martedì 17 giugno 2025

Nel buio della parola: Djuna Barnes, "Nightwood" e la nascita della scrittura queer

Introduzione. “Scrivere nel buio”: Nightwood come matrice queer della modernità letteraria

Pubblicato nel 1936 con una prefazione reverente ma cauta di T.S. Eliot, Nightwood di Djuna Barnes è un romanzo che ha sempre abitato i margini: della forma, del genere, della leggibilità, della cultura. Sin dalla sua comparsa, il testo si è offerto come oggetto refrattario a classificazioni nette, tanto più quando si tentava di ridurlo a romanzo modernista “di stile” o a racconto lesbico “di contenuto”. Al contrario, Nightwood è un dispositivo letterario che inquieta e trasfigura: è un libro scritto nella lingua della perdita, del delirio, del desiderio senza cornice. È, soprattutto, un libro queer prima che la queer theory ne rendesse visibile la grammatica.

Questa composizione si propone di indagare Nightwood come opera fondativa della sensibilità queer novecentesca, non solo per i suoi contenuti – l’amore saffico, il travestimento, il disorientamento identitario – ma per la sua stessa scrittura, che performa ciò che teorie successive avrebbero tematizzato. In questa ottica, Nightwood anticipa e sostanzia i concetti chiave elaborati da Judith Butler, Eve Kosofsky Sedgwick, Sara Ahmed e altri: performatività, opacità, trauma, dis-orientamento, resistenza linguistica.

La trattazione si apre con una lettura analitica del romanzo, soffermandosi sullo stile, sulle dinamiche narrative e sulla costruzione dell’identità sessuale e di genere come zone mobili, contraddittorie, in frizione con la normatività. Si procede poi con un confronto tra Barnes e alcune autrici queer a lei coeve (Radclyffe Hall, Gertrude Stein, Vita Sackville-West), evidenziando tanto le affinità quanto le divergenze nella costruzione di una lingua queer.

Segue una sezione centrale che mette in dialogo Nightwood con la teoria contemporanea: Butler e la performatività del genere; Ahmed e la fenomenologia queer del disorientamento; Sedgwick e il concetto di opacità affettiva. L’opera di Barnes non viene letta alla luce di queste teorie, ma come precipitato originario di esse, come corpo testuale che le prefigura, le abita, talvolta le destabilizza.

Infine, si esplora l’eredità di Nightwood nella scrittura queer contemporanea – da Maggie Nelson a Ocean Vuong, da Carmen Maria Machado a Paul B. Preciado – e si costruisce un paragone stilistico tra la lingua “indisciplinata” di Barnes e quella di autori come Jean Genet e Allen Ginsberg. Il volume si chiude con un glossario teorico-critico dei termini chiave queer applicati al testo, e con una ricostruzione storica della sua ricezione nei contesti underground e accademici, dalla marginalità delle prime letture al culto queer che l’ha poi reso una pietra angolare.

In un tempo in cui la teoria queer ha guadagnato diritto di cittadinanza accademica e culturale, Nightwood resta un oggetto radicale, non assimilabile. Continua a parlare a chi non si riconosce nei linguaggi dominanti, e lo fa attraverso una prosa che non spiega ma estrae, non consola ma contamina. Questa introduzione non è che una soglia: invita ad attraversare l’opera non per comprenderla, ma per lasciarsi attraversare.




Djuna Barnes: modernismo, linguaggio e identità queer

Djuna Barnes (1892–1982) occupa una posizione anomala ma centrale nel panorama della letteratura modernista del XX secolo. Figura elusiva e per certi versi sfuggente alle categorizzazioni critiche canoniche, è oggi riconosciuta come una delle voci più originali e disturbanti del modernismo in lingua inglese. La sua opera, a lungo marginalizzata o confinata in una lettura biografica, è stata oggetto, a partire dagli anni ’80, di una progressiva rivalutazione, che ne ha messo in luce l’apporto non soltanto formale, ma anche ideologico e linguistico al discorso letterario sulla sessualità, sull’identità e sulla forma romanzesca. In particolare, la sua produzione più nota — il romanzo Nightwood (1936) e il roman à clef Ladies Almanack (1928) — si colloca al crocevia tra l’estetica modernista, la satira barocca e la rappresentazione di soggettività lesbiche e queer, in una forma che sfida tanto la narrazione lineare quanto la leggibilità trasparente del testo.

