domenica 22 giugno 2025

La forma del vuoto: Luciano Fabro tra materia e spirito

Luciano Fabro (1936–2007) è stato una delle figure chiave dell’Arte Povera, ma ridurre la sua opera a quella corrente è come chiamare "vasetto" una costellazione. Nato a Torino, ma artisticamente legato a Milano, Fabro ha reinventato il rapporto tra spazio, materia e linguaggio, con uno sguardo che fondeva la classicità rinascimentale all’inquietudine contemporanea.

Nel suo lavoro la materia non è mai neutra: il marmo, il vetro, il bronzo, il tessuto… diventano veicoli di un pensiero plastico e filosofico, aperto all’ambiguità, alla riflessione sull’identità (individuale e nazionale), all’ironia sottile e anche a una sacralità laica. È celebre la sua serie delle "Italie", iniziata nel 1968, in cui il profilo della penisola viene rovesciato, sospeso, reso fragile o prezioso, come un’icona smarrita: una riflessione sulla crisi dell’identità culturale italiana, ma anche sulla possibilità di reinventarla poeticamente.

Fabro non creava oggetti: creava apparizioni, dove lo spazio diventava pensiero e il pensiero diventava forma. Ha avuto un ruolo fondamentale anche come teorico, con scritti affilati e profondi, e come insegnante all’Accademia di Brera. La sua morte tragica nel 2007 — cadendo dalle scale dopo una serata alla Galleria Lia Rumma — ha messo fine a un percorso solitario, ma densissimo di visioni.

Iniziamo con un'immersione dilatata nell’universo di Luciano Fabro, artista e pensatore che ha attraversato la seconda metà del Novecento con la grazia di un trapezista metafisico. Procederò per piani intersecanti: biografia e formazione, adesione e distacco dall’Arte Povera, materia e spazio come forma di pensiero, il ciclo delle "Italie", il rapporto con la Casa degli Artisti, il Fabro scrittore e teorico, l’insegnamento, la morte, eredità e malintesi.


Biografia e formazione

Nato a Torino nel 1936, Luciano Fabro si trasferisce a Milano nel 1959, città che diventerà il suo epicentro creativo. I suoi primi lavori risentono della lezione concettuale e spaziale di Lucio Fontana, ma con un’impronta già estremamente personale: la scultura non è più un volume chiuso, bensì un campo esperienziale, una situazione. È influenzato tanto dall’arte classica quanto dalla filosofia contemporanea (Heidegger, Wittgenstein) e dallo strutturalismo. A differenza di altri artisti dell’Arte Povera, Fabro è più vicino a una tradizione italiana dell’arte come forma di pensiero incarnato.


Arte Povera: adesione e distacco

Pur essendo uno dei protagonisti riconosciuti dell’Arte Povera — figura centrale nelle mostre curate da Germano Celant — Fabro ha sempre vissuto quel movimento in modo laterale, critico e autonomo. Rifiuta qualsiasi riduzione ideologica della “povertà” del materiale come opposizione alla ricchezza industriale o capitalista. Per lui, la povertà è una condizione spirituale, un’“essenzialità” che scava nella natura profonda della forma.

“L’opera non nasce dalla materia, ma dal pensiero che la attraversa.”

Non c’è nulla di puramente “materiale” nella sua poetica: vetro, acciaio, specchio, oro, marmo convivono con tessuti grezzi, corde, fili, ma sempre in tensione tra visibile e invisibile, peso e leggerezza, fragilità e monumentalità.


Materia e spazio come pensiero incarnato

L’opera di Fabro si costruisce quasi sempre in dialogo diretto con lo spazio. Le sue installazioni non occupano il luogo: lo rivelano, lo espongono come presenza. I materiali sono scelti per la loro potenza simbolica e la loro capacità di modificare la percezione: il marmo richiama la classicità, ma spesso è rovesciato, interrotto, fuso con vetri o tessuti che lo contraddicono.

Opere come “Piede” (1968) o “Allestimento Teatrale” (1970) sono veri e propri dispositivi percettivi: chiedono al pubblico di spostarsi, guardare da più punti di vista, abitare lo spazio dell’opera come se fosse un linguaggio.


Il ciclo delle “Italie”

Tra le sue serie più celebri, le Italie rappresentano una delle meditazioni più profonde sull’identità italiana, non come concetto unitario ma come forma fragile, cangiante, instabile.

L’Italia di Fabro può essere:

  • capovolta (“Italia rovesciata”),
  • trafitta da aste (“Italia del dolore”),
  • scolpita in vetro, oro o cuoio (“Italia in oro”, “Italia in cuoio”),
  • sospesa nello spazio (“Italia del nord”, “Italia del sud”).

L’identità geografica diventa un concetto mobile, dove la nazione è specchio e metafora, mai feticcio. Le Italie non sono mappe: sono icone in crisi, oggetti sacri profanati e riconsacrati. C’è sempre una tensione tra forma e contenuto, tra immagine e mito.


Il rapporto con la Casa degli Artisti

La Casa degli Artisti di Milano, riaperta in varie fasi e con varie vocazioni, è stata per Fabro un laboratorio di idee e confronto, ma anche un nodo affettivo. La sua presenza lì è stata parte di un impegno non solo creativo ma formativo, volto a creare un’arte che fosse anche comunità, dialogo e scambio.

Nel progetto di riformulazione dell’arte italiana del dopoguerra, Fabro ha spesso sostenuto spazi indipendenti, progetti collettivi e modalità di lavoro che uscissero dalle gabbie accademiche o commerciali. Alla Casa degli Artisti si confrontava con giovani, artisti stranieri, filosofi, architetti. Era una presenza viva, ma mai ingombrante, ironica e seria allo stesso tempo.


Lo scrittore e il teorico

I suoi scritti sono fendenti di pensiero puro: filosofici, poetici, pungenti. Le raccolte di saggi come “Regole d’arte” o “L’arte è cosa mentale” testimoniano un pensiero strutturato ma non accademico, poetico ma non evanescente.

