labirinto in cui ci si perde e ci si ritrova. Il tempo, nei due autori, non è mai lineare: è circolare, incrinato, interrotto. È sempre una forma di pensiero.

Thomas Mann, e in particolare il Mann di La morte a Venezia e Giuseppe e i suoi fratelli, rappresenta un altro polo della riflessione estetico-filosofica che attraversa il secolo. Come Adriano, anche i protagonisti manniani sono uomini che pensano, che ricordano, che osservano il crollo delle forme e cercano di salvarne la bellezza. C’è in entrambi una tensione erotica e intellettuale che si intreccia con il destino storico. L’amore per Antinoo, nel romanzo di Yourcenar, ha molto dell’amore per Tadzio: è l’irruzione del mito e del desiderio nella storia, è la bellezza che spezza il discorso del potere. Ma mentre Aschenbach muore consunto dal proprio delirio estetico, Adriano elabora l’assenza come passaggio alla parola. È qui che Yourcenar si distacca da Mann: dove lui sceglie la decadenza, lei offre una forma di resistenza. L’arte non è più sola bellezza, ma memoria attiva, responsabilità del dire.

Infine, Pavese. La sua vita col mito, per usare una celebre formula, è una chiave d’accesso essenziale per capire come Yourcenar rielabori l’antichità. In Dialoghi con Leucò, Pavese aveva già intuito che il mito è ciò che permette di parlare della disperazione con precisione. Yourcenar, attraverso Adriano, usa il passato non come rifugio, ma come dispositivo critico. C’è nel suo testo la stessa tensione pavesiana tra il bisogno di appartenenza e il sentimento dell’esilio. Come Pavese, anche Yourcenar sa che ogni pensiero profondo è solitario, e che ogni ritorno è impossibile. Ma ciò non impedisce di scrivere. Anzi: è proprio la consapevolezza dell’irrimediabile che rende necessario il gesto letterario.

E non è un caso che Pavese e Yourcenar si incontrino anche nella figura della morte. Entrambi la concepiscono non come finale biologico, ma come chiusura simbolica, come dissoluzione della voce. Adriano si avvicina alla morte con la compostezza di chi ha detto tutto ciò che poteva; Pavese, con la tragica urgenza di chi non riesce più a parlare. Ma in entrambi, resta il libro come reliquia, come traccia, come possibilità di sopravvivenza della coscienza. Scrivere diventa così un atto contro la fine: non un’esorcizzazione, ma una forma di testimonianza.

In questo confronto con Borges, Mann e Pavese, le Memorie di Adriano rivelano il loro statuto più profondo: non solo romanzo storico, né solo meditazione etica, ma grande macchina di memoria. Un’opera che interroga il tempo nella sua pienezza e nella sua rovina, e che riconosce nella parola — imperfetta, fragile, provvisoria — l’unico luogo possibile per ospitare ciò che passa. Un’etica della parola come custodia dell’umano: ecco ciò che unisce questi scrittori, e che rende la voce di Adriano ancora necessaria.



Capitolo VIII: Kierkegaard, Musil e Ginzburg: l’interiorità e il quotidiano

Nel corpus letterario e intellettuale che abbiamo costruito attorno a Memorie di Adriano, è giunto il momento di volgere lo sguardo a una triade eterogenea quanto necessaria: Søren Kierkegaard, Robert Musil e Natalia Ginzburg. Tre figure che, pur lontane nel tempo e nello stile, si raccolgono attorno a una stessa ossessione: comprendere la densità invisibile dell’interiorità umana, e mostrare come le forze decisive dell’esistenza si diano non nella spettacolarità dell’evento, ma nella piega, nel dettaglio, nel silenzio.

Kierkegaard, il filosofo della scelta e del paradosso, potrebbe apparire, a prima vista, lontanissimo dal mondo razionale e sobrio di Adriano. Ma è proprio nel terreno della solitudine pensante che i due si incontrano. Per Kierkegaard, la verità non è oggettiva né collettiva: è sempre verità per un singolo. E questa singolarità è una forma di urgenza, una responsabilità che non si può delegare. Adriano, nella sua lunga lettera, non afferma dogmi; egli medita. E nella meditazione, come nel pensiero kierkegaardiano, il centro non è la teoria ma la scelta: la decisione di aderire o no a un’etica del fragile, del possibile, del parziale. L’imperatore si muove in una sfera esistenziale, non sistematica. E proprio come Kierkegaard, egli affronta il mistero della morte non come una fine biologica, ma come uno spazio che impone verità: ciò che si pensa quando non si può più mentire.

