Non fu solo musica, non fu solo film. Fu epifania visiva e sonora. Purple Rain è l’unica Bibbia dove l’amore si scrive con lo stesso inchiostro del dolore, dove la ribellione è erotica, e la salvezza si ottiene gemendo un falsetto in preda allo Spirito Santo del Funk.
Quarantuno anni dopo, quell’opera monumentale è ancora qui, viva, palpitante, persino vampirica. Perché succhia sangue dalla storia e ne restituisce luce. Anzi: ultravioletto.
Prince era già un prodigio. Aveva inciso Dirty Mind e 1999, aveva già scandalizzato le madri d’America e fatto tremare i censori. Ma con Purple Rain si rivelò per ciò che realmente era: una figura mitica, come Dioniso, Orfeo, Cristo e Ziggy Stardust fusi in un solo corpo androgino. Con The Revolution, mise in scena un’orgia armonica tra razze, generi, sessi e stili musicali che anticipava tutto ciò che oggi definiamo “inclusivo” — ma che all’epoca era pura eresia culturale.Non si trattava solo di suonare: si trattava di vivere dentro la musica, di lasciarsi possedere da essa come da un demone sacro. Gli strumenti diventavano estensioni di un erotismo trascendente. Le performance, specialmente quelle filmate nel club First Avenue, erano vere e proprie trance collettive. Chi assisteva non ascoltava: partecipava a un mistero. La musica non era un prodotto. Era un culto.
“I'm not a woman / I'm not a man / I am something that you'll never understand.”Questa frase, che appare in “I Would Die 4 U”, è il centro gravitazionale di Purple Rain. In pochi versi, Prince disintegra tutte le categorie: sessuali, spirituali, artistiche. È Cristo e Caravaggio, è Maria Maddalena e Freddie Mercury, è il ponte tra il corpo e il suono.
La sua interpretazione del sacrificio non è moralista, ma carnale: “I would die for you” è l’amore portato alla sua forma più estrema, più divina. Nessuna preghiera, nessuna redenzione, solo condivisione radicale della vulnerabilità. La sua croce è la chitarra. Il suo sangue, una scala pentatonica suonata con le ginocchia piegate e il petto nudo. Il suo calvario: ogni esibizione pubblica, ogni inchino.
Eppure questa iconografia non è mai arrogante. Prince si offre, sì, ma con pudore. Quel pudore di chi sa che per essere venerati, bisogna prima spogliarsi. E lui si spoglia sempre: emotivamente, sessualmente, spiritualmente.
Il brano finale — nove minuti e sei secondi — è il cuore viola e umido dell’opera. È una canzone che inizia come un sussurro e finisce come un’apocalisse, dove la chitarra diventa vento, pioggia, tempesta, e la voce si rompe in mille pezzi. È una canzone d’amore, sì, ma è anche un atto liturgico. La “purple rain” è il momento in cui l’amore finisce e si trasforma in rito collettivo del dolore.E in quel momento, Prince non canta più per se stesso. Canta per tutti noi. Per chi è stato respinto. Per chi non ha mai detto “ti amo”. Per chi lo ha detto e non è stato creduto. Per chi si è dovuto nascondere, cambiare nome, voce, camminata. Per chi ha perso qualcuno, e ha continuato a vivere. Per chi ha lasciato andare, ma non ha mai smesso di guardare il cielo sperando che piovesse viola.
Nel film, Prince interpreta “The Kid”, alter ego trasparente e tormentato, figlio di un padre abusivo e musicista frustrato. La storia è semplice, ma carica di tensione mitopoietica: il figlio cerca di non diventare il padre, ma in fondo lo è già. Eppure, tramite la musica, riesce a trasformare il dolore in energia creativa. La scena finale, quella in cui canta “Purple Rain”, non è finzione: è un esorcismo.E il pubblico (sia quello diegetico che quello reale) lo capisce. Si alza, lo applaude. E in quel momento capisce che non sta solo guardando un concerto: sta partecipando a una redenzione collettiva.
Tutto ciò che è venuto dopo — dalle sperimentazioni vocali di Beyoncé alla libertà corporea di Lady Gaga, dal glam punk dei Maneskin alla reinvenzione di artisti queer come Moses Sumney o Janelle Monáe — nasce, direttamente o indirettamente, da quell’evento. Purple Rain ha aperto una ferita luminosa nella storia della cultura occidentale: e da lì è uscito un fiume di possibilità.Persino il concetto di performance come identità — oggi così discusso — fu anticipato da lui, che usava il palco per incarnare e trasfigurare, per disintegrare il binarismo e sfidare ogni convenzione. E se oggi parliamo di fluidità come se fosse una moda, Prince la viveva già nel 1984 come una necessità, come una verità cosmica.
A quarantuno anni di distanza, Purple Rain è più vivo che mai perché non è invecchiato: è fuori dal tempo. È una liturgia pop, una profezia queer, una dichiarazione d’amore scritta sul muro della Storia. Non ci sono altri album come questo perché non c’è nessun altro come Prince: un artista che ha fatto del corpo un tempio, della voce una confessione, della musica un sacramento.E mentre là fuori continua a piovere — magari pioggia normale, grigia, opaca — dentro ognuno di noi c’è ancora, nascosta, quella goccia viola che ci ricorda chi siamo, chi potremmo essere, e chi non smetteremo mai di amare.
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“I only wanted to see you / Laughing in the purple rain.”
E noi, 41 anni dopo, continuiamo a ridere. E a piangere.
Sempre sotto quella pioggia.