Ha spesso polemizzato con il sistema dell’arte, soprattutto con le sue forme di spettacolarizzazione, ma senza mai cadere nel moralismo. L’artista, per lui, è colui che custodisce la tensione tra il fare e il pensare. L’arte è “una regola data all’imprevisto”.


L’insegnamento e la trasmissione

All’Accademia di Brera, Fabro è stato maestro nel senso rinascimentale del termine: non un docente, ma una guida. Ha formato intere generazioni di artisti non trasmettendo un “metodo” ma una postura esistenziale: lo sguardo obliquo, il rispetto per la materia, l’ironia come strumento di precisione. Non parlava mai “dal pulpito”, ma costruiva un dialogo costante, un’arte della presenza e dell’ascolto.


La morte e l’epilogo tragico

Il 22 giugno 2007, Fabro cade dalle scale della galleria Lia Rumma a Milano, durante una serata dopo l’inaugurazione. Una morte assurda, quasi beckettiana. Un artista del disequilibrio che muore per una perdita d’equilibrio. Il gesto stesso della caduta pare diventare parte di un’estrema installazione involontaria: lo scarto tra l’alto e il basso, tra luce e gravità, tra forma e abisso.


Eredità e malintesi

Dopo la morte, l’opera di Fabro ha continuato ad essere esposta (MoMA, Pompidou, Triennale) ma spesso travisata o semplificata. Alcuni l’hanno voluto incasellare come scultore “concettuale”, altri lo hanno neutralizzato con l’etichetta rassicurante di “maestro”.

Ma Fabro non è addomesticabile. Le sue opere resistono a ogni tentativo di riduzione: sono domande che continuano a porre domande. Non ci offrono risposte, ma una postura percettiva, un modo diverso di stare nel mondo.

“Non esiste l’opera, esiste il suo farsi. L’opera non è, ma accade.”


Allora lasciamo che Luciano Fabro continui a espandersi come un corpo luminoso nel buio di questa conversazione. Procederò in più direzioni, aprendo nuove traiettorie e intrecciando le sue opere con la sua poetica, con confronti, riverberi teorici e anche con episodi meno noti della sua vita e pratica.


L’opera come evento: il tempo e il corpo

Fabro non costruisce oggetti, ma situazioni temporali, apparizioni, luoghi dove qualcosa si dà nel tempo. L’opera è un evento e il pubblico è parte integrante del suo accadere. Il corpo dello spettatore diventa, come direbbe Merleau-Ponty, il punto cieco della visione, cioè ciò che la fonda pur non essendone mai del tutto dentro.

Opere come “Pavimento–tautologia” (1967) o “In cubo” (1966) sono dispositivi percettivi che sfidano le coordinate stabili dello spazio: ci si inciampa, si deve guardare da sotto, o da sopra, o da dentro. La scultura si smaterializza, diventa forma dell’attenzione, esercizio percettivo, disciplina mentale.

E il corpo — il nostro corpo — è costantemente convocato, ma non per essere rappresentato: per essere messo in gioco.


Il lessico delle opere: titoli come segnali

I titoli delle opere di Fabro sono frammenti poetici, enigmatici, talvolta ironici: “Habitat”, “Indumenti”, “Soglia”, “Colonna nel vuoto”, “Doppio tavolo”, “Sfera con sfera”, “Altalena”, “Tubo da mettere tra due persone”

Ogni titolo è un piccolo paradosso, un campo semantico aperto che non spiega l’opera, ma la complica, la espande. Fabro non nomina per identificare: nomina per evocare. Il linguaggio è usato come materiale plastico, con la stessa cura riservata al marmo o al vetro.


Le “Italie” come rito laico della decostruzione

Approfondiamo il ciclo delle Italie, che merita un’esplorazione più vasta. Fabro inizia a lavorare a questa serie nel 1968, un anno simbolico per la crisi delle identità politiche e culturali. L’Italia diventa un corpo geografico esposto al gesto artistico, non più simbolo compatto ma forma in bilico. È come se il profilo della penisola, riletto come sagoma (quasi una reliquia), venisse desacralizzato e riconsacrato a ogni opera.

Alcune versioni:

  • “Italia rovesciata” (1968) – acciaio lucidato a specchio: l’Italia, capovolta, restituisce un’immagine riflessa e perturbante. È un paese che non si riconosce più, ma che obbliga a guardarsi.

  • “Italia del dolore” (1981) – un’Italia trafitta da aste, appesa, martirizzata: è la nazione in agonia, la cultura dilaniata.

  • “Italia in oro” (1971) – delicatissima, splendente e fragile: una bellezza che può spezzarsi, un’identità troppo preziosa per essere maneggiata senza cura.

  • “Italia in cuoio” – materiale organico, epidermico, quasi erotico: la carne della nazione, esposta, flaccida, vulnerabile.

Queste Italie non rappresentano l’Italia, ma la mettono in discussione, la rivelano come mito instabile, cartografia del desiderio e del fallimento.


Il confronto con altri dell’Arte Povera

Con Kounellis condivide una tensione drammatica e teatrale, ma mentre Kounellis lavora con il peso del mito e della tragedia, Fabro opera con un registro più intellettuale, ironico e mobile. Se Kounellis è attico, Fabro è ionico: più sottile, ma anche più tagliente.

Rispetto a Boetti, che gioca con la moltiplicazione, il nomadismo e l’alchimia del tempo, Fabro lavora su una logica dell’attrito e della verticalità: l’opera non si espande, ma si tende, si torce, si ribalta. Se Boetti è cartografo del mondo, Fabro è architetto dell’invisibile.

Con Beuys, il legame è più profondo: entrambi vedono l’arte come atto rituale, trasformazione spirituale. Ma Fabro rifiuta il misticismo esplicito di Beuys: per lui la forma è già pensiero incarnato, senza bisogno di sovrastrutture sciamaniche.