Robert Musil, d’altra parte, si offre come controcanto lucido e analitico alla figura di Adriano. In L’uomo senza qualità, Musil descrive una società in dissoluzione, in cui l’intelligenza diventa inazione e il pensiero puro un alibi per la paralisi. Ma in Ulrich, come in Adriano, si cela la nostalgia per una forma di esattezza spirituale: un ordine interiore che non esiste, ma che vale la pena cercare. La differenza è che Adriano non si arresta nella riflessione: egli agisce, e la sua azione è sorvegliata, cosciente, misurata. Ma l’ideale di un’etica del pensiero resta comune. Musil scrive che “chi ha carattere non ha qualità”: l’identità, per lui, è un tessuto mobile. Anche per Adriano, l’io non è un’essenza, ma una costruzione: la sua memoria è un laboratorio, non un archivio. L’autonarrazione diventa così un modo per resistere all’informe.

In questa costellazione, la figura di Natalia Ginzburg può sorprendere — e tuttavia, è essenziale. La sua scrittura, così semplice e radicata nel quotidiano, rappresenta un’etica che si rivela nei gesti minimi, nelle cose non dette, nella fatica della sopravvivenza. Ginzburg non è teorica: è testimone. Eppure, in questa testimonianza asciutta e severa, c’è una profondità che richiama quella di Yourcenar. Anche in Lessico famigliare o La strada che va in città, l’interiorità è la sola patria possibile, e la scrittura serve a salvarne le tracce. In questo, Ginzburg e Yourcenar si tengono per mano: entrambe rifiutano l’enfasi, entrambe credono che la parola giusta sia un fatto morale. Adriano, che ha comandato eserciti, finisce per cercare il senso nel volto di Antinoo, nella forma delle mani, nella memoria di un profumo. È qui, nel dettaglio insignificante, che l’interiorità prende voce.

Ginzburg e Yourcenar si ritrovano anche nella consapevolezza della perdita. Scrivono dalla soglia, non dal centro. E la soglia — quella della morte, del dolore, del disincanto — diventa un luogo abitabile solo attraverso la scrittura. Il romanzo diventa così non evasione, ma riparo: uno spazio fragile dove l’io può ancora dire io, senza illudersi di salvarsi, ma con l’ostinazione di chi, pure, non rinuncia al linguaggio.

Kierkegaard, Musil, Ginzburg: tre sguardi obliqui, tre forme di resistenza. In ognuno di loro, come in Adriano, la coscienza è ciò che resta quando tutto si sgretola. E se la storia è destinata a ripetere il caos, se la vita è segnata dalla perdita, allora sarà nella forma — la forma del pensiero, del ricordo, della pagina — che si giocherà ancora una possibilità. Anche minima, anche fallibile. Ma non meno necessaria.



Capitolo IX: La ricezione contemporanea: attualità e silenzio

A settant’anni dalla pubblicazione di Memorie di Adriano, la domanda che molti lettori e critici si pongono è la seguente: come si colloca oggi, nella nostra epoca attraversata da crisi identitarie, post-verità e incertezza politica, un’opera come quella di Marguerite Yourcenar, così appartata, così classica, così priva di spettacolo? Eppure, forse proprio in questa sua distanza risiede la sua perdurante attualità.

Nel panorama letterario contemporaneo, dominato da urgenze immediate, confessioni biografiche esasperate e linguaggi frantumati, il romanzo yourcenariano sembra provenire da un altro pianeta. E tuttavia, le sue domande essenziali — Che cosa significa vivere con misura? Qual è il senso dell’eredità? Come abitare il tempo? — sono oggi più che mai le nostre. Non perché il mondo somigli all’Impero romano del II secolo, ma perché la fragilità dell’umano, il limite del potere, il dolore della perdita, la ricerca di senso in mezzo al disincanto, restano invarianti antropologici. In questo senso, Memorie di Adriano non è mai stato un libro storico: è un libro fuori dal tempo, o meglio, in attesa del tempo giusto per essere riletto.

La ricezione critica ha conosciuto fasi alterne. Accolto come un capolavoro al momento dell’uscita (1951), il romanzo divenne subito oggetto di culto per lettori raffinati, filosofi, storici, ma anche — e non meno significativamente — per quegli spiriti inquieti che cercavano un modello etico nella ricostruzione post-bellica dell’Europa. Adriano parlava con la voce di chi aveva attraversato la rovina e aveva scelto, nonostante tutto, di continuare a pensare e a testimoniare. Non fu un caso che figure come Maria Zambrano o Albert Camus ne intuirono subito la potenza umanistica e civile.

Tuttavia, con il mutare dei paradigmi culturali, Yourcenar venne in parte eclissata. L’avvento del postmoderno, con il suo scetticismo verso la forma classica e la diffidenza nei confronti del "grande stile", relegò Memorie di Adriano a un canone d’élite. Anche il mondo accademico, sempre più spinto verso la teoria e l’ideologia, non sempre seppe fare spazio alla sobrietà meditativa della scrittrice. Per alcuni decenni, il romanzo fu letto quasi esclusivamente come un esempio di pastiche letterario ben riuscito: una ricostruzione archeologica, un esercizio di virtuosismo, più che un'opera capace di parlare al presente.

