martedì 24 giugno 2025

Un violino che risuona nell’assenza: la scrittura come eco e inciampo in Fiocchi

Il violinista Igor Brodskij di Romano Augusto Fiocchi, si presenta come un’opera compatta e insieme sfuggente, una narrazione che sovverte le attese senza mai rinunciare al fascino della forma. Al di sotto della sua struttura decentrata, si cela un dispositivo narrativo complesso, che gioca con le forme della narrazione tradizionale per sabotarle dall’interno. Fiocchi scrive un testo che, come il suo protagonista, non suona realmente, ma genera effetti di suono, risonanze, illusioni sonore – come se la letteratura potesse ancora incantare proprio nel momento in cui si dimostra impotente a farlo.

Il violinista ebreo senza violino, figura insieme patetica e perturbante, assume le fattezze di un trickster, un ingannatore gentile, il cui potere di seduzione non sta tanto nella musica, quanto nella promessa della musica: una sorta di canto interrotto, sempre all’orizzonte ma mai pienamente udibile. La ragazza armena che lo accompagna, senza nome e senza parola, si iscrive in questa stessa logica simbolica: è la metafora vivente di un desiderio privo di destinazione, di una lingua inesprimibile.

Questa dinamica – dell’incompiuto, del mancante, del mai del tutto detto – è il cuore pulsante del romanzo. L’inchiesta condotta dal detective (che più che un investigatore è un olfattivo visionario, quasi un rabdomante del senso) diventa il motore di una narrazione che gira a vuoto per scelta, costruita come un labirinto senza centro. La ricerca di Igor, come quella di molti personaggi della letteratura mitteleuropea del Novecento, è destinata al fallimento – ma è proprio nel fallimento che si produce la verità del testo: una verità estetica, non fattuale.

Lo stile: tra l’alchimia fonetica e il cortocircuito semantico

La lingua di Fiocchi non è mai lineare. Anzi, pare programmata per ostacolare la lettura, per rallentarla, costringerla a inciampare, a fermarsi. I registri cambiano di continuo: si passa dal parlato ironico e stralunato a una sorta di lirismo involontario, che si manifesta in immagini straniate, fuori asse, spesso ai margini del ridicolo. Ma è proprio in questo cortocircuito che il testo prende vita. L’autore sembra lavorare la frase come un artigiano della dissonanza: niente è armonico, tutto è intenzionalmente sbilenco, come se la parola potesse (e dovesse) restituire un mondo disarmonico e irriconciliato.

Il ricorso al lessico musicale è costante ma mai letterale: la musica, nel libro, è prima di tutto una metafora della scrittura. E la scrittura – sembra dirci Fiocchi – è una forma di acrobazia dell’invisibile, un atto magico fallito, ma ancora in grado di provocare reazioni reali nei lettori-personaggi. Non a caso, chi ascolta Igor finisce spesso per innamorarsi. Ma di cosa? Di lui? Di se stessi? Dell’assenza che egli incarna?

Il modo in cui Fiocchi orchestra il linguaggio ricorda certi meccanismi da orologiaio di Patrik Ouředník, in cui la struttura narrativa è un campo di battaglia semantica, e ogni frase è uno spostamento di senso, uno slittamento ironico. Ma a differenza del ceco, che spesso ricorre al frammento come gesto politico, Fiocchi costruisce una lingua piena, sbilenca ma continua, come un respiro che si sforza di restare vivo nella sincope.

Al tempo stesso, la dimensione visionaria e quasi eterea dell’immaginario narrativo può ricordare le trame "aeree" di Goran Petrović, dove la realtà si sospende in una nuvola di narrazione che si sfalda appena si tenta di fissarla. Fiocchi, però, sembra voler contaminare questa leggerezza con la sporcizia urbana, con l’asfalto, con gli odori, con le pieghe del corpo: la sua non è una prosa levigata, ma una scrittura che ansima, suda, barcolla.

C'è infine un'eco della dolce anarchia di Bohumil Hrabal, soprattutto in quel gusto per l'accumulo di immagini stralunate, per le traiettorie narrative che sembrano ubriache e invece sono minuziosamente calibrate. Come Hrabal, Fiocchi ama i margini, i personaggi eccentrici, i detriti del reale. Ma dove Hrabal canta un mondo pieno, quasi traboccante di vite minute, Fiocchi celebra un mondo desertificato, in cui la meraviglia si dà per eccesso di mancanza.

Politica del desiderio e genealogia dell’erranza

Il sottotesto diasporico è centrale, ma non viene mai tematizzato in maniera didascalica. Igor, l’ebreo russo errante, e la ragazza armena silenziosa sono corpi fuori luogo, figure liminari che portano con sé l’impronta dell’esilio, della perdita e della memoria spezzata. Tuttavia, Fiocchi non ne fa mai delle icone vittimarie: i suoi personaggi sono vivi, vitali, imprevedibili. Vivono nella contraddizione, nel malinteso, nel paradosso. L'identità è un gioco, una maschera, un depistaggio. La città è un non-luogo: non è importante dove si svolge la storia, perché l'erranza non ha bisogno di geografie riconoscibili.

La politica che emerge da questa narrazione è quella di una poetica del margine: nulla è centrale, nulla è stabile. Anche il detective – che in altri romanzi sarebbe il garante dell’ordine, del sapere, della verità – qui è uno spaesato, un cercatore senza mappa, il cui strumento di indagine (l’olfatto ipersviluppato) suggerisce una lettura del mondo più animale, più carnale, ma altrettanto fallace. Il suo fiuto non porta alla verità, ma a nuove domande.

Un gesto di rottura nel panorama editoriale italiano

Nel contesto del romanzo italiano contemporaneo – spesso appiattito su forme riconoscibili di autofiction, cronaca familiare o minimalismo esistenziale – Il violinista Igor Brodskij rappresenta una provocazione: non tanto per i temi, quanto per la sua forma. Fiocchi scrive contro la trasparenza, contro la semplicità, contro la rassicurazione narrativa. Il suo testo è un piccolo oggetto narrativo obliquo, difficilmente classificabile: troppo breve per essere un romanzo canonico, troppo scritto per essere una favola, troppo astuto per essere naïff.

E proprio per questo colpisce: perché si offre come enigma, come esperimento, come evento linguistico. Un atto di fiducia nella potenza della letteratura non come strumento di comunicazione, ma come zona di rischio. Leggere Fiocchi è accettare una sfida: abbandonare la trama e perdersi nel suono; rinunciare al senso e lasciarsi travolgere dal ritmo; disimparare a leggere, per leggere diversamente.