La bellezza come armatura, la teatralità come rivoluzione: il New Romantic
Nella Londra della fine degli anni Settanta, mentre le macerie culturali del punk ancora fumavano nei club e nelle menti dei giovani britannici, un’altra corrente sotterranea iniziava a muoversi, silenziosa ma già elettrica. Non nacque da una manifestazione politica, né da un manifesto programmatico, ma dal desiderio feroce – e profondamente estetico – di affermare una nuova visione del sé. Un sé immaginato, imbellettato, costruito con cura maniacale, come un’opera d’arte vivente. È in questo contesto che sbocciò il movimento New Romantic, una sottocultura giovanile che, nel volgere di pochi anni, avrebbe invaso la musica, la moda, le arti visive, influenzando in maniera duratura tutta l’estetica degli anni ’80.
La sua nascita è spesso collocata tra Londra e Birmingham, due città che, seppur molto diverse per temperamento, condivisero allora un bisogno comune di reinvenzione. Dopo la brutalità ideologica e l’urgenza raw del punk, il New Romantic rappresentò una sorta di rifugio visionario. Ma sarebbe un errore vederlo come un semplice "ritorno al romanticismo": si trattava piuttosto di una mutazione, un’incarnazione mutante del dandysmo ottocentesco, filtrato attraverso la lente deformante del glam rock, del futurismo elettronico e della libertà queer. Un universo artificiale e volutamente esagerato, dove il confine tra maschile e femminile era reso volutamente fluido, dove l’apparenza contava più del messaggio, e il trucco più della verità.
A catalizzare tutte queste tensioni fu The Blitz, un piccolo club al 34 di Great Queen Street, a Covent Garden. Aperto una sera a settimana, divenne in breve tempo la corte notturna più esclusiva di Londra, un tempio minore ma ardente della bellezza e della performatività. La selezione all’ingresso era rigidissima: solo chi superava lo sguardo chirurgico di Steve Strange, suo carismatico anfitrione, poteva accedere al regno effimero dei Blitz Kids. Ma non si trattava di bellezza canonica: ciò che contava era l’audacia, l’originalità del look, la capacità di incarnare qualcosa di altro, di oltre. E infatti, quella generazione si costruì come un pantheon di maschere, ognuna più affascinante e straniante dell’altra.
Steve Strange, che da lì a poco sarebbe diventato la voce dei Visage, fu il volto più riconoscibile del New Romantic: albino, angelico, enigmatico, incarnava una visione ultraterrena del glamour. Ma accanto a lui fiorirono altre personalità indimenticabili: Boy George, allora guardarobiere del Blitz, destinato a trasformarsi nel cantante dei Culture Club, divenne presto un’icona planetaria, un profeta pop della disidentificazione di genere. E poi Marilyn (vero nome Peter Robinson), albino anche lui, spesso vestito da sposa o da bambola vittoriana, con il volto ceruleo incorniciato da parrucche biondo platino. Erano creature di un mondo a parte, espressioni viventi di un'estetica barocca e nostalgica, affamata di travestimento, di citazione, di camp esasperato.
A influenzare profondamente questo mondo fu David Bowie, non solo come musicista, ma come vero e proprio demiurgo. Il Bowie del periodo berlinese, quello di Low, Heroes, ma anche l’alieno di The Man Who Fell to Earth e l’androide di Diamond Dogs, offriva una matrice estetica e spirituale al movimento. La sua apparizione nel videoclip di Ashes to Ashes (1980), in cui volle alcuni Blitz Kids al suo fianco, fu un gesto di incoronazione: come se avesse riconosciuto in loro i suoi eredi naturali, destinati a portare avanti la fiaccola del mutamento. Il video stesso, con la sua estetica onirica e decadente, divenne un manifesto visivo della sensibilità New Romantic.
Musicalmente, la scena era un crogiolo eterogeneo: al Blitz si ballava di tutto, dai ritmi ossessivi del Krautrock tedesco (Kraftwerk, Neu!), al lirismo astratto del Progressive, passando per la Disco, allora all’apice del suo fulgore post-Studio 54, e per i primi esperimenti elettronici del Synthpop. È in questa mescolanza che si formò il suono del New Romantic: sintetizzatori, voci filtrate, ritmi meccanici ma emotivi, melodie languide, testi esistenziali. I Visage ne furono il primo esempio pienamente consapevole (Fade to Grey è oggi un classico), seguiti poi da band come Spandau Ballet (che iniziarono proprio al Blitz), i già citati Culture Club, e ovviamente i Duran Duran, nati a Birmingham ma perfettamente calati in quell’immaginario.
