La parola poetica, per Pizzi, è un organismo ferito che si autorigenera continuamente, anche quando sembra implodere. I suoi testi sono spesso frammenti, scaglie, oggetti taglienti e luminescenti: non seguono una linearità discorsiva ma inseguono piuttosto un ritmo interiore, un dettato scosso da impulsi contraddittori – nostalgia e furia, abbandono e tenacia, silenzio e sovraccarico.
C'è una densità che si addensa parola dopo parola, come se ogni sostantivo, ogni verbo, fosse chiamato a rispondere non solo alla logica sintattica ma a un’urgenza più profonda, intima, viscerale. La lingua si deforma, si corrode, si ripiega su sé stessa per poi esplodere in immagini di improvvisa luminosità. La sua scrittura è fisica, affilata, spesso collerica, eppure sa essere anche delicatissima, come una carezza che arriva dopo lo schianto.
Nel paesaggio poetico italiano, Marina Pizzi è una figura radicalmente solitaria, e per questo tanto più significativa. La sua voce non si adatta, non si integra, non cerca compiacimenti: è un atto di resistenza e di fedeltà, non a una forma, ma a una necessità. Scrive come chi attraversa una febbre, e in quella febbre trova la propria unica verità.
Leggerla significa accettare un viaggio in un territorio ostile e insieme assoluto, dove l’io è sempre messo in questione, dove il senso si sfalda e si ricompone senza tregua. È un'esperienza, prima ancora che una lettura. Un esercizio di sopravvivenza lirica, nel cuore più inospitale del linguaggio.