Nella temperie culturale degli anni Venti, Parigi rappresentava il fulcro del modernismo artistico e letterario: una metropoli simbolica, mitizzata da Gertrude Stein come “il luogo in cui si trovava il XX secolo”. Barnes vi giunge nel 1921 come giornalista inviata dal McCall’s Magazine, ma la sua immersione nell’ambiente parigino si rivela ben più profonda e trasformativa. In breve tempo diventa una presenza riconoscibile e influente nei circoli bohémiens degli espatriati anglofoni. La sua immagine — avvolta in un lungo mantello nero, accompagnata da uno humour ironico e tagliente — rimane fissata nelle memorie coeve, ma è nel suo lavoro di scrittura che si manifesta la radicalità della sua visione. Djuna Barnes si colloca in una linea eterodossa del modernismo, più prossima alle sperimentazioni di Gertrude Stein che non alla più decorativa introspezione di Virginia Woolf, e a differenza di quest’ultima, affronta esplicitamente — seppure attraverso strategie allusive, cifrate e complesse — la rappresentazione dell’identità lesbica e della sessualità femminile non normativa.

Il primo nucleo della sua reputazione letteraria si forma attorno al racconto “A Night Among the Horses”, pubblicato su The Little Review — rivista cruciale per il modernismo statunitense e per la diffusione dell’opera di Joyce — e poi incluso nella raccolta A Book (1923). Il racconto rivela già gli elementi che costituiranno il suo stile maturo: un linguaggio iperletterario, denso di arcaismi e torsioni sintattiche, una predilezione per la metafora esuberante, una sensibilità visionaria che sfiora la crudezza grottesca. Non è un caso che T. S. Eliot, nel redigere l’introduzione a Nightwood, sottolinei la difficoltà ma anche la necessità della lettura di Barnes, rilevandone la capacità di costruire un linguaggio personale che travalica le strutture tradizionali del romanzo.

Nel corso degli anni parigini, Barnes entra a far parte della cerchia intellettuale che gravita attorno al celebre salotto di Natalie Clifford Barney, figura di spicco del lesbismo letterario dell’epoca. Con Barney, la Barnes intrattiene un’amicizia affettuosa e duratura, forse punteggiata da una relazione sentimentale breve ma significativa, e soprattutto condivide un universo culturale in cui il lesbismo non è un semplice tema, ma una condizione esistenziale, una modalità alternativa di relazionarsi al mondo, alla lingua, alla storia. L’ambiente che circonda Barney, con protagoniste del calibro di Romaine Brooks, Elisabeth de Gramont, Radclyffe Hall, Mina Loy, Janet Flanner, Solita Solano e Dolly Wilde (nipote di Oscar), offre a Barnes una materia vivissima, che sarà poi trasfigurata con spirito satirico e stile manierista nel Ladies Almanack.

Quest’ultimo è forse l’opera più singolare e deliberatamente inclassificabile della scrittrice: un testo pubblicato in forma autonoma, con illustrazioni originali dell’autrice nello stile delle xilografie elisabettiane, e redatto in un inglese volutamente arcaico, ricco di doppi sensi, innesti linguistici rabelaisiani, e giochi verbali che ne rendono ardua, ma non meno affascinante, la decifrazione. Al centro della narrazione vi è “Dame Evangeline Musset” — trasparente allegoria di Natalie Barney — descritta come una “Grande Croce Rossa” dedita a soccorrere giovani donne in difficoltà “nelle loro Parti Posteriori e nelle loro Parti Anteriori”, in un tono che oscilla costantemente tra l’epica burlesca e il ritratto affettuoso. Il Ladies Almanack si presenta come un liber amicorum ma anche come un bestiario femminile in cui ogni figura è al tempo stesso soggetto e maschera, presenza reale e simbolica.

Il libro, sin dalla sua prima pubblicazione, ha suscitato incertezza interpretativa tra i critici: non era chiaro se la Barnes intendesse ridicolizzare con cinismo il mondo lesbico parigino, o se invece ne offrisse una rappresentazione amorosa e stratificata. La stessa Natalie Barney, che pure è ritratta in forma caricaturale, lo amò profondamente, rileggendolo fino alla fine dei suoi giorni. Proprio questa ambiguità, questa resistenza a una lettura univoca, costituisce il tratto distintivo dell’opera barnesiana, tanto più nel contesto di una scrittura queer ante litteram, che si serve del pastiche, dell’ironia e dell’oscurità per scardinare i codici identitari e narrativi dominanti.

Il romanzo Nightwood, pubblicato otto anni dopo Ladies Almanack, rappresenta forse il vertice del suo percorso letterario. Opera complessa, stratificata, e per certi versi intraducibile in categorie canoniche, Nightwood è un romanzo della “notte” in senso esistenziale, ma anche linguistico. I suoi personaggi — in particolare la baronessa Robin Vote, creatura sfuggente e distruttiva, e il dottor Matthew O’Connor, medico travestito e filosofo del desiderio — incarnano il crollo delle identità stabili, l’irriducibilità del soggetto al ruolo sociale, la tensione irrisolta tra eros e fede, tra parola e silenzio. Il linguaggio del romanzo è fortemente poetico, anaforico, incantatorio: ogni frase sembra farsi carico di un eccesso di significato, e la narrazione si struttura più come una successione di visioni e monologhi interiori che non come un intreccio lineare.

