martedì 24 giugno 2025

Della forma: Jole de Sanna, un’intellettuale del Novecento (Martina Franca, 29 novembre 1947 – Massafra, 25 giugno 2004)

Esistono figure la cui presenza si rivela soltanto pienamente con la loro assenza, e il cui pensiero, sedimentato in opere, gesti e incontri, continua a parlarci anche quando la loro voce non risuona più. Jole de Sanna è una di queste presenze sottili e potenti, capace di attraversare la storia dell’arte italiana e internazionale con un’intensità discreta ma tenace, che solo oggi, a distanza di anni dalla sua scomparsa, possiamo forse riconoscere nella sua interezza. Parlare di lei non significa semplicemente restituire un profilo biografico, ma entrare in una trama viva di pensiero, in un laboratorio mentale dove l’arte non era mai separata dalla vita, né la teoria dalla prassi.

Nel panorama culturale italiano, spesso dominato da figure egotiche, segnate da una brama di visibilità, de Sanna ha saputo incarnare un’altra possibilità: quella di un’intelligenza operosa, appassionata ma composta, generosa nel gesto critico e profondamente rispettosa della complessità dell’opera d’arte. La sua figura si staglia con una qualità che potremmo definire – senza timore di eccesso – “minervina”: razionale e appassionata, austera e illuminata da uno sguardo che non dimenticava mai la gioia della scoperta. Era, come ha scritto Lea Vergine, “a metà tra Ariel e Clorinda”, abitata da una tensione quasi mistica che si manifestava in una dedizione assoluta, eppure mai dogmatica.

Una pedagogia dello sguardo

Molto si è detto della sua autorevolezza pacata, del suo modo essenziale e mai retorico di insegnare, ma è fondamentale cogliere la radice profonda di questo stile: una pedagogia dello sguardo, che educava all’ascolto dell’opera e delle sue condizioni di esistenza. De Sanna non imponeva letture: le costruiva con l’altro. L’attività didattica e quella critica erano per lei espressioni complementari di una stessa tensione, di un bisogno ineludibile di restituire senso, coerenza e profondità alla riflessione estetica.

Negli anni Settanta – decennio cruciale per le avanguardie italiane – de Sanna era già pienamente attiva, eppure la sua voce non cercava mai il clamore. Preferiva la precisione alla presa di posizione plateale, e anche nei momenti di più evidente militanza – come l’esperienza fondativa della Casa degli Artisti a Milano, nel 1978, insieme a Luciano Fabro e Hidetoshi Nagasawa – il suo intervento era sempre calibrato, in ascolto, radicato in una volontà di servizio all’arte e agli artisti. Era, potremmo dire, un’intellettuale “in situazione”, ma senza mai confondere l’urgenza del presente con la superficialità dell’immediatezza.

L’arte come campo di rivelazione

Il suo sguardo critico era capace di accostarsi all’opera con un’empatia che nulla aveva di sentimentale. Non vi era in lei nessuna retorica dell’ispirazione, bensì un’attitudine filologica acutissima, accompagnata da una costante riflessione sul linguaggio e sullo statuto della forma. L’arte, per de Sanna, era un campo di rivelazione, non uno spazio da colonizzare con opinioni o giudizi precostituiti. Ogni testo, ogni lezione, ogni incontro diventava così un’occasione per riattivare quella che potremmo chiamare una “funzione ermeneutica dell’intelligenza”: un metodo che si esercita non nel dire cosa un’opera significhi, ma nel creare le condizioni perché quell’opera possa significare.

Questa tensione si avverte fortemente nei suoi scritti, che non lasciano spazio all’arbitrio né al superfluo. Vi domina una forma di disciplina interiore, nutrita da una passione che si traduce in chiarezza, essenzialità, rigore. Eppure, è proprio in questa lucidità che si avverte l’eco di una profonda implicazione affettiva: un pensare che non teme di commuoversi, un ragionare che non rinuncia alla vibrazione della vita.

Una voce singolare nella critica d’arte

Nel libro “Forma. L’idea degli artisti 1943-1997”, pubblicato nel 1999, de Sanna raccoglie – in un impianto che nulla ha di antologico – una serie di riflessioni capaci di attraversare mezzo secolo d’arte con una coerenza interna rara. Non si tratta di una cronaca né di una sintesi scolastica, ma di un percorso organico, animato da un’intuizione guida: la dialettica tra forma e idea, che per lei non era mai un binomio astratto, ma il campo vivo in cui l’artista si confronta con la possibilità stessa dell’opera. In quel libro si avverte tutta la sua cifra: un’analisi che unisce acutezza interpretativa e rispetto profondo per le parole e le intenzioni degli artisti, da de Chirico a Fontana, da Fabro a Nagasawa, con i quali costruisce un vero e proprio dialogo teorico.

Il metodo di de Sanna si fonda su una costante messa in relazione tra parola e immagine, tra gesto creativo e contesto storico. Ma ciò che colpisce maggiormente è la qualità della sua scrittura: asciutta, incisiva, capace di articolare pensieri complessi con una linearità che non semplifica mai, ma chiarisce. Non vi è mai ridondanza, eppure ogni pagina è densa. Ogni rigo vibra di pensiero e di passione.

Medardo Rosso e la scultura del non-finito

Uno dei suoi contributi più alti e originali è senz’altro lo studio su Medardo Rosso, dove affronta con spirito pionieristico la questione dello spazio moderno. In quelle pagine, de Sanna individua nell’opera di Rosso non solo una declinazione innovativa della scultura, ma una vera e propria riconfigurazione del visibile: lo spazio, scrive, da sfondo diventa protagonista, da contenitore si fa forma attiva. Rosso non è più solo un artista, ma un pensatore visivo, un anticipatore di linguaggi che si svilupperanno pienamente solo nel Novecento inoltrato. È in questo senso che il libro non è una semplice monografia, ma un saggio teorico travestito da studio storico: uno dei molti travestimenti che la sua scrittura è capace di adottare, sempre evitando il dogma e scegliendo invece la forma del ragionamento aperto.

Una lezione per il presente

Oggi, in un tempo in cui l’arte sembra spesso ridursi a evento o a merce, la lezione di Jole de Sanna si fa ancora più urgente. Ci insegna che la critica può essere un atto di cura, che il sapere non deve necessariamente mostrarsi per essere efficace, e che dietro ogni forma, se la si interroga con onestà, pulsa sempre un’idea, un’intenzione, una visione.

Ricordarla non è dunque solo un omaggio doveroso. È un esercizio di memoria attiva, una forma di responsabilità verso il pensiero e verso l’arte. E forse anche un invito a tornare a quella pazienza dello sguardo e a quella disciplina dell’attenzione che sono, oggi più che mai, atti rivoluzionari.