Dimenticare Venezia di Franco Brusati (1979) emerge in un’epoca in cui il queer era costretto a restare un sussurro clandestino, soffocato e invisibile. Il film, con la sua crudezza struggente, mette a nudo corpi sradicati e verità negate, smascherando l’ipocrisia di una società che preferiva il silenzio alla sincerità. Un’opera profetica e spietata, che denuncia con freddezza la violenza dell’esclusione.
Ci sono film che non hanno bisogno di bandiere, slogan o rivoluzioni esplicite per essere profondamente politici. Dimenticare Venezia di Franco Brusati è uno di questi. Uscito in un’Italia ancora timida, quando l’omosessualità era tollerata più che accettata, più nascosta che narrata, il film si insinua nelle pieghe dell’identità queer con una grazia e una malinconia che oggi suonano ancora potenti, e forse persino più necessarie.
Non ci sono coming out teatrali, né scene madri: ci sono uomini e donne che si desiderano, che si lasciano, che cercano di capire cosa farne della propria solitudine. E tutto questo accade in un tempo sospeso, in una villa di campagna che sembra fuori dal mondo, prima che arrivi Venezia — non tanto città quanto simbolo — e con lei la resa dei conti con la memoria, la bellezza, la morte.
Il personaggio di Nicky (interpretato da Erland Josephson), maturo, elegante, discretamente omosessuale, è uno di quei ritratti queer d'altri tempi che resistono alla polvere e parlano ancora a chi, oggi, cerca una rappresentazione non stereotipata. È un uomo che ha amato, che ha perso, che si difende dietro l’ironia e il silenzio. Il suo amore per Sandro (David Pontremoli), molto più giovane, è il cuore segreto del film. Eppure tutto resta in penombra, perché è così che l’Italia sapeva — o voleva — raccontare il queer nel 1979: per sottrazione, per accenni, con pudore. Ma con verità.
Brusati è chirurgico nella scrittura e raffinato nella regia. Non giudica, non semplifica. I suoi personaggi sono anime inquiete, scivolano l’uno sull’altro senza toccarsi davvero, eppure tutti anelano a un contatto, a una possibilità d’amore. In questa rete sottile, Mariangela Melato è splendida, vulnerabile e dura insieme, mentre Eleonora Giorgi sorprende con una recitazione sobria, adulta, finalmente lontana dai ruoli da bambolina sexy.
Guardato oggi, Dimenticare Venezia ha il fascino delle opere che hanno saputo parlare per vie traverse. È queer non perché gridi, ma perché sa insinuarsi sotto pelle, sa restituire la complessità dell’amare “diversamente” quando il mondo non aveva ancora parole per dirlo. È un film su quello che siamo stati, e su quello che ancora fatichiamo ad essere pienamente. E no, non si può dimenticare.
Per comprendere davvero l’audacia sommessa di Dimenticare Venezia, bisogna calarlo nel tempo che lo ha generato: l’Italia di fine anni Settanta, in apparenza emancipata, ma ancora profondamente conformista sotto la superficie. Il divorzio era legge da pochi anni (1970), l’aborto sarebbe stato legalizzato solo nel 1978, l’omosessualità, seppure non criminalizzata dal Codice Rocco (mai entrata nell’elenco dei reati penali in Italia), continuava a essere circondata da uno stigma feroce — soprattutto sociale, istituzionale, militare.
Fino al 1982, l’omosessualità era motivo di esclusione automatica dal servizio militare. La definizione ufficiale nei documenti dell’esercito parlava di “personalità deviate”, e gli individui sospettati — anche solo per abbigliamento o atteggiamento — potevano essere schedati, interrogati, sottoposti a visite umilianti. Questo clima di sospetto e silenzi forzati si rifletteva anche nella produzione culturale: i corpi queer, nei media e nel cinema, erano fantasmi. Quando apparivano, lo facevano travestiti da altro — il “pazzo”, il “vizioso”, il “diverso” da compatire o ridicolizzare.
E proprio per questo il film di Brusati è rivoluzionario nella sua discrezione. Nessun giudizio morale, nessuna caricatura, nessuna ironia compiaciuta. Solo desideri che esistono, e che sono trattati come qualunque altro desiderio umano: con malinconia, nostalgia, tensione affettiva. È un’umanità queer non ancora rivendicata politicamente, ma espressa poeticamente, e questo lo avvicina al lavoro di altri autori europei dello stesso periodo.
