giovedì 12 giugno 2025

Bruciare la forma: la verità inquieta di Egon Schiele

Quando ci si ferma davanti a un'opera di Egon Schiele, non si osserva semplicemente un corpo: si viene trafitti. Non si può che rimanere sospesi in quel punto di tensione in cui la linea si spezza, l'occhio si incrina, la pelle diventa carta e carne insieme. La pittura di Schiele non illustra, non decora, non rassicura. E non seduce, se non attraverso il disagio. Ogni figura che abita le sue tele sembra scaturita da una visione urgente, bruciante, come se il disegno non fosse altro che la traccia di un incendio.

Nato a Vienna il 12 giugno 1890, Egon Schiele visse appena ventotto anni. La sua parabola breve e intensissima si colloca in uno dei momenti più tumultuosi e fertili della cultura europea: la Vienna fin-de-siècle, in bilico tra il culto della bellezza e l’annuncio della catastrofe. Fu l’allievo prediletto di Gustav Klimt, ma da quel raffinato maestro dell’oro e dell’eros si separò presto, per spingersi verso territori più aspri, più scoperti. Là dove Klimt ornava, Schiele esponeva. Dove Klimt accarezzava, Schiele scavava.

Il rapporto con Klimt è una chiave per comprendere la traiettoria artistica di Schiele. Klimt gli aprì le porte del mondo dell’arte viennese, lo sostenne moralmente e finanziariamente nei primi anni, e lo introdusse a collezionisti e mecenati. Ma se Klimt poteva ancora credere in un'idea estetica del piacere e della bellezza come dimensione trascendente, Schiele era già immerso in una crisi più profonda. I suoi nudi non sono ornamenti né allegorie: sono corpi inquieti, nervosi, privi di idealizzazione, tragicamente esposti. Klimt decorava l’eros, Schiele ne mostrava le ferite.

Il corpo, per Schiele, non è mai oggetto di celebrazione. È materia inquieta, cruda, deformata. Le sue figure — donne, uomini, adolescenti, spesso lui stesso — sono ritratte in pose contorte, tese, sgraziate, quasi isteriche. Non si tratta solo di una ricerca formale, ma di un'urgenza psicologica: i corpi schieliani non vogliono piacere, vogliono esistere. Vogliono essere visti, anche quando la visione provoca dolore o imbarazzo. Anzi: proprio allora diventano veri. In questo, l'opera di Schiele è profondamente esistenziale. La linea nervosa, la stesura sottile del colore, le pose contratte e l'assenza di ogni compiacimento formano un linguaggio che ha come scopo non la bellezza, ma la verità. E la verità, si sa, non è mai comoda.

Nel 1912 Schiele fu arrestato con l’accusa di aver sedotto una minorenne. Venne prosciolto, ma fu comunque condannato per aver esposto disegni considerati pornografici in presenza di minori. Durante il processo, il giudice bruciò uno dei suoi disegni in aula. L’episodio, più che un inciampo biografico, è rivelatore del ruolo che Schiele giocò nella società del suo tempo: quello dell’artista scomodo, in anticipo, scandaloso. Schiele non fu solo un pittore del desiderio: fu un testimone del perturbante, un esploratore della soglia tra l’intimità e l’oscenità, tra la vulnerabilità e la trasgressione. Le sue figure sono esposte in modo radicale, non solo nude, ma smascherate. E guardano lo spettatore come per accusarlo, o supplicarlo, o invitarlo.

Non c’è nulla di neutro nei suoi sguardi. I volti, come i corpi, sono attraversati da una febbre interiore. In molti dei suoi autoritratti, Schiele si dipinge come uno spettro, un martire, un santo laico in disfacimento. Il corpo diventa sacrario del tormento, superficie che trattiene l’ansia del vivere. Non è un caso che le mani — lunghissime, sproporzionate, spesso isolate — assumano una centralità quasi simbolica: sono strumenti del contatto e del distacco, della creazione e della colpa. Schiele, attraverso quelle mani tese, allungate, quasi imploranti, ci dice qualcosa che va oltre la pittura: ci dice del bisogno, dell’eccesso, dell’impossibilità di essere innocenti. La mano, per Schiele, non è un dettaglio anatomico, ma una confessione psichica: tremore, fame, vergogna, desiderio.

L'evoluzione stilistica di Schiele tra il 1910 e il 1918 è sorprendente per la sua coerenza e, insieme, per la sua capacità di rinnovamento. Nei primi anni la linea è nervosa, graffiante, quasi violenta: come se volesse incidere la pelle del mondo. I colori sono acidi, irregolari, e il bianco della carta gioca un ruolo centrale come vuoto, silenzio, attesa. Nei lavori tra il 1913 e il 1915, dopo l’arresto e con la consapevolezza di essere diventato un caso, la pittura di Schiele si fa più meditativa, quasi sacrale. Le figure, pur sempre contorte, acquistano una compostezza che ha qualcosa di ieratico. I colori si saturano, i volti si fanno più scavati, più tragici. Dopo il 1916, forse anche a causa dell'esperienza della guerra (pur non al fronte, fu assegnato a incarichi secondari), le composizioni si semplificano, diventano più essenziali, ma non meno potenti. È come se Schiele stesse cercando di cogliere l’essenza umana al di là della materia: i corpi si fanno simboli, i gesti diventano epifanie.

La sua morte, avvenuta il 31 ottobre 1918, fu rapida e tragica. La pandemia di influenza spagnola lo portò via tre giorni dopo la moglie Edith, incinta del loro primo figlio. In meno di una settimana, tutto il futuro che aveva appena intravisto si dissolse. Schiele morì al culmine della sua maturità artistica, dopo aver dipinto ossessivamente e con crescente lucidità il dissolversi dell’identità. Nei suoi ultimi disegni — meno contorti, più aperti, ma non meno intensi — si avverte una mutazione: la linea si fa più essenziale, quasi a voler lasciare più spazio al vuoto. Come se Schiele stesse già anticipando la propria fine.

A oltre un secolo dalla sua nascita, l’opera di Egon Schiele continua a esercitare una fascinazione disturbante. I suoi nudi generano reazioni contrastanti: attrazione, repulsione, commozione, disagio. Ma non lasciano indifferenti. E questo, in arte, è forse il segno più chiaro della grandezza. Schiele non ha mai cercato di piacere. Ha cercato, con ogni fibra, di esprimere. E lo ha fatto distorcendo il visibile per arrivare all’invisibile. Dietro ogni corpo che si torce, dietro ogni sguardo che implora, c’è un artista che ha fatto della pittura un atto di verità. Una verità scomoda, vulnerabile, meravigliosamente viva.