Barnes, in tal senso, anticipa molte delle questioni che diventeranno centrali nella teoria queer contemporanea: l’instabilità dell’identità sessuale, la performatività del genere, la marginalità come forma di conoscenza. Ma lo fa senza cedere all’argomentazione esplicita, affidandosi invece a una forma estetica radicale, che privilegia l’allusione, la frattura, l’opacità.

Nonostante una lunga fase di oblio, culminata nel suo volontario isolamento a Patchin Place — una piccola strada privata del Greenwich Village newyorkese dove visse in solitudine per decenni — Djuna Barnes è oggi considerata una figura fondativa non solo per la letteratura modernista, ma anche per la genealogia delle scritture lesbiche, postmoderne e decostruttive. La sua opera sfida ancora il lettore, obbligandolo a un corpo a corpo con la lingua, con l’ambiguità, con l’eccesso.

In definitiva, Barnes non fu una testimone passiva dell’epoca modernista, né semplicemente una voce queer ante litteram: fu un'artista capace di riscrivere il corpo stesso del linguaggio narrativo, di imprimervi le tracce di una soggettività eccedente e irriducibile. La sua scrittura, oggi più che mai, continua a interrogare i limiti della rappresentazione, e a rimanere fedele — come lei stessa scrisse in una delle sue lettere — “alla notte, che è in noi”.




Djuna Barnes e le altre: poetiche queer a confronto

Nel tentativo di delineare una genealogia queer della letteratura modernista, appare inevitabile il confronto tra Djuna Barnes e alcune sue contemporanee, che — pur con approcci differenti — hanno contribuito a definire nuove modalità di rappresentazione del desiderio femminile, della sessualità non conforme e della soggettività liminale. In particolare, Gertrude Stein, Radclyffe Hall e Virginia Woolf rappresentano, ciascuna a suo modo, dei poli di riferimento attraverso cui leggere in filigrana la singolarità dell’opera barnesiana.

Gertrude Stein, la più vicina a Barnes per contesto culturale e radicalità linguistica, fu una figura cardine del modernismo sperimentale e lesbico. La Stein concepisce la lingua come materia autonoma, capace di costruire un mondo affrancato dalla logica rappresentativa. In opere come Tender Buttons (1914), la parola si fa oggetto poetico puro, rifiutando la trasparenza referenziale in favore di una densità polisemica, iterativa e musicale. La sua relazione con Alice B. Toklas, discretamente ma costantemente evocata nei suoi scritti, si inscrive in una pratica linguistica che è al tempo stesso privata e pubblica, quotidiana e mitologica.

Barnes, pur condividendo con Stein la tensione verso un linguaggio non convenzionale, adotta una strategia differente: il suo è un barocco della lingua, un eccesso che tende all’oscuro, al gotico, a una visione quasi mistica del desiderio. Se Stein dissolve la sintassi per raggiungere un’essenza ludica e astratta del senso, Barnes carica il linguaggio di ambiguità, di allegoria, di misticismo corporeo. La parola non viene liberata, ma resa più densa, più opaca, come in Nightwood, dove ogni frase sembra collassare su se stessa sotto il peso della propria intensità.

Radclyffe Hall, con The Well of Loneliness (1928), si pone all’estremo opposto. Il romanzo — fondamentale nella storia della rappresentazione lesbica — è scritto con uno stile realistico, lineare, e con una chiara intenzione militante. La protagonista, Stephen Gordon, è una figura tragica, schiacciata da una società omofoba e costretta a un’esistenza votata al sacrificio e all’infelicità. L’opera di Hall, pur coraggiosa per l’epoca, si inscrive nella logica del romanzo vittoriano e in una visione essenzialista dell’identità sessuale, in cui l’“invertita” è una categoria stabile, quasi ontologica.

Barnes rifiuta questa prospettiva. La sua visione dell’identità sessuale è meno rivendicativa, più ambigua, più tragicamente fluida. I personaggi di Nightwood non cercano di “difendere” la loro condizione, ma vi si avvitano, la incarnano come un destino notturno, una ferita. Non vi è nessuna rivendicazione di diritti, nessun discorso pubblico sull’orgoglio: al contrario, vi è un’oscillazione vertiginosa tra desiderio e distruzione, tra identificazione e perdita di sé. La figura del dottor O’Connor — travestito, oracolare, delirante — è quanto di più distante dall’eroina dignitosa e sofferente di Hall, e rappresenta piuttosto un’anticipazione postmoderna della queer theory