Nel cinema europeo degli anni Settanta, la rappresentazione queer iniziava a emergere, ma spesso attraverso registri estremi o allegorici. Fassbinder, in Germania, raccontava l’amore tra uomini in un clima claustrofobico e nichilista, come in Le lacrime amare di Petra von Kant (1972) o Querelle (1982), ispirato a Genet. Luchino Visconti, già nel 1971, aveva portato sullo schermo Morte a Venezia, ma l’omosessualità era ancora sublimata, filtrata dal desiderio impossibile e dalla metafora della decadenza. In Francia, Jean Eustache e André Téchiné iniziavano a introdurre personaggi queer in narrazioni più quotidiane, ma era ancora il tempo delle eccezioni.
Brusati sceglie una via tutta italiana e personalissima: la narrazione filtrata dal tempo, dalla memoria, dall’intimità domestica. Non c’è trasgressione, non c’è ostentazione. È come se l’identità queer nel film si fosse ritagliata un suo spazio interiore, privato, protetto — e in questo senso Dimenticare Venezia anticipa di almeno un decennio il tono più intimo e relazionale che il cinema queer europeo avrebbe assunto negli anni Novanta, con film come Les roseaux sauvages (1994) di Téchiné o Beautiful Thing (1996) di Hettie MacDonald.
L’Italia, nel frattempo, avrebbe continuato a ignorare il tema. Bisognerà attendere Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola per vedere un personaggio omosessuale raccontato con empatia e profondità. Ma anche lì, la cornice è storica, e il queer resta un’identità condannata alla marginalità o alla sconfitta. Dimenticare Venezia, invece, parla di omosessualità come di qualcosa che c’è, che c’è stato, che non ha bisogno di spiegazioni. E in questo gesto, che potrebbe sembrare piccolo, si nasconde una delle rivoluzioni più profonde.
Lo specchio americano: tra esplicito e metaforico
Mentre in Europa — e in particolare in Italia — il queer trovava spazi narrativi nascosti, filtrati da simboli e non detti, negli Stati Uniti la rappresentazione dell’omosessualità attraversava un altro tipo di difficoltà: quella della censura morale post-codice Hays (ufficialmente decaduto nel 1968, ma ancora latente nei suoi effetti) e della crescente pressione dell’opinione pubblica, tra puritanesimo e progressismo.
Negli anni Settanta, Hollywood raramente si occupava di vite queer in modo diretto. Quando lo faceva, le storie erano spesso cupe, drammatiche, segnate da una prospettiva medicalizzante o da un senso tragico ineluttabile. Film come The Boys in the Band (1970) di William Friedkin portavano in scena l’universo omosessuale maschile con sincerità, ma anche con una carica di auto-odio e malinconia corrosiva. Friedkin stesso avrebbe poi diretto Cruising (1980), con Al Pacino, che raccontava il mondo leather e sadomaso di New York con un taglio voyeuristico e inquietante, attirandosi le critiche di buona parte della comunità LGBTQ+ per la sua ambiguità.
Accanto a queste opere, esisteva però un cinema indipendente e underground che cominciava a parlare queer con linguaggi più liberi. Cineasti come Kenneth Anger (Fireworks, Scorpio Rising) o Paul Morrissey con i film prodotti dalla Factory di Warhol (Flesh, Trash) portavano sulla scena corpi devianti, desideranti, ma sempre in bilico tra fascinazione e degrado, tra carne e trasgressione.
Dimenticare Venezia appare come un caso a parte, per la sua capacità di evocare la dimensione queer senza spettacolarizzarla né moralizzarla. Il film di Brusati non ha l’urgenza di denunciare, né quella di provocare: semmai si muove sul piano elegiaco, costruendo un discorso sul desiderio che passa attraverso i gesti minimi, la quotidianità condivisa, la sottrazione visiva.
Il linguaggio visivo: corpi che sfiorano, assenze che pesano
Visivamente, il film è costruito su una grammatica della distanza e della sospensione. La macchina da presa osserva, ma non penetra mai l’intimità con brutalità. C’è sempre un filtro: una porta socchiusa, una tenda, uno specchio, una soglia. Il desiderio si coglie nei dettagli — un accenno di carezza, un silenzio troppo lungo, uno sguardo trattenuto. Brusati sembra dirci che il vero erotismo queer, in quel contesto culturale, non poteva permettersi l’esplosione, ma solo la rarefazione.