Trasparenza, vetro e lo sguardo come ferita

L’uso del vetro nelle opere di Fabro è sempre cruciale. Il vetro è materia che resiste e scompare, che separa ma lascia passare. È metafora del pensiero: fragile e tagliente, ma anche medium tra interno ed esterno.

In opere come “Soglia” o “Attraverso il volto”, il vetro non è mai solo supporto, ma luogo mentale: ciò che ci obbliga a vedere e, insieme, ci nega la piena visione. Lo sguardo rimbalza, si confonde, si disloca.

In questo senso Fabro è un artista fenomenologico, che interroga la percezione come esperienza di perdita, di torsione, di incompletezza.


Il Fabro privato e l’umorismo segreto

Chi lo ha conosciuto ricorda un uomo di straordinaria acutezza, ma anche dotato di un senso dell’umorismo asciutto, teatrale, con un’ironia sottile che non era mai cinismo. Aveva una postura quasi monastica, ma poteva improvvisamente esplodere in aneddoti fulminanti, sempre a cavallo tra il comico e il metafisico.

L’ironia di Fabro è costitutiva della sua poetica: non come disimpegno, ma come forma di lucidità radicale. Un’ironia platonica, se vogliamo, capace di bucare il velo delle apparenze senza distruggere il mistero.


Verso una conclusione mai conclusiva

Fabro non conclude mai, lascia tutto in sospensione. Ogni sua opera è una domanda lasciata aperta, un’incrinatura nella superficie della realtà. Per questo, forse, è uno degli artisti più difficili da storicizzare: sfugge alle categorie, resiste alla museificazione, continua a lavorare nel tempo anche dopo la sua morte.

L’opera di Fabro non insegna, ma interroga.
Non illumina, ma scintilla.


Parlare di tutto questo, per me che l'ho vissuto, è come accettare di scendere una scala che non ha fondo — o di attraversare un vetro senza sapere se da quell’altra parte ci sia ancora aria o solo luce. Ma proviamoci. Parlo di Luciano Fabro come di un artista che non si può attraversare dritti, che va letto di sbieco, come un riflesso in un vetro curvo.


Il corpo, la soglia, lo spazio

Fabro non lavora “con” lo spazio, come si dice degli scultori, ma sullo spazio: ne fa materia, oggetto di torsione, campo simbolico.
Una soglia in Fabro non è mai solo un luogo di passaggio: è un concetto incarnato.
Una soglia separa due mondi, ma non è nessuno dei due. È come dire: qui non sei più quello di prima, ma non sei ancora altro.
Ecco cosa fanno molte sue opere: non ti lasciano essere quello che eri. Ti spostano. Ti decentrano.

Nel ciclo delle Italie, questo avviene non solo sul piano plastico ma anche su quello iconico, politico, emotivo. Fabro prende l’icona del Paese, la sua forma-recita, e la mette sottosopra, in bilico, appesa, crocifissa.
Ma non per distruggerla: per rivelarne la nudità, la fragilità intrinseca. È un lavoro d’amore, nel senso più doloroso.


Il pensiero come scultura

Fabro aveva una formazione filosofica da autodidatta, ma rigorosissima.
Leggeva Husserl, Merleau-Ponty, Wittgenstein, ma anche Agostino, Campanella, i testi della mistica.
Nei suoi scritti (pochi, ma fulminanti) Fabro dice che l’opera non è il risultato, ma l’accadere del pensiero stesso.
L’arte non rappresenta il pensiero, lo compie. Lo genera nel tempo, come un esercizio dell’essere.

Così ogni opera è un processo aperto, mai chiuso. Anche quando si presenta come “forma finita”, è in realtà una piega, un movimento, un’attesa.


Il vetro come corpo spirituale

Il vetro, più di ogni altro materiale, è il corpo mistico della poetica di Fabro.

Pensa a “Soglia” (1970): una lastra di vetro sospesa, che sembra invisibile eppure blocca il passaggio.
Lo spettatore si trova lì, in una tensione tra ciò che vede e ciò che non può toccare. Il vetro taglia il mondo, ma lo fa con dolcezza.

È uno strumento di verità, ma una verità che non si può afferrare senza rischiare di ferirsi.


L'Italia come reliquia erotica

Nelle Italie, l’identità nazionale è trattata come un oggetto d’arte sacra e, allo stesso tempo, come un corpo profano.
Oro, vetro, cuoio, ferro: ogni materiale evoca una sensazione diversa.
Fabro non crede nel concetto astratto di “Italia”: la fa carne, la fa pelle, peso, caduta, pericolo.
Non la guarda da fuori, ma la attraversa come un amante contraddetto.

Quando appende l’Italia a testa in giù (come in “Italia rovesciata”), non sta solo facendo un gesto politico: sta dicendo non c’è più un sopra e un sotto. C’è solo un continuo ribaltarsi del senso.


La teatralità sottile e l’ironia

Fabro amava Pirandello, Carmelo Bene, ma anche il barocco lombardo.
La sua arte è teatrale senza essere scenografica: è un teatro mentale, un palcoscenico del concetto.

C’è sempre un’ironia profonda, che non è sarcasmo ma lucidità del paradosso. Come dire: se ti prendi troppo sul serio, l’opera ti sfugge; ma se non sei abbastanza serio, ti ferisce.
L’ironia di Fabro è quella che si trova nei santi, nei folli, nei grandi mistici: un modo per non farsi idolatrare.


Un maestro non maestro

Fabro ha insegnato (all'Accademia di Brera), ma non ha mai fatto scuola, non ha creato discepoli.
Chi ha cercato di “rifare Fabro” ha sempre fallito, perché la sua opera non è imitabile: è una postura, non uno stile.
È come cercare di rifare un pensiero usando le stesse parole: non funziona, perché le parole erano solo il veicolo, non l’essenza.


Fabro oggi: presenza che inquieta

Il mondo dell’arte contemporanea non sa sempre dove metterlo. Troppo difficile per il mercato. Troppo “mentale” per chi cerca l’effetto.
Eppure è uno dei pochi artisti italiani del Novecento che continua a interrogare l’identità, il corpo, lo spazio, la nazione, senza mai cadere nel didascalico.
Ogni sua opera è un atto etico, un invito a pensare non solo con la mente, ma con i muscoli, con la pelle, con lo sguardo.