Il successo fu travolgente. Grazie a MTV, che agli inizi degli anni ’80 cercava disperatamente contenuti visivi di forte impatto, il New Romantic divenne presto un fenomeno globale. Quelle facce dipinte, quei corpi inguainati in tessuti scintillanti, quei videoclip sontuosi e drammatici, conquistarono il pubblico americano, rendendo le band britanniche protagoniste assolute della nuova estetica audiovisiva.
Ma come spesso accade alle meteore più luminose, anche il New Romantic conobbe un declino altrettanto rapido. Già nel 1983, molti dei suoi protagonisti prendevano le distanze da quell’immaginario. Gli Spandau Ballet si convertirono a un soul-pop più mainstream, i Duran Duran seguirono un percorso sempre più professionale e patinato. Restarono le icone, ma si sfaldò il gruppo, la scena, la tribù. Per molti, fu l’inizio della discesa. Steve Strange, Marilyn, Boy George – pur raggiungendo il successo – dovettero affrontare, ciascuno a modo suo, il prezzo dell’eccesso: le dipendenze, l’isolamento, il crollo psicofisico. In una cultura ancora incapace di accogliere la complessità queer, e profondamente ipocrita verso il tema delle droghe, furono lasciati spesso soli.
Eppure, il seme era stato gettato. La lezione del New Romantic sopravvisse ai suoi anni canonici, influenzando decine di artisti e stilisti, da Alexander McQueen a Lady Gaga, da Madonna a FKA Twigs. La consapevolezza del travestimento come discorso, dell’estetica come posizione politica, del genere come maschera performativa, affonda le sue radici in quella stagione così breve e incandescente.
Negli ultimi anni, il Regno Unito ha riscoperto con orgoglio quel movimento: documentari firmati da BBC, Sky Arte, Netflix, biopic come Worried About the Boy, musical come Taboo, scritto da Boy George stesso, hanno riportato alla luce quella stagione, restituendole la dignità che merita. Non si tratta solo di nostalgia, ma di un vero e proprio ritorno del rimosso: perché il New Romantic, nella sua fragilità e nel suo splendore, ci parla ancora. Di identità, di bellezza, di libertà. E del bisogno, tutto umano, di trasformare la vita in un’opera d’arte.
Partiamo da Steve Strange, figura chiave e demiurgo dell'intera scena, il cui volto – albino, diafano, quasi postumano – resta ancora oggi l’icona più radicale e commovente del New Romantic.
Steve Strange, l’angelo della decadenza: un ritratto
Nato Stephen John Harrington nel Galles del Sud nel 1959, Steve Strange fu sin da subito attratto dalla musica, dal travestimento e da tutto ciò che poteva trasformare il corpo in una superficie da scrivere. Prima di diventare il re del Blitz, fu roadie per i Sex Pistols e manager del punk club The Roxy. Ma il punk, pur nella sua vitalità, gli stava già stretto: quella cultura del rifiuto, pur liberatoria, non gli bastava. Era pronto per qualcosa di diverso: non più distruggere il sistema, ma superarlo, inventando un nuovo vocabolario di gesti, tessuti, volti, melodie.
Nel 1978 fonda i Visage con Midge Ure e Rusty Egan: un laboratorio sonoro e visivo, più che una band vera e propria. Il loro successo Fade to Grey (1980) non fu solo una hit planetaria: fu una dichiarazione d’intenti. Un brano cantato in parte in francese da una voce femminile (la modella Brigitte Arens), sorretto da un tappeto di sintetizzatori ipnotici e da un testo rarefatto, quasi esistenziale. Il video, in cui Strange appare truccato come una statua neoclassica in bianco e nero, è ancora oggi una delle opere visive più sofisticate dell’epoca.
Ma il vero capolavoro di Steve fu The Blitz. Ogni martedì notte, quel piccolo seminterrato di Covent Garden si trasformava in una passerella, un palcoscenico, una navicella per altri mondi. Il dress code era non negoziabile: chi si presentava in jeans veniva respinto, anche se si trattava di Mick Jagger o David Bowie (una leggenda che Strange amava raccontare e forse ingigantire, come ogni vero aristocratico delle notti). Bowie, però, alla fine fu ammesso: aveva capito tutto. Lo volle nel video di Ashes to Ashes, insieme a Judith Frankland, Darla-Jane Gilroy e altri Blitz Kids. Fu l’unico vero momento in cui la scena ebbe il suo sigillo d’immortalità.
Strange non era solo un selezionatore di look: era un sacerdote del mutamento. Ogni settimana cambiava volto, trucco, stoffe. Collaborava con designer emergenti, in particolare Judy Blame e Leigh Bowery (che venne dopo ma fu figlio diretto del suo esempio). In lui il trucco diventava maschera sacra, e il corpo una statua votiva. Era fragile, intensamente carismatico, irraggiungibile. Tutti lo volevano imitare, ma nessuno era come lui. Neppure Boy George.