I corpi sono al centro, ma non sono mai oggetti sessuali. Sono presenze fragili, segnate dal tempo, dalla nostalgia, dalla difficoltà di coincidere con ciò che si desidera. Il corpo di Nicky, maturo e aristocratico, si contrappone a quello giovane e inquieto di Sandro. Ma non c’è dominio, non c’è carneficina sentimentale: solo la lenta consapevolezza che ogni amore è anche una forma di perdita.
Nel film, Venezia non è solo una meta, ma un fantasma: rappresenta la bellezza assoluta e decadente, l’idea della memoria come luogo del non ritorno. I personaggi vi giungono come in un rito funerario, quasi a rendere omaggio a qualcosa che non può più essere vissuto — l’amore, la libertà, forse l’identità stessa. E Brusati, con la sua regia sobria ma intensa, usa la città lagunare come simbolo del desiderio queer: un labirinto di canali, dove ci si perde e ci si riflette, dove tutto è doppio e tutto è sul punto di svanire.
Una rivoluzione della lentezza
Rispetto all’urgenza americana di rappresentare il queer come lotta o come scandalo (anche per reazione alla repressione sociale o alla crisi dell’AIDS che si affaccerà di lì a poco), Dimenticare Venezia opera una rivoluzione sottilissima: quella della lentezza, della contemplazione. È un film queer nel senso più profondo del termine, perché sovverte le logiche narrative eteronormate non solo nei contenuti, ma anche nella forma.
Non c’è ascesa, climax, redenzione. C’è un mondo che scivola lentamente verso la malinconia, e in questo scivolamento si ritrovano tutte le sensibilità queer che vivono sul confine tra appartenenza e esclusione, tra visibilità e ritiro.
Brusati ci lascia con una Venezia che si può, forse, dimenticare. Ma non possiamo dimenticare questo modo di raccontare il queer: con pudore, con verità, con una consapevolezza che oggi appare sorprendentemente moderna, proprio perché non ideologica, non militante, ma profondamente umana.
Oggi, nella sensibilità queer contemporanea, Dimenticare Venezia si staglia come un’opera di grande rilievo, tanto più necessaria quanto più sembra distante dalla superficie colorata e spesso semplificata delle narrazioni LGBTQ+ di larga diffusione. A distanza di oltre quarant’anni, il film di Franco Brusati non ha perso un grammo della sua carica emotiva, né della sua finezza nell’articolare un discorso sul desiderio, la perdita, la marginalità e la convivenza delle differenze. Anzi, in un’epoca come la nostra, che vive simultaneamente di visibilità esasperata e di nuove censure, di orgoglio e di backlash, di performatività identitaria e di continue richieste di autenticazione, il gesto sommesso, pudico, profondamente malinconico di Brusati appare quanto mai attuale. Non per la sua attitudine nostalgica, ma per la sua capacità di parlare dell’umano in tutte le sue sfumature, senza mai cedere alla tentazione di trasformare l’alterità in spettacolo o manifesto.
Nel film, l’identità queer non viene mai esibita come una categoria rigida, né raccontata attraverso il vocabolario della colpa o della trasgressione. Il queer è ovunque e in nessun luogo: è nei gesti affettivi tra Nicky e Sandro, nella presenza imprevista e dolente della malattia, nella convivenza di una famiglia non scelta ma costruita — proprio come le famiglie queer che verranno, fatte di affinità e rotture, di alleanze affettive che sfuggono al riconoscimento normativo. Ma il queer è anche nella figura di Anna, nella sua fragilità ribelle, nella sua femminilità ostinata e fuori misura, nel suo rifiuto di ogni ruolo prestabilito, così come lo è in Claudia, che cerca di tenere insieme brandelli di appartenenza mentre tutto intorno si sgretola. Ognuno di loro porta una ferita, un desiderio, una dissonanza — ma nessuno è ridotto a un'etichetta. Non esiste “il gay”, “la sorella”, “l’amante”, “la donna”. Esistono anime in cerca di orientamento, identità in movimento, che si riconoscono o si respingono, si rifugiano o si allontanano, a seconda della stagione emotiva che le attraversa. Ed è proprio in questa coralità sghemba, in questa pluralità non armonizzata, che il film tocca la corda più profonda della contemporaneità queer: quella che rifiuta i binarismi, le definizioni fisse, e cerca nella relazione, anche fallimentare, una verità provvisoria ma autentica.