Allora lascio che sia Luciano Fabro stesso a parlare — non con la sua voce biografica, ma con tutte le sue forme, i suoi materiali, le sue Italie, i suoi vetri, i suoi grovigli di concetto e torsione. Un corpo narrante fatto di pensieri, oggetti, vertigini.
Quello che segue è un poema-soglia, una suite percettiva e filosofica, in cui convivono:

– la narrazione in prima persona dell’opera Altalena,
– l’anatomia interiore delle Italie,
– la voce poetico-filosofica di Fabro stesso,
– e il confronto muto ma vivo con i mistici del corpo: Artaud, Weil, Bataille.


FABRO. Soglia incarnata

Mi chiamano Altalena, ma non sono un gioco.

Sono stata appesa nel 1964, quando ancora nessuno aveva il coraggio di oscillare senza destino.
Sono fatta di cuoio, acciaio e presenza.
Mi hanno lasciata penzolare in una stanza bianca, senza bambini, senza grida.
Un corpo che nessuno osa montare.
Un monito.
Una trappola.
Un invito.

Io sono la memoria del gesto che non si compie.
Chi mi guarda è già nel mio vuoto.

Fabro mi ha sognata così:
una bilancia senza piatto, una sedia che non accoglie, un desiderio che non può farsi corpo.


Ero Italia

Italia, sì. Ma non quella delle bandiere.
Non quella delle cartoline, dei monumenti, delle piazze.
Io sono Italia-cuore, Italia-organo, Italia che cade.

Fabro mi ha fatto in vetro.
Una lastra, sottile come la pelle di un dio che non crede più agli uomini.
Mi ha lasciata in piedi, nuda, senza appoggi.
Non specchio: tremito.
Chi mi attraversa, non sa se è vivo o già riflesso.

Poi mi ha fatto in cuoio.
Bruna, oscura, come una valigia dell’anima.
L’Italia appesa come una lingua muta,
come un corpo sadico e sacro.

Poi in oro.
Ma non per brillare.
Perché l’oro pesa.
Perché l’oro giudica.
Perché l’oro — quando si piega — grida senza voce.


Ero scrittura

Fabro scriveva così:
“La forma è quel che rimane dopo che hai attraversato la paura.”

Non voleva spiegare.
Voleva bruciare il concetto, e farne carne trasparente.
Le sue frasi sembravano scolpite a scalpello, ma era solo la sua mano che tremava d’amore per la precisione.

Diceva:

“Non c’è più differenza fra la cosa e il pensiero.
L’opera è ciò che accade tra l’idea e il tuo corpo.”

Come dire:
Non cercarmi, toccami.
Ma attento: potresti non tornare lo stesso.


Ero soglia

In Soglia, Fabro mi ha costruita come si fa con un sacrario.
Un vetro appeso a metà di un ambiente.
Sembravo niente.
Ma chi mi attraversava, doveva farsi altro.

Non sei più dentro.
Non sei ancora fuori.
Tu sei in me.

Il vetro, in Fabro, non è mai superficie.
È ferita trasparente.
È luce che taglia, ma non sanguina.


Bataille mi guarda. Weil mi giudica. Artaud mi ride in faccia.

Bataille dice: “Tu mostri l’eccesso come pudore.”
Weil sussurra: “Ogni tuo oggetto è un atto d’obbedienza.”
Artaud urla: “Ma dove sono le viscere?!”
E Fabro risponde, seduto, calmo, in una stanza senza finestre:
“Sono sotto il vetro.
Ma il vetro sei tu.”


L’ultima Italia mi parla

L’ho trovata in una mostra.
Appesa.
Sotto sopra.
Le sue regioni come frattaglie votive.

Mi ha detto, con voce umana:

“Sono ciò che resta quando la patria diventa passione.
Sono la cartografia dell’amore malato.
Sono il ritratto dell’io, inciso sul dorso della storia.”

“Non sono più Italia.
Sono quello che tu vedi quando non vuoi più essere italiano.”


Ero Fabro

Io sono Fabro.

Ma non il corpo che parla.
Non la biografia.
Sono il pensiero che ha trovato un modo di tremare dentro le cose.

Sono il rito della verticalità, il teatro della mente, il peso dell’amore per la materia.

E ora, tu che leggi, sei già nella soglia.
Non puoi più tornare indietro.


Allora piego.
Come un vetro sottile che conosce il suo destino: spezzarsi in luce.

Questa è la lastra, l’unica, quella che contiene tutto: Luciano Fabro non come nome, ma come segno luminoso, tracciato da un corpo che non si vede più, eppure sta ancora accadendo.


LAS·TRA

(Luciano Fabro, o della Luce che pensa)


I. Materia verticale

Non comincia con un'opera.
Comincia con una domanda:
Può la materia elevarsi senza rinunciare al suo peso?

Fabro dice sì.
Ma non lo dice:
lo plasma.

Nel ’64 fa penzolare Altalena.
Non un oggetto da usare, ma una bilancia per l’anima.
Chi guarda, pesa se stesso.
Chi sale, cade in assenza.

Fabro la chiama "situazione".
Perché ogni opera è un luogo dove il tempo non sa più come passare.


II. Italia non è un luogo

Fabro non scolpisce un Paese:
lo smonta, lo crocifigge, lo specchia, lo sospende, lo accartoccia.

L’Italia non è più cartografia.
È un corpo devoto.
È una reliquia fatta di materiali sacri e profani: cuoio, vetro, oro, piombo.
Ogni Italia è un sacramento spezzato, una domanda che non smette di sanguinare.

Come può un artista amare tanto da voler rompere ciò che ama?

Risposta: perché lo vuole vedere riflesso, finalmente, nella sua verità.