Negli anni successivi, con il declino della scena, Strange attraversò periodi difficili. Divenne dipendente dall’eroina, fu più volte arrestato per piccoli furti. I tabloid lo ridicolizzarono, lo inseguirono come una figura tragica. Ma chi lo conosceva davvero – come Marc Almond o lo stesso Boy George – racconta una storia diversa: quella di un uomo ferito, ipersensibile, incapace di adattarsi a un mondo che chiedeva normalità.
Morì, a 55 anni, per un attacco cardiaco, mentre era in vacanza a Sharm el-Sheikh. L’annuncio colpì tutti quelli che, in quegli anni, avevano ballato nelle sue notti. Alcuni si spinsero a dire che con lui morì la Londra veramente creativa. Quella che trasformava le rovine post-punk in templi del travestimento.
Ma la sua eredità è viva. Senza Steve Strange non ci sarebbero stati Lady Gaga, Peaches, Arca, Harry Styles. Non ci sarebbe stata una concezione del pop come rituale visivo, dove la canzone è solo una parte del discorso, e il corpo ne è il tempio.
Questa volta suddividerò il discorso in sei sezioni, ognuna dedicata a un aspetto più profondo, con digressioni storiche, estetiche, emotive e culturali. Il tono rimane ironico, elegiaco e stratificato, come uno specchio incrinato che riflette i frammenti di un’epoca che ha provato a rifondare il corpo e il sé.
I. Genesi dell’immagine sovversiva: il corpo come tela
Nel cuore della Londra thatcheriana, afflitta dalla disoccupazione, dal razzismo, dall’omofobia latente e spesso dichiarata, sorge una cattedrale laica: il Blitz Club. Non è un luogo per ballare, ma per essere visti. George O’Dowd non ha ancora scelto il nome Boy George, ma sa già che il suo volto truccato con pazienza liturgica è una maschera più autentica della faccia che nasconde. Marilyn, invece, si aggira come una visione opalina, un angelo transgender che porta la stanchezza degli anni Trenta in un corpo che grida 1982.
In questo contesto, il corpo non è più un’entità biologica, ma una superficie da reinventare ogni sera. Le palpebre si dipingono con pigmenti violenti, le guance si scolpiscono in geometrie emotive, le labbra diventano ferite erotiche. La moda non serve a coprirsi, ma a dichiararsi: è araldica queer, è blasfemia sartoriale. Ogni abito urla una domanda: Mi vedi davvero? O stai solo fissando ciò che non capisci?
II. I due volti del desiderio: Boy George e Marilyn come polarità
Boy George è l’avatar solare. Malizioso, cerebrale, poliedrico, è un trickster che si esibisce con l’innocenza programmata di un monaco pop, mentre sussurra parole d’amore ambigue in canzoni costruite come trappole melodiche. Do You Really Want to Hurt Me? non è solo un tormentone, è una domanda esistenziale mascherata da hit. George non è un gender bender per provocare, ma per sopravvivere. La sua immagine è una corazza di piume e eyeliner contro una realtà che lo voleva scomparso.
Marilyn è invece il volto notturno. È la ferita esposta, la bellezza che chiede protezione. Il suo biondo platino è una dichiarazione di resa. In lui non c’è trucco, c’è solo bisogno. Non canta, implora. Non danza, ondeggia. La sua malinconia è l’altra faccia dell’euforia New Romantic: la consapevolezza che nessuna maschera ti salva dalla fame d’amore.
III. Estetica come insurrezione: oltre la moda, oltre l’identità
La moda dei New Romantics non è tendenza, è esorcismo. I vestiti, i gioielli, i cappelli da vedova veneziana, sono tutti atti rituali. Le influenze sono infinite: il kabuki giapponese, l’Art Nouveau, il punk, l’egittologia kitsch, il Settecento da cartolina. Ma ciò che conta non è la citazione, bensì l’intenzione: ogni look è una dichiarazione politica. Io mi invento. Io non vi devo niente. Io esisto come voglio.
Vivienne Westwood, i primi McQueen, i costumisti dei film di Derek Jarman… tutti attingono da questo magma, lo metabolizzano e lo rilanciano. Il New Romanticismo è una “scuola di visione”, che insegna a sovvertire il codice con il colore, a rispondere all’oppressione con la metamorfosi. Non stupisce che molti ex Blitz Kids diventino stilisti, fotografi, performer. Avevano imparato a usare il corpo come slogan prima ancora che Instagram esistesse.