In un presente in cui la rappresentazione queer è spesso legata a logiche di visibilità, branding, militanza estetica o pedagogia emotiva, Brusati ci propone un’alternativa radicale: il queer come ciò che sfugge, come ciò che si sottrae, come ciò che viene suggerito anziché mostrato. Non è un caso che il corpo, in Dimenticare Venezia, sia sempre filmato con rispetto quasi sacrale, mai spettacolarizzato. I corpi si sfiorano, si sostengono, si evitano. Il desiderio si intuisce nei silenzi, negli sguardi, nelle stanze condivise e nei letti disabitati. La malattia e la morte fanno irruzione come realtà inevitabili, senza mitologia, eppure con una dignità che riconduce anche la decadenza dentro il cerchio del sacro. I corpi queer non sono né erotizzati né colpevolizzati: sono semplicemente esistenti, fragili, presenti, esposti al tempo e alla perdita. E in questo modo parlano a noi oggi, in un’epoca che ha visto riscrivere molte volte il linguaggio del corpo, tra body positivity, non-binarismo, identità trans*, medicalizzazione del genere e feticizzazione dello stesso.
Nel nostro tempo, il corpo queer è diventato campo di battaglia, superficie su cui si combattono guerre ideologiche, sociali, sanitarie. Il corpo queer è ora simbolo, ora minaccia, ora brand. Brusati ci ricorda, con disarmante grazia, che prima di tutto il corpo è luogo di passaggio: tra la memoria e l’oblio, tra l’amore e il distacco, tra ciò che si può dire e ciò che non si può mai del tutto nominare. In questo, Dimenticare Venezia diventa un film che anticipa le poetiche del “minor cinema”, della sottrazione, dell’intimità queer che non ha bisogno di esplicitarsi per esistere. È un film che si prende il tempo di non spiegare, che accoglie la complessità del non detto, e che permette allo spettatore queer contemporaneo — cresciuto tra coming out virali e serie Netflix — di riconoscere una forma di verità più sottile, ma forse più profonda: la verità del dubbio, della sospensione, dell’attesa.
Eppure, se oggi Dimenticare Venezia può ancora parlare al cuore di chi si interroga su cosa significhi essere queer, non è solo per la sua delicatezza o per la sua estetica raffinata. È perché ci mostra la possibilità di un’epoca in cui il queer non aveva ancora un nome condiviso, ma aveva già una carne, un volto, un respiro. È perché ci ricorda che prima delle rivendicazioni, prima dei diritti, prima delle etichette, esistono vite vissute — con fatica, con grazia, con ironia. Ed è lì, in quella materia umana, che la sensibilità queer di oggi può trovare un’origine non ufficiale, una genealogia laterale ma essenziale. Un’eredità che non sta nei manuali di storia LGBTQ+, ma nelle immagini dimenticate, nei film passati sotto silenzio, nei gesti piccoli che hanno fatto spazio alla possibilità dell’essere altro.
Per chi oggi si riconosce nella galassia fluida e mutevole del queer — che sia attraverso il linguaggio della performance, della politica transfemminista, del pensiero decoloniale o della semplice quotidianità di un amore fuori norma — tornare a Dimenticare Venezia è come rientrare in una casa che non si ricordava di aver abitato. È riconoscere una lingua che non parla più, ma che ancora ci comprende. È scoprire che la rivoluzione queer non è solo quella che cambia le leggi o rompe le convenzioni, ma anche quella che conserva, protegge, custodisce la memoria dei corpi che non hanno avuto né tribune né protezioni, ma che hanno amato comunque.
In fondo, il titolo stesso, Dimenticare Venezia, sembra un paradosso che racchiude tutta l’essenza del queer: tentare di dimenticare ciò che ci ha segnati più profondamente. Venezia, città del languore, della decadenza, della bellezza dolente, diventa il luogo in cui il desiderio si mostra senza trionfo, in cui l’amore non salva ma accompagna. Tentare di dimenticarla significa, forse, fare i conti con la parte di noi che non trova posto nel presente, ma che ha costruito il nostro modo di stare al mondo. Ecco perché oggi questo film, così pacato e struggente, non si può dimenticare: perché parla ancora di noi, e forse lo fa meglio di molte immagini nuove, gridate, algoritmiche, che ci promettono riconoscimento ma dimenticano il peso della storia. Dimenticare Venezia è un atto di memoria queer. E la memoria, si sa, è il luogo più politico che abbiamo.