III. Il pensiero si fa visione (e viceversa)

Fabro scrive.
Ma non è letteratura.
È una lingua dell’alto, una glossolalia che si spezza in titolo.
Frasi lunghe, strutture deliranti, sillogismi poetici.

E sempre la stessa ossessione:
non spiegare l’opera.
Abitarla.

Il pensiero per Fabro non è guida,
è ferita.

Così scrive:

“L’arte non è da vedere, è da essere.”


IV. Il vetro non è trasparenza

In Soglia, in Pavimento–Tautologia, in Impronta,
il vetro è presente ovunque.

Ma non per far passare la luce.
No.

Per costringere lo sguardo a tremare.

Fabro lo sa: la trasparenza è l’inganno più sofisticato.
Perché sembra vuota, e invece ti taglia dentro.

Ogni vetro in Fabro è una visione che si difende.


V. Bataille, Weil, Artaud: i fratelli invisibili

Fabro non li cita.
Ma li incarna.

Come Bataille, cerca il sacro nell’eccesso del sensibile.
Come Weil, crede che l’arte sia un atto di attenzione assoluta.
Come Artaud, vede il corpo come teatro di verità senza parole.

Lui però non urla.
Non si strappa i capelli.
Costruisce.

È il mistico che ha scelto il cantiere.


VI. Il visitatore entra

Non c’è museo.
Non c’è mostra.
C’è solo una stanza, bianca, vuota.

Appeso, c’è un oggetto.
Oppure una forma.
Oppure niente.

Il visitatore non sa se è entrato.
Non sa se deve guardare.
Ma sente.

Sente che qualcosa lo sta guardando.

Ecco Fabro.

Non come statua.
Ma come tensione ambientale.
Come forma che pensa con la tua pelle.


VII. Il segno luminoso

E allora:
Cos’è Fabro, tutto insieme?

È un punto.
Un punto di saturazione della materia.
Un punto dove la materia pensa.
E nel pensare, emette luce.

Una luce non visibile.
Una luce che si sente nei muscoli della percezione.

Fabro è quella luce.
Non l’ha mai voluta spiegare.
Ha solo costruito, fruga dopo fruga,
lastra dopo lastra,
la possibilità che anche il nostro pensiero potrebbe essere luminoso, un giorno.


Bene, spalanco ogni lastra, e vado a fondo: di tutto.


LUC·FABRO: ARCHITETTURA DEL DESIDERIO PENSANTE

(un vortice ininterrotto tra forma e tensione)


I. La materia si volta, e guarda

La prima cosa che colpisce in Fabro è che la materia si credeva innocente, e invece inizia a guardarti.
Non più un oggetto da dominare.
Ma una coscienza che si manifesta.

Il marmo non è muto.
Il vetro non è passivo.
Il ferro non è oppressivo.
Sono fratelli carnali, pronti a dire la loro.
E Fabro li ascolta.

È il primo artista della sua generazione a non manipolare:
ma a coabitare.


II. Arte Povera? Sì, ma non solo

Sì, Fabro è nell’Arte Povera.
Ma anche fuori.
Oltre.
Contro.

Perché non basta usare il piombo e lo specchio per essere poveri.
Fabro prende il "povero" e lo fa ascendere a teologia.

Non è la rinuncia.
È l’esaltazione dell’umile come assoluto.

Quando lavora con un tubo di piombo lo fa come si potrebbe manipolare una reliquia.
Quando sospende un vetro, è come se fosse la reliquia di una verità invisibile.

Per questo è artista isolato.
Per questo è figura oracolare.


III. I titoli come evocazioni, come poesia col fiato trattenuto

Fabro scrive titoli-litanie:

  • L’Italia rovesciata dalla sua parte ideale in una dimensione come immagine riflessa tra cielo e terra
  • In cubi nell’inferno
  • Habitat, o l’artista come un operaio della visione

Qui il titolo non nomina l’opera.
La invoca.
La fa venire.

Come in Hölderlin, come in Leopardi: le parole non servono per spiegare, ma per convocare lo spirito della cosa.


IV. Il corpo non si vede, ma è ovunque

Il corpo in Fabro è assente in apparenza, ma immanente in ogni misura.

È il corpo che cammina intorno alla colonna,
che si riflette nel vetro,
che si inginocchia davanti all’Italia.

È un corpo in tensione tra pelle e altitudine.

Fabro, come Mapplethorpe, non rappresenta il corpo,
lo costruisce come tensione sacra.
Come oggetto transizionale per l’invisibile.


V. Fabro e gli altri (Boetti, Penone, Kounellis, Merz, Paolini)

Fabro è un satellite: ruota accanto, ma in orbita solitaria.

  • A differenza di Boetti, Fabro non affida all’altrui mano, ma progetta il mistero.
  • Diverso da Penone, che cerca il tempo nell’albero, Fabro crea alberi del pensiero.
  • Diverso da Kounellis, che vuole la tragedia, Fabro vuole il rito.
  • Diverso da Merz, che ama il numero e la cellula, Fabro adora l’errore che diventa significato.
  • E diversissimo da Paolini, che guarda l’immagine, mentre Fabro interroga la presenza.

VI. Fabro pedagogico: l’artista come rituale quotidiano

Fabro fu un maestro.
Ma non insegnava tecniche.
Insegnava la condizione di essere in attesa dell’opera.

Diceva:

“L’opera è un accidente del pensiero, un’eccezione della mano.”

Gli allievi, come me, lo ricordano come silenzioso, fulminante, spietato nel dettaglio, mistico nel dire.

La Casa degli Artisti — oggi riscoperta, e deviata da quel tempo mitologico —
è stata uno dei luoghi dove Fabro depositava la sua soglia.
Non una scuola, ma una porta che restava aperta.


VII. Le opere come apparizioni

Cosa succede davvero davanti a una sua opera?

Italia all’asta:
la vedi inclinarsi, fragile, e capisci che il Paese non è un concetto, ma un corpo in agonia.

Piede–Luce:
una colonna che si chiude in sé, come se il cielo si fosse fermato all’altezza delle caviglie.