Ma oggi, in un tempo segnato dalla frattura tra linguaggio e senso, tra emozione e forma, l’opera di Yourcenar torna a risplendere come un monito. Non si tratta più di imitare il suo stile, né di replicare la sua eleganza formale. Si tratta piuttosto di ascoltare, dietro la compostezza della prosa, una voce che ha scelto la responsabilità dell’esattezza, la misura del pensiero, la centralità dell’umano. In questo, Memorie di Adriano può essere letta accanto a quei pochi testi che non offrono soluzioni, ma pongono domande irriducibili — come le opere di Primo Levi, di Anna Maria Ortese, o del tardo Sebald.

È significativo che il romanzo abbia trovato una nuova vita anche fuori dai circuiti letterari tradizionali. Alcune scuole lo adottano come testo di riflessione filosofica; altri lo propongono nei corsi di meditazione laica; persino alcuni giovani artisti e drammaturghi ne traggono adattamenti per performance intime, silenziose, essenziali. Questo perché la voce di Adriano, nel suo farsi corpo attraverso la parola, rimane una voce che chiama. Una voce che non si impone, non urla, ma attende di essere accolta.

E tuttavia, c’è anche un silenzio che circonda questo libro. Il silenzio della letteratura che non cerca la cronaca. Il silenzio della scrittura che non ha bisogno di rumore per durare. Il silenzio, infine, del lettore che, finita l’ultima pagina, non sente di aver chiuso un romanzo, ma di aver ascoltato un lungo monologo notturno, come quelli che precedono la fine o il risveglio.

Forse è proprio questa la funzione di Memorie di Adriano nel nostro presente: offrire una grammatica del raccoglimento, un modello di attenzione, una forma di resistenza interiore. E se oggi il mondo sembra aver dimenticato come si pensa in profondità, come si ama in silenzio, come si governa senza cinismo, il romanzo di Marguerite Yourcenar resta lì, come un lume fragile ma tenace, in attesa che qualcuno lo riaccenda.



Conclusione: L’eredità inquieta della lucidità

Memorie di Adriano è un libro che respira al ritmo lento della coscienza. È un’opera scritta non per dimostrare, ma per custodire: custodire una voce, una visione, una postura dell’anima di fronte al tempo. In questo senso, il romanzo di Marguerite Yourcenar non è mai stato, e non sarà mai, soltanto un romanzo storico. È una meditazione spirituale e politica che attraversa i secoli per raggiungere il cuore di ciò che chiamiamo umano.

Nel corso di queste pagine abbiamo visto come la figura di Adriano si collochi all’incrocio tra i grandi nomi del pensiero filosofico — da Spinoza a Camus, da Montaigne a Weil, da Kierkegaard a Arendt — e alcune tra le più alte voci della letteratura novecentesca — Borges, Mann, Pavese, Ginzburg. Non si tratta di un semplice gioco di echi: si tratta di riconoscere, in questa figura imperiale e malinconica, un laboratorio complesso in cui il pensiero si fa corpo, in cui la politica si fa introspezione, in cui il dolore si fa stile.

Adriano è un personaggio che ha perso le illusioni ma non la misura. La sua lucidità non è fredda, bensì sofferta. Sa che la storia è impastata di sangue e inganno, ma continua a credere — ostinatamente — nella possibilità di un bene, seppur fragile, seppur temporaneo. Questa è la sua eredità, ed è anche quella che Yourcenar ci trasmette con una compostezza che rasenta il sacro: non la fede in un destino, ma la fedeltà a un certo modo di vivere, pensare, scrivere.

Il tempo presente — così lacerato, così disorientato — ha bisogno di questa lezione di lucidità. Non perché Adriano abbia qualcosa da insegnarci in senso didascalico, ma perché la sua voce ci obbliga a una forma di attenzione, a un rallentamento, a una sospensione. Ci ricorda che si può essere potenti e insieme dubbiosi, che si può amare con violenza e morire con grazia, che si può abitare il mondo come se ne fosse l’ultimo testimone e, al tempo stesso, il primo fondatore.

La letteratura, ci dice Memorie di Adriano, non è fatta per offrire salvezze, ma per accompagnare le domande fondamentali. È fatta per chi non ha più illusioni ma non ha ancora ceduto al cinismo. È scritta per chi sa che l’unico eroismo possibile non è quello del gesto, ma quello del pensiero. Yourcenar ci consegna, con questo libro, un esempio perfetto di come si possa scrivere con misura senza rinunciare all’abisso, e pensare l’assurdo senza rinunciare alla responsabilità.

Chi legge Adriano non trova un modello, ma un compagno. Un uomo che ha cercato la bellezza e la giustizia, sapendo che sarebbero venute a tratti, come miracoli intermittenti. Un uomo che ha vissuto con attenzione. E che, proprio per questo, continua a vivere tra noi.