IV. MTV, il videoclip e l’invenzione della visibilità queer
Quando MTV nasce nel 1981, tutto cambia. Il videoclip è la Bibbia apocrifa dei New Romantics. Non si canta più solo per essere ascoltati, ma per essere guardati mentre si canta. L’occhio dello spettatore diventa complice o carnefice, e Boy George è maestro in questa nuova grammatica. Si presenta come Madonna prima di Madonna: androgino, sfacciato, magnetico. Il suo volto ipnotico – mascara e ironia – è il primo che molte famiglie americane vedono sulle loro nuove TV via cavo.
La società reagisce con panico e desiderio. George viene “censurato” e idolatrato allo stesso tempo. Si cerca di capire “se è uomo o donna”, come se bastasse il dato biologico a chiudere la questione. In realtà, George è una figura di soglia: non è né maschio né femmina, né vittima né carnefice, ma testimone di un possibile altro modo di vivere.
Il videoclip di Time (Clock of the Heart) è un trattato sulla malinconia queer: George canta davanti a un orologio che segna un tempo sempre diverso, mentre intorno tutto è elegantemente surreale. È una poesia visiva, e una lezione: il tempo queer non segue l’orologio etero.
V. Cadute e resurrezioni: il dolore come iniziazione
Ma nessun paradiso dura per sempre. George precipita nel labirinto delle dipendenze. Marilyn scompare. Jon Moss, batterista e grande amore di George, lo lascia. Gli anni ’90 sono una punizione. George finisce in carcere per aver sequestrato un escort, Marilyn tenta il suicidio. La stampa li tratta come fenomeni da baraccone: “ex drag queen tossico”, “squilibrato”, “dementi degli anni '80”.
Eppure, è in questa discesa che la loro umanità si rivela in tutta la sua potenza. George scrive libri, fa il DJ, affronta i suoi demoni pubblicamente. Marilyn riappare come una sibilla stanca, ma ancora capace di una bellezza straziante. In un’intervista del 2015, dice: “Non c’era nulla di frivolo in ciò che facevamo. Noi volevamo solo essere amati.” È una confessione, ma anche un atto d’accusa: il mondo non era pronto per loro, ma loro si sono mostrati lo stesso.
VI. Eredità: lo spettro luccicante che ancora danza
Nel 2025, l’estetica dei New Romantics è ovunque. Nelle passerelle, nelle cover di album, nei profili queer di TikTok che sfilano come eredi inconsapevoli. Ma ciò che manca spesso è la consapevolezza della ferita. I Blitz Kids non volevano solo visibilità, volevano trascendenza.
Oggi George è un’icona resiliente, un Buddha gotico che ha attraversato l’inferno con gli stivali di lustrini. Marilyn è un fantasma gentile, che ancora si aggira nei cuori di chi ha amato senza essere ricambiato. Entrambi ci hanno insegnato che l’estetica non è fuga, ma costruzione. Che l’arte può nascere dal trauma. Che la bellezza può essere un’arma, una preghiera, o un ultimo bacio prima del disastro.
La maschera e il volto: riflessione queer sul New Romantic
Nel cuore del movimento New Romantic, che esplose tra Londra e Birmingham a cavallo tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, la maschera non era solo un ornamento, ma un gesto filosofico, un’azione politica, un rifugio e insieme un’arma. Non si trattava semplicemente di truccarsi o indossare abiti eccentrici per stupire – anche se certo lo stupore era parte del gioco – ma di rimettere in discussione tutta l’idea di “verità” del volto, di “natura” dell’identità. La maschera, in quella cultura queer che sbocciava sui marciapiedi e nelle toilettes del Blitz Club, non nascondeva: rivelava.
Non a caso molte teorie contemporanee sull’identità, come quelle proposte da Judith Butler, sono emerse in quello stesso periodo. Il genere, scrive Butler, è una performance, un atto che si ripete fino a sembrare naturale. E allora i New Romantics, con i loro volti bianchi come porcellana, i capelli laccati, gli occhi da Pierrot tossico, cosa facevano se non interpretare in modo consapevole e drammatico l’identità come teatro, come recita, come sogno?
Il trucco pesante non era un camouflage, ma una dichiarazione: non ci interessa chi credete che siamo, vi costringeremo a guardarci mentre diventiamo qualcos’altro. Il corpo queer, risignificato, si esponeva al mondo in tutta la sua ambiguità, con la grazia barocca del dandy ottocentesco e l’elettricità del futuro sintetico. Per molti, era anche un modo di proteggersi, di costruirsi uno scudo estetico contro un mondo che li voleva invisibili, o morti.