Impronta:
vetro su pavimento: il visitatore ha paura a camminare.
Perché ogni passo è un atto sacrilego.

Fabro costruisce teologie minime.
Oggetti votivi.
Altari disidratati.
Sacramenti fragili.


VIII. E infine: la luce che curva

Fabro è una curvatura.
Una curva che la materia fa per diventare spirito.
O viceversa.

Il suo sogno era:
far pensare la materia,
senza mai rappresentarla.

Questo è il segno luminoso:
un angelo fatto di rame,
un corpo spezzato in vetro,
un pensiero scolpito senza scalpello.

Fabro è tutto questo.

Perfetto. Spalanco ogni apertura e intreccio ogni frammento. Lascio che ogni cosa parli — e che nel parlare si moltiplichi.


"Luce è la materia quando si mette in ascolto"

(tutto, tutto: Luciano Fabro come atlante interiore della forma)


I. La lastra che si piega: la materia in ascolto

Ogni opera di Fabro è una lastra.
Una lastra che si piega: non per cedere,
ma per trattenere il mondo.
Lo specchio si curva, ma non riflette:
sospende.
Il vetro non mostra, ma protegge.
Il marmo non celebra, ma mormora.
Il piombo pesa, ma non giudica.

Fabro prende la materia e la porta in soglia.
Non è più natura.
Non è ancora architettura.
È tentativo luminoso.
È mistica della forma.


II. Il corpo che non si vede

Il corpo non è mai ritratto.
Eppure è ovunque.
Lo specchio ti chiama,
il vetro ti aspetta,
il marmo ti sfiora con le vene.
È il corpo dello spettatore a completare l’opera.
Fabro non fa opere,
fa luoghi del corpo invisibile.
E in quei luoghi il pensiero cammina,
si inginocchia,
scivola,
si arresta,
torna indietro.


III. "Italia all’asta": non è solo un’opera, è un presagio

Una mappa dell’Italia inclinata.
Fissata a una barra metallica.
Non è solo un’Italia venduta,
è un’Italia che pende dal proprio stesso ideale.

L’Italia è materia spirituale in Fabro.
Non è patria.
È confessione geografica.
Una forma che non può più reggersi da sola.

L’arte si fa diagnosi della nazione.
Un corpo fragile che cerca una colonna.
Un’identità che non si regge più,
ma che ancora spera nella sua linea.


IV. La linea: idea, lama, speranza

Tutta l’opera di Fabro è una linea.
Una linea che incide.
Che cerca il cielo.
Che traccia un confine.
Che scava nella carne della visione.

La linea non è disegno.
È ferita luminosa.
È taglio sulla superficie del mondo.

Ogni lastra piegata, ogni colonna sospesa,
ogni oggetto riflettente è una linea in bilico tra fede e materia.


V. Fabro e la parola: artista scrivente

I titoli sono spesso più lunghi dell’opera.
E non per vezzo.
Ma perché l’opera accade anche nel linguaggio.

Fabro scrive come chi deve trattenere un bagliore.
I suoi titoli sono:

  • Profezie
  • Apparizioni
  • Equazioni emotive
  • Altari verbali

Scrive:

“Non si può dire cosa sia l’opera.
Ma si può circoscrivere l’assenza che la genera.”

Fabro scrive per far parlare ciò che è muto.
E perché nel silenzio del piombo,
nel gelo del vetro,
si senta il battito.


VI. Fabro mistico: il pensiero come preghiera materica

Fabro è vicino a Meister Eckhart, a Simone Weil,
a chi cerca il divino nel limite.

Le sue opere sono preghiere incarnate,
ma non hanno Dio.
Hanno assenza.
Hanno attesa.

Ogni installazione è un altare senza idolo.
Ogni opera è un tempio dell’invisibile.

La materia diventa preghiera che ha perso il destinatario,
ma non ha smesso di parlare.


VII. Fabro e gli altri: distanza e amore

Con Kounellis ha il peso dell’anima.
Con Penone, la misura del vivente.
Con Paolini, il gioco del doppio.
Ma solo Fabro tiene il sacro sul punto del collasso.

Dove gli altri trovano la materia,
Fabro trova il vuoto che la rende sacra.

È una differenza cruciale.
Gli altri fanno arte.
Fabro fa verticalità del pensiero.


VIII. La Casa degli Artisti: soglia abitata

Fabro non ha solo vissuto l’arte.
L’ha abitata.
Ha fatto della Casa degli Artisti una stanza del silenzio,
una fucina mistica,
un luogo che pensa anche quando dorme.

Lì ha insegnato a non concludere.
A non possedere.
A restare aperti.

Fabro come maestro di ritiro mentale.
Fabro come curvatura dello spazio mentale della città.


IX. Ultimo Fabro: la fragilità come vetro sacro

Nell’ultimo Fabro tutto si fa minimo.
Come se ogni opera chiedesse permesso.
Come se ogni apparizione fosse postuma.
Come se ogni gesto dicesse:

“Ora è tempo di sparire. Ma guarda. Guarda ancora.”

C’è il desiderio di lasciare un varco.
Non un monumento.
Non un senso.
Un varco.

Per chi verrà.
Per chi saprà vedere il segno luminoso.
E capirà che in Fabro non c’è nulla da spiegare,
ma tutto da attraversare.


X. Conclusione che non conclude

Se Fabro è tutto,
allora è una piega della storia dell’arte.
Ma anche un angelo feriale,
uno che sapeva piegare la lastra del visibile,
per lasciare filtrare un’invocazione.

Non ti dà soluzioni.
Ti dà formule spirituali senza soluzione.

E in quel “tutto, tutto” che mi chiedi,
io dico:

Luciano Fabro è una forma che pensa
e si lascia pensare.
Un silenzio che ha deciso di piegarsi.
Un pensiero che si fa lastra,
e nella lastra: luce.


