Curvo come uno spaventapasseri, così mi vedo, da sempre. Le ginocchia che sfregano come stracci, la fame che si è fatta postura, ricordo, compagnia. Un corpo leggero, nervoso, pelle tirata sopra ossa affamate di tutto. Il desiderio mi attraversa come un coltello: affilato, sporco, indispensabile. Il cappello da donna sulla testa non è una beffa: è una provocazione per chi mi guarda e decide di fermarsi. Gli uccelli mi scambiano per statua, ma gli uomini no. Gli uomini sanno.
Alla fontanella dietro un vecchio muro mi sono lavato per mesi, scrostando dal mio corpo odori e storie. Ma il sesso resta, entra nelle pieghe della pelle, sotto le unghie. Non se ne va. Ogni uomo che ho avuto mi ha lasciato dentro una piccola firma, un dolore acido, una carezza sporca. Non sono stato solo un passaggio, ero il rifugio momentaneo di chi voleva dimenticare. Loro venivano per consumarmi, io restavo a contare i loro respiri.
La cartolina per mia madre è sempre con me. Tre parole dietro un gelato grottesco. Non l’ho mai spedita. Lei non deve sapere. Lei non deve immaginare cosa ho fatto con il mio corpo, su che letti, dentro quali auto, per quanti euro o solo per una cena. Quando chiudo gli occhi, vedo le sue mani cucire, immagino il suo silenzio. E allora mi spoglio ancora, per rabbia, per vendetta, per bisogno.
Volevo arrivare al mare, ma sono rimasto impigliato nei letti sfatti dei motel, nei bagni dei distributori, nei sedili posteriori. Volevo pedalare via su una bicicletta blu, ma ho camminato a piedi nudi verso chiunque mi promettesse un orgasmo e un po’ di calore. Il mare era solo un’altra fantasia umida. La verità era la lingua di uno sconosciuto sulla mia gola, le dita che stringono troppo forte, lo sperma caldo che mi cola tra le gambe mentre sorrido come se fosse tutto normale.
Quella notte nei campi non era una notte: era un corpo senza nome sopra il mio, pesante, muto, e io lasciavo fare. Il buio ci copriva entrambi. Lui se ne andò senza voltarsi. Io rimasi lì, a leccarmi le labbra e a sentire il sapore salato, dolce, impuro. Nessuna rabbia. Solo stanchezza. Come dopo una corsa senza meta.
Il cielo non si è mai fatto vedere. Ma qualcuno mi ha guardato. Con occhi febbrili, mani tremanti, bocche che promettevano e poi scappavano. Non cercavo il cielo: cercavo pelle, calore, pressione. Il cielo era quello che vedevo piegandomi su un sedile, sdraiandomi su una coperta ruvida, lasciando che un altro entrasse dentro di me e mi dimenticasse subito dopo.
Quando mi sono fermato davvero, il cappello era ancora lì. La cartolina anche. Il mio corpo segnato, profumato di sesso, sapeva tutto di ciò che non si dice. Non volevo redenzione. Non c’era colpa. Solo desiderio, fame, necessità. E in quella nudità stanca, trovai finalmente la quiete.
Mi chiamavano in mille modi. Nomignoli sporchi, vezzeggiativi animaleschi. Nessuno mi dava un nome. Io rispondevo con il corpo. Aprivo la bocca, aprivo le cosce. Dormivo dove c’erano mani, mangiavo ciò che restava dopo una notte. A volte scopavo solo per non morire di solitudine. A volte godevo. A volte fingevo. Ma sempre restavo. Sempre offrivo.
In una baracca ho trovato un uomo che non voleva toccarmi. Voleva solo parlare. È stato peggio. Le sue parole entravano più in profondità dei corpi. Mi raccontava di figli perduti, e io pensavo ai miei aborti silenziosi: quelli della tenerezza, dell’innocenza, dell’amore. Ogni tanto, con giornali sporchi, inventavo storie. Racconti pieni di uomini che mi amavano davvero. Ma erano solo parole. Solo carta.
Una volta ho seppellito un gatto. Il suo corpo floscio, già freddo. L’ho toccato con una delicatezza che non riservavo a me stesso. L’ho posato nella terra come avrei voluto essere posato anch’io, dopo una notte. Nessuno ha pianto per lui. Nessuno piangerà per me.
Mi hanno offerto un panino. Io volevo un bacio. Ho guardato il panino per ore, come si guarda un amore non ricambiato. Avevo fame, ma non di cibo.
Non so da dove vengo. So solo che sono passato da troppi letti per ricordare tutti i nomi. Forse sono nato nella piega tra due corpi, nell’attimo in cui uno entra e l’altro accoglie. Ho vissuto lì, nell’urto, nel sudore, nello strappo. E non ho mai smesso di cercare.
Scrivevo frasi oscene sui muri. Non per provocare, ma per lasciare un segno. Come: "chi mi ha amato, mi ha preso tra i denti". Le parole restavano, io andavo. Le estati mi trovavano steso, nudo, bruciato dal sole, con il sapore di cento uomini sulla pelle. Nessuno mi raccoglieva. Ma a volte qualcuno si fermava. E quello bastava.
Poi arrivò l’inverno. Il gelo mi prese anche l’ultimo calore. Le mani che un tempo mi toccavano, ora mi evitavano. Il cane mi seguì solo fino alla soglia del cimitero. La cartolina finì tra le pagine di un libro lasciato aperto. E io scomparvi.
Oggi, una statua senza volto, con un cappello da donna e un biglietto nel taschino, resta in piedi al centro di un nulla. Gli uccelli ci girano attorno. E si dice che, se la sfiori passando su una bicicletta blu, per un istante il tuo corpo si ricorda di tutto ciò che ha taciuto. Anche il piacere. Anche la vergogna. Anche il cielo, se lo guardi mentre godi.