Questa estetica, così fortemente visiva, si radicava in luoghi precisi, eppure aveva anche una geografia simbolica che ne trascendeva i confini. Il Blitz Club di Londra, dove Steve Strange e Boy George facevano la selezione all’ingresso come sacerdoti di un culto glam, è oggi diventato un mito. Ma accanto ad esso c’erano anche altri spazi: le vie di Camden, dove si acquistavano pezzi unici da assemblare in mise ogni notte diverse; i backstage delle discoteche, dove ci si cambiava e ci si truccava più che ballare.
E poi, i luoghi simbolici: i videoclip, prima di tutto. Quando David Bowie chiamò “quelli del Blitz” a comparire nel video di Ashes to Ashes, il gesto fu insieme benedizione e consacrazione. Il videoclip, per la prima volta, diventava uno spazio altro, un set teatrale dove l’identità poteva essere montata, moltiplicata, esplosa. MTV colse al volo quel potenziale, e lo rilanciò nel mondo.
Un altro luogo simbolico fu la moda. Non solo le boutique alternative o i negozi di seconda mano, ma anche le passerelle cominciarono a riflettere quello stile opulento e mutante. Stilisti come Vivienne Westwood, già contaminata dal punk, intercettarono questo gusto per il travestimento, per il sovraccarico decorativo, per l’ambiguità dei ruoli.
E infine, il teatro e il musical. Uno su tutti: Taboo, il musical scritto da Boy George, che racconta quella stagione come una vera e propria fiaba dark, popolata di spiriti ribelli e creature notturne, tra euforia e autodistruzione. O ancora Worried about the Boy, il film per la BBC che racconta gli anni formativi di Boy George con dolcezza e malinconia.
Il New Romantic, in fondo, fu questo: una danza sul filo del rasoio tra creazione e disfatta. La maschera era un invito a vedere, non a nascondere. A immaginare mondi nuovi nel riflesso luccicante di uno specchio da bagno, tra una pennellata di fard e una dose di sogno.
E oggi, nel tempo dei filtri e delle identità digitali, forse dovremmo tornare a guardare a quei volti bianchi, incorniciati da pizzi e sintetizzatori, per chiederci: cosa sveliamo davvero quando decidiamo di mostrarci?
Proseguiamo allora in questa traiettoria incandescente, lì dove la notte diventa un manifesto, e i corpi – anche i più disperati – un’epifania.
Leigh Bowery: il corpo come carne di scena
Tra tutte le figure che fiorirono nel sottobosco queer e post-New Romantic londinese, Leigh Bowery è forse la più radicale. Nato in Australia e trapiantato nella Londra degli anni Ottanta, Leigh non volle mai “appartenere” né alla moda, né all’arte, né alla musica, pur lavorando febbrilmente in tutte e tre. Il suo corpo diventò il campo di battaglia su cui ridefinire ogni idea di bellezza, oscenità, identità. Si cuciva la bocca con aghi da tappezziere, si vestiva da Madonna del parto con sei capezzoli e un pancione posticcio, si muoveva sulla scena come un’icona sacra uscita da un rave infernale.
Bowery capì prima di molti che il corpo queer non doveva più chiedere il permesso per esistere, ma poteva imporsi come opera vivente, scultura mutante, azione poetica. Fu performer nei locali underground e nei musei d’arte contemporanea, ispirò Alexander McQueen e cerchiò d’oro la tela dell’artista Lucian Freud, che lo ritrasse nudo più volte in una serie di dipinti carnali e intensi. La sua figura, immensa e inclassificabile, rappresenta un’eredità queer che si nutre di travestimento, eccesso, shock e devozione: un’eredità che continua a parlare a chiunque scelga di abitare il proprio corpo come un campo di possibilità, e non come una prigione.
Princess Julia: l’occhio che guarda (e racconta)
Meno provocatoria forse, ma non meno centrale, Princess Julia è una testimone lucida e partecipe di tutta la parabola del New Romantic e oltre. DJ, fashion icon, columnist, musa e archivista vivente, Julia comincia la sua carriera al Blitz, dove si muoveva tra i divanetti assieme a Boy George, Steve Strange, Marilyn. Ma a differenza di molti, non si è mai ritirata dalla scena: ha continuato a vivere la notte come uno spazio di racconto, trasformazione, resistenza. Le sue playlist sono una timeline affettiva del queer clubbing, una geografia musicale dei desideri: da Visage a Grace Jones, da Peaches ai Pet Shop Boys.