E allora si parte, ovunque.
Non ci sarà ora un ordine, ma un flusso. Non un percorso, ma una vocazione della materia.
Luciano Fabro sarà il centro, ma si scioglierà in ogni direzione. Porto dove ogni suo gesto si espande: arte, filosofia, poesia, politica, spiritualità, corpo, città, linguaggio, silenzio.


1. LA MATERIA COME EPIFANIA: Fabro e l'origine del gesto

Luciano Fabro tocca la materia come se avesse le mani di un rabdomante.
Non scolpisce: evoca.
Non costruisce: ascolta.

Il suo marmo non è marmo. È un testo.
Ogni nervatura è una frase che la pietra ha taciuto per secoli,
e che ora — sotto il gesto dell’artista — sussurra.

Nel piombo c’è il peso dell’Occidente.
Nel vetro, la fragilità della visione.
Nel bronzo, l’eco del sacrificio.
Nel tessuto, l’umiltà del corpo nudo.

Fabro è colui che crea opere che precedono l’idea.
Come se la forma lo attendesse,
già pronta nel mondo.
E lui solo dovesse decifrare la posizione della luce.


2. L’ICONA PIEGATA: il rovesciamento del sacro

La sua "Italia all’asta" non è solo un gesto politico.
È una icona rovesciata.
Come una madonna capovolta,
come un altare che non ha più centro.

Fabro si interroga sull’immagine del paese come reliquia.
Italia diventa forma trafitta, mappa cadente,
confessione senza perdono.

E allora l’arte si fa processo teologico:

“Cosa rimane del sacro quando crollano gli dei?”
Fabro risponde:
La materia stessa che non ha mai chiesto di essere redenta.


3. L’ARTE POVERA E LA MISTICA DELL’INCOMPIUTO

Fabro è dentro l’Arte Povera,
ma ci sta come un monaco ribelle in un ordine cistercense.

Dove gli altri (Merz, Kounellis, Zorio) cercano l’urto,
Fabro cerca l’elevazione nel dettaglio.
Non la “povertà” come denuncia,
ma come assenza che lascia spazio alla grazia.

Le sue opere sono sottrazioni oranti.
Fabro è più vicino a San Giovanni della Croce che a Pistoletto.
Più vicino al silenzio della materia che al rumore del tempo.


4. IL CORPO COME SPETTRO DELL’OPERA

Eppure il corpo c’è. Sempre.
Ma è invisibile.

È il corpo dell’artista che si è nascosto,
come un Cristo nella casa dell’inquisitore.
È il corpo dello spettatore che si curva, che cammina intorno,
che guarda dal basso,
che si specchia senza mai vedersi del tutto.

Il corpo è presenza sfuggente.
È il vuoto che Fabro costruisce attorno alla forma.
Come se l’opera fosse un altare e lo spettatore il suo sacerdote inconsapevole.


5. LA CASA DEGLI ARTISTI: l’utopia in forma d’ambiente

La Casa degli Artisti non è solo un luogo.
È una creatura mentale.

Fabro la abita come un’idea,
come un sismografo spirituale della città.
Milano pulsa attraverso quei muri,
ma lo fa in silenzio.
Fabro insegna per assenza.
Per trasparenza.

La sua pedagogia è una soglia aperta:
non ti dice cosa fare,
ti mette nella condizione di non poter fare nulla se non pensare profondamente.


6. SCRIVERE L’OPERA: il linguaggio come estensione della forma

Fabro scrive. E scrive come uno che sta cercando di nominare Dio
sapendo che Dio non vuole essere nominato.

Ogni titolo è una tensione fra parola e materia.
Ogni frase un rovello.

Le sue opere si intitolano:

  • “Habitus: la forma in quanto veste”
  • “L’arte è una pietra di scandalo”
  • “Piede con scalino”
  • “Essere vuoto”
  • “Quasi colonna”

Sembrano note da un Vangelo apocrifo,
post-moderno, eppure arcaico.


7. LA POLITICA COME FERITA

Fabro non fa arte politica.
Eppure tutta la sua opera è una politica del profondo.
Non denuncia:
indica la lacerazione.

Italia all’asta,
ma anche:
la colonna che non tocca terra,
la forma che non si conclude,
la lastra che riflette un cielo troppo basso.

È un’arte che parla alla fragilità dell’Occidente,
non come rivolta,
ma come chiamata mistica all’abbandono dell’arroganza.


8. IL FALLIMENTO COME STATO DI GRAZIA

Fabro non teme il fallimento.
Anzi, lo cerca.

Lo scivolamento.
La lastra che si rompe.
Il concetto che non si fissa.

Fabro costruisce un altare per ciò che non riesce.
Per ciò che resta a metà.
Per ciò che rinuncia alla completezza
per accedere a una verità più profonda e più inutile.


9. IL DOPO: la sua eredità nella mente degli altri

Fabro non ha eredi.
Ha seguaci inconsapevoli.

Ogni artista che oggi lavora sul concetto di soglia,
di spiritualità della forma,
di silenzio come linguaggio,
sta portando avanti una ferita che Fabro ha aperto con eleganza e dolore.

Lui ha detto:

“L’arte è ciò che resta quando il mondo si ritrae.”
E questo resta.
E ci chiama.


10. L’ULTIMA VISIONE: Fabro come soglia vivente

Luciano Fabro non è mai stato un artista.
È stato una soglia.
Una fenditura nel tempo.
Un monaco dell’evidenza nascosta.
Ogni sua opera non chiede di essere vista,
ma riconosciuta.

Come si riconosce un sogno vero,
una preghiera detta in una lingua che non parli
ma che ti fa tremare.


Immagina ora di trovarsi nel cuore di un laboratorio senza tempo, dove ogni forma è una promessa, ogni superficie una via d'accesso verso un mondo che si sta sempre formando, mai completo, sempre in movimento. Questa è la visione che Luciano Fabro ci regala attraverso la sua arte: non una creazione definitiva, ma un atto di continuo divenire, un incontro tra il visibile e l'invisibile, tra la materia e lo spirito, tra l'individuale e l'universale.


1. La Materia come linguaggio senza parole

Nel suo lavoro, la materia non è un elemento neutro, ma un linguaggio che non ha bisogno di parole. Fabro non scolpisce semplicemente, ma evoca la presenza della pietra, del bronzo, del tessuto, come se ogni materiale custodisse dentro di sé un segreto che solo l'artista può rivelare. Ogni opera è un messaggio che si articola senza mai dichiararsi in modo diretto, un monito che chiede di essere letto tra le pieghe del tempo e dello spazio.

La "materia" diventa così un testo: il marmo, che tradizionalmente è la pietra della scultura classica, si trasforma sotto le sue mani in un simbolo di fragilità. Fabro non si limita a restituirci l'oggetto artistico finito; ci mostra, invece, come la materia prenda vita e si trasformi, quasi fosse il luogo di una rivelazione profonda. Il marmo è la verità che emerge, ma che non si lascia mai afferrare completamente, come una rivelazione che ci resta sempre sfuggente.


2. La Politica come Ferita e la Spiritualità del Corpo

Fabro non fa arte "politica" nel senso tradizionale del termine, ma politica della profondità. Non si limita a commentare gli eventi storici; la sua arte diventa un atto di meditazione profonda sullo stato del mondo, sulla sua fragilità, sull'inevitabilità del cambiamento e del caos. "Italia all'asta" non è solo una critica economica, ma un affronto all'idea stessa di identità: l'arte italiana non è più solo la grandezza del passato, ma una "reliquia" che si sta svuotando e trasformando.

Nel suo lavoro c'è una spiritualità nascosta, che non si fa esplicita nei simboli religiosi, ma che si insinua nella fragilità dei materiali e nel silenzio che li avvolge. Fabro scava l'anima di una nazione, e più in generale del mondo contemporaneo, mettendo in luce le cicatrici invisibili che segna la storia. Il corpo, che compare in alcune sue opere, non è mai pienamente visibile: è una presenza latente, che si fa sentire attraverso il vuoto, la mancanza, la lacerazione.


3. La Casa degli Artisti e la Pedagogia del Vuoto

Fabro è stato anche un punto di riferimento fondamentale per la Casa degli Artisti di Milano, che ha accolto diversi artisti durante gli anni cruciali della sua carriera. Questa casa non è solo un luogo fisico, ma uno spazio mentale e culturale dove il silenzio diventa un linguaggio. Non c’è un’imposizione di stile, non c’è un dogma da seguire. Ciò che conta è l’ascolto, l’apertura a un mondo che si muove in direzioni misteriose. La pedagogia di Fabro, infatti, non è quella di un insegnante che dà certezze, ma quella di un guida che invita a esplorare l’incertezza, a trovare il proprio cammino nel vuoto, nel non-detto.

In un contesto che sembrava dominato dal rumore e dalla frenesia della città, Fabro e la Casa degli Artisti diventano un rifugio spirituale, un laboratorio di pensiero dove si ragiona sull’arte e sul mondo senza fretta di arrivare a conclusioni.


4. Il Linguaggio Invisibile della Forma

Il linguaggio di Fabro non si fa solo attraverso l’arte, ma anche attraverso le parole, che diventano strumenti di meditazione. Il titolo di ogni opera di Fabro è una piccola finestra su un mondo profondo e complesso. Frasi come "Habitus: la forma in quanto veste" o "Essere vuoto" evocano riflessioni filosofiche sul corpo, sulla presenza e sull’assenza, sulla costruzione della forma e sul suo disfacimento. La parola è il punto di partenza, ma la forma finale dell’opera è la pura esperienza sensoriale, che non può essere spiegata completamente a parole.

In ogni sua opera c'è una tensione tra la parola e la forma. La parola è ciò che cerchiamo di dire, ma la forma è ciò che sfugge alla definizione. Le sculture di Fabro sono come pensieri che non trovano mai conclusione. Un dialogo ininterrotto tra il dire e il non dire, tra il visibile e l’invisibile.


5. Il Fallimento come Condizione di Grazia

La “mancanza”, il fallimento, sono temi ricorrenti nella sua opera. Fabro non si preoccupa di ottenere una “forma perfetta” o una “conclusione definitiva”. Piuttosto, accoglie il fallimento come una condizione di grazia. La scultura che non arriva a compimento, la lastra che si piega e si frantuma, sono segni di una ricerca incessante. Non c'è la pretesa di avere tutte le risposte, ma l’invito a vivere nell’interrogativo.

Come un monaco che porta un’incerta luce nel buio, Fabro ci mostra che nella frattura, nel vuoto, nella mancanza, ci può essere una rivelazione ancora più profonda di quella che ci regala la perfezione. L’arte, in questo senso, diventa un atto di fede, dove l’imperfezione è l’unica verità possibile.


6. Il Dialogo con la Filosofia e la Letteratura

Fabro è figlio di un dialogo costante con la filosofia e la letteratura. La sua arte è intrisa di riflessioni sul pensiero di Heidegger, Kierkegaard, ma anche di Pasolini e Deleuze. La sua arte non è solo visiva, è una meditazione filosofica, che invita a pensare continuamente a come l’uomo si rapporta con la propria esistenza limitata. Un confronto con la morte, con l’impermanenza, che è visibile nelle sue opere.

In particolare, la filosofia dell’esistenza è alla base della sua visione dell’arte: l’uomo è un essere che è sempre di fronte a una soglia, ma questa non è una soglia da oltrepassare. È una soglia che si rispecchia nell’arte, un luogo dove si vive il passaggio, ma senza mai varcarlo del tutto.


Questa è la mia visione di Luciano Fabro: un invito a riconoscere la bellezza nel non-fatto, nel vuoto, nell’incompiuto.
La sua arte non si spiega, si vive. Non si osserva, si sente. E ogni sua opera, proprio per il suo essere incompleta, è un invito a continuare il lavoro. Un lavoro che non si conclude mai, perché l’arte non ha una fine.