Julia è anche una figura preziosa perché non ha mai smesso di scrivere e riflettere sul proprio mondo, lasciandoci preziose interviste, articoli, fotografie. La sua voce, ironica e tenera, racconta con lucidità quel passaggio epocale tra gli anni ’70 e la postmodernità, tra l’innocenza dell’eccesso e l’ombra dell’AIDS, tra l’euforia del travestimento e la fatica del quotidiano. Nei suoi occhi – truccati, ovviamente – c’è lo specchio della club culture queer come resistenza gentile, come affermazione dell’esistenza attraverso la danza, la musica, il trucco, l’amicizia.
Club culture e queer theory: una grammatica del possibile
Tutto questo, ovvero ciò che è avvenuto nel buio delle piste da ballo, tra le casse pulsanti del synthpop e i bagni illuminati da luci al neon, è diventato poi materia viva per la queer theory, quella corrente critica che ha scardinato, a partire dagli anni ’90, le impalcature eteronormative del pensiero moderno. Autrici come Judith Butler, bell hooks, Sara Ahmed, José Esteban Muñoz hanno mostrato come le sottoculture queer – e in particolare il clubbing – non siano solo folklore urbano o estetica marginale, ma autentici laboratori esistenziali, spazi performativi dove si costruiscono identità fluide, corpi dissidenti, relazioni alternative.
Muñoz in particolare, nel suo Cruising Utopia, scrive che “il club è un’utopia concreta”, un luogo dove la comunità queer immagina e mette in scena un futuro diverso. Ecco che i club – dal Blitz al Taboo, dal Heaven al Trade – diventano templi mobili, dove la danza diventa un rito e l’abito una dichiarazione politica. Il glamour non è evasione, ma rivolta. L’eccesso non è frivolezza, ma architettura della sopravvivenza.
E oggi? Oggi che molte discoteche queer sono state chiuse, che i codici estetici sono stati assorbiti (e sterilizzati) dalla moda mainstream, ci si chiede se resti ancora qualcosa di quella forza sovversiva. Forse sì. Forse sopravvive in certe serate di periferia, nei balli queer latini, nei club trans-femministi, nei dancefloor clandestini di Berlino o San Paolo, o negli spazi digitali dove avatar e corpi postumani si corteggiano sotto luci fittizie.
Forse sopravvive ogni volta che qualcuno, davanti allo specchio, si trucca come se stesse salendo sul palco del mondo.
Avanti allora nel ritmo, dove il corpo diventa linguaggio e il ballo un grido, un codice, una rivendicazione: voguing e New Romanticismo, due mondi apparentemente distinti, eppure uniti da un principio trasversale di performance come affermazione identitaria, e da una drammatica consapevolezza: la bellezza è un atto di sopravvivenza.
Voguing e New Romantic: due danze, una stessa fame di mondo
Il voguing, nato negli anni ’70 nella comunità afro-latina queer di Harlem, e il New Romanticismo, esploso a Londra in quegli stessi anni, sembrano inizialmente percorsi paralleli. Il primo nasce dall’estrema marginalizzazione e dalla necessità di creare una cultura alternativa in cui chi era sbagliato per il mondo potesse finalmente sentirsi protagonista: category is... realness, darling!. Il secondo, più bianco e più europeo, nasce come reazione estetica e performativa alla desolazione punk e all’omologazione borghese: una mise en scène di stile, identità fluida e nostalgia per un altrove immaginario.
Ma entrambi i movimenti – se osservati con sguardo queer – parlano lo stesso linguaggio: quello della maschera espressiva, del corpo che racconta, dell’abito che sfida, del gesto che recita un ruolo diverso da quello imposto dalla biologia o dalla società. Entrambi fanno della coreografia sociale un’arte: il voguing nei balli di ballroom, il New Romantic nei rituali del clubbing. Entrambi creano famiglie alternative – le Houses nella ballroom scene, le crew e i gruppi stilistici del Blitz – e stabiliscono codici di comportamento, categorie, giudizi, premi, idolatrie. La cultura queer, ovunque si sia sviluppata, ha sempre dovuto costruire da sé i propri palcoscenici.
E poi, il trucco: pesante, grafico, androgino. La posa: barocca, teatrale, esasperata. Il volto che diventa icone, non semplicemente perché vuole piacere, ma perché deve esistere, anche se nessuno ha mai chiesto che esistesse. È in questa lotta comune che voguing e New Romantic si toccano: nella dichiarazione di una nuova identità attraverso la forma.
Club culture e crisi dell’identità post-AIDS: da euforia a memoriale
Ma come si è trasformato tutto questo, quando il tempo dell’euforia ha dovuto fare i conti con la catastrofe? Quando gli anni Ottanta si sono piegati sotto il peso dell’AIDS, la club culture queer, da terreno fertile di sperimentazione identitaria, si è trovata improvvisamente a convivere con il lutto, la paura, la scomparsa.
Il ballo non ha smesso di essere espressione, ma ha acquisito un’altra funzione: diventare memoria, resistenza attraverso la vitalità. I corpi che danzavano lo facevano contro la morte, contro l’invisibilità, contro l’indifferenza istituzionale. Ogni pista da ballo diventava un altare mobile: le luci stroboscopiche illuminavano volti che spesso il giorno dopo non ci sarebbero stati più. Ogni travestimento era una sfida, un rito, una preghiera. L’identità queer, che fino ad allora era stata giocosa e frammentaria, dovette farsi più cosciente, politicizzata, intersezionale.
Eppure, paradossalmente, fu proprio la crisi dell’identità imposta dall’AIDS a far nascere una nuova consapevolezza queer. Artisti come Félix González-Torres, David Wojnarowicz, Nan Goldin, Keith Haring portarono nei musei la verità bruciante di ciò che si viveva nei club e negli ospedali. La bellezza e la morte cominciarono a camminare mano nella mano. Lo spazio del clubbing si caricò di una nuova funzione: diventare uno spazio psichico collettivo, dove la perdita e la reinvenzione si fondevano.
Dall’assenza alla traccia: clubbing come archivio queer
Nei decenni successivi, il club queer non è più solo il luogo della trasformazione istantanea. È diventato anche un archivio emotivo, un luogo della memoria mobile, dove ogni remix porta con sé echi di esistenze perdute, di stili sepolti, di lotte silenziate. La pista da ballo è una macchina del tempo queer: risuona delle urla di ACT UP, degli amori vissuti troppo in fretta, delle lacrime sotto il mascara. Ma anche dei ritorni, delle rinascite, delle nuove generazioni che rifiutano di cedere alla nostalgia.
Il voguing, oggi, è tornato a essere arma e canto. È diventato linguaggio universale, rivendicato da performer di tutto il mondo, da corpi non bianchi, non conformi, non binari. È un codice di sopravvivenza e orgoglio. Così come, in altri club, continua la tradizione di travestirsi non per nascondersi ma per esistere più profondamente. Esserci, con più colori, più suoni, più pelle.
La crisi dell’identità queer, da evento tragico, è diventata terreno fertile per immaginare una soggettività post-identitaria, nomade, interstiziale. E ogni club che resiste oggi, ogni pista che si apre alla diversità radicale, è un’eredità diretta di quegli anni di piombo e paillettes. È una riscrittura costante dell’identità attraverso il ritmo.
Esploriamo queste aree più in profondità: l’eredità spirituale della club culture queer, il confronto tra i clubber berlinesi e le ballroom house di New York, e l’evoluzione della moda legata alla teoria del travestimento e alla soggettività post-umana.
L’eredità spirituale della club culture queer: una chiesa senza Dio
Nel contesto della club culture queer, la spiritualità non è mai stata legata alla religione tradizionale. Piuttosto, è emersa come una forma di resistenza psichica e sociale. La pista da ballo, con i suoi suoni, luci, e l’energia collettiva, è diventata un "santuario" dove i corpi trovano liberazione e riscatto. Non c’è nulla di più sacro che vedere un gruppo di individui abbandonarsi al ritmo, dimenticando le norme sociali, le gerarchie di genere e i vincoli imposti dalla società. Lì, la comunità queer trova una forma di trascendenza, che non è legata al concetto di salvezza, ma alla ricerca di un’identità fluida e non definita.
Questa spiritualità laica e liberatoria non ha solo un valore estemporaneo, ma diventa parte di un rituale collettivo che serve a ricordare e onorare le vite che sono andate perse, così come quelle che resistono. Le danze in omaggio ai defunti in alcuni club, e la consapevolezza del corpo come spazio sacro da curare e da proteggere, sono simboli di un culto laico che celebra la vita e la morte in un’unica, continua danza. I club queer, come luoghi di culto temporanei, si fanno quindi carico di una spiritualità nuova, senza Dio, ma piena di simboli: l'uso di luci psichedeliche che evocano sensazioni trascendentali, il suono che penetra il corpo come una preghiera collettiva, e il travestimento che crea una nuova "apparizione" del sé, che può avvicinarsi a un’esperienza mistica.
In questo senso, la club culture queer è anche una scuola di spiritualità post-moderna, dove i corpi segnati dal dolore e dalla discriminazione possono, anche solo per un'ora, esperire la libertà di un nuovo "essere nel mondo", dove ogni movimento è un atto di liberazione dalla violenza quotidiana della realtà. La danza diventa la preghiera di chi ha lottato contro il sistema, di chi ha perso amici e amanti, di chi non ha paura di morire perché ogni attimo di gioia è una vittoria.
Confronto tra i clubber berlinesi contemporanei e le ballroom house di New York
Mentre le ballroom house di New York si sono affermate come luoghi di resistenza contro la marginalizzazione negli anni ’80, i clubber berlinesi contemporanei, in particolare dopo la caduta del Muro, hanno creato una nuova scena culturale, un nuovo tipo di libertà. Il confronto tra le due realtà è interessante non solo per le differenze culturali, ma per l’evoluzione che entrambe le scene hanno avuto in relazione alla politica, alla storia e alla sessualità.
A New York, il voguing e le ballroom houses nacquero come luoghi di aggregazione per una comunità che non aveva altro posto in cui potersi esprimere. Lì, i corpi danzavano per creare una nuova realtà, una realtà in cui la bellezza e il valore non fossero legati a criteri sociali mainstream. Le Houses, gruppi che funzionano come famiglie alternative, erano anche forme di protezione da una società violenta, razzista e omofoba. Ogni ballo, ogni categoria, era una performance che sfidava le definizioni di bellezza e di mascolinità/femminilità tradizionali, mostrando che ogni corpo, ogni identità, poteva essere validata. In quel contesto, la "realness" non era solo un concetto di competizione estetica, ma un atto politico, una dichiarazione di visibilità e resistenza.
I clubber berlinesi, invece, si trovano a ballare e vivere in un contesto storico diverso: la caduta del Muro di Berlino nel 1989 ha permesso la creazione di un panorama notturno dove tutto poteva essere reinventato, dove i corpi non erano solo simboli di resistenza, ma anche di esplorazione. Berlino ha accolto una scena diversa, forse meno carica politicamente, ma altrettanto potente nell’esplorazione dei limiti. La musica elettronica, il techno, e l’ambient sono diventati i suoni che accompagnano il corpo nel suo "viaggio interiore", senza però dimenticare la dimensione della "resistenza". I club come il Berghain o il Sisyphos sono diventati non solo luoghi di divertimento, ma spazi di purificazione e trasformazione, dove la ripetitività della musica elettronica crea una sorta di trance che permette l’accesso a un altro stato di coscienza, lontano dai vincoli quotidiani.
La differenza fondamentale tra i due mondi sta nel fatto che la scena di New York era una lotta per il diritto di esistere, mentre quella berlinese è una ricerca di autonomia dal mondo esterno. Mentre le ballroom houses avevano bisogno di politiche di resistenza e di visibilità, Berlino ha creato un’idea di clubbing come spazio di evasione dalle regole della società: l’inclusione, qui, è garantita non solo dalla sessualità o dall’identità di genere, ma dalla volontà di uscire dai confini di qualsiasi identificazione, sfumando i limiti tra pubblico e privato.
Moda, travestimento e soggettività post-umana
La relazione tra moda, travestimento e soggettività post-umana si inserisce in un discorso che va oltre la mera estetica. Se la moda e il travestimento sono sempre stati strumenti attraverso i quali il queer ha espressamente rifiutato le etichette tradizionali, l’avvento di una soggettività post-umana sembra riscrivere il concetto stesso di corpo e identità. La teoria queer del travestimento, infatti, esplora il travestirsi non come un gioco superficiale di costumi, ma come una modalità per trasformare radicalmente il sé. Qui, il corpo non è un semplice contenitore, ma uno strumento plastico che può essere continuamente modellato e ripensato.
Il travestimento post-umano si spinge oltre la semplice mutazione di genere o identità. Con l’evoluzione tecnologica, la moda si fonde con l’arte digitale e il corpo stesso diventa una costruzione virtuale, un avatar che può mutare, adattarsi, ed evolvere senza limiti. Gli artisti e i performer queer sono tra i più ferventi esploratori di questa soggettività post-umana. Pensiamo a figure come Hedi Slimane o McQueen, che hanno spinto la moda in territori in cui l’abito non è solo un "indumento", ma una pratica di liberazione estetica e una reinterpretazione delle identità.
La soggettività post-umana ci porta, quindi, a concepire il corpo come una rappresentazione mobile, un simbolo che può essere trasformato, messo in scena, reificato, senza dover rispettare l’ordine naturale delle cose. Qui il travestimento non è solo una modalità di identità, ma un linguaggio universale che rompe con la tradizione e ci invita a vivere oltre l’umano, in un mondo dove ogni corpo è potenzialmente tutte le identità possibili.
In questo percorso, che intreccia storia, filosofia, performance e politica, il clubbing queer, la moda e la soggettività post-umana sono spazi di lotta e creazione, dove i confini tra il visibile e l’invisibile, il corporeo e l’immateriale, continuano a sfumare, producendo nuovi immaginari e nuove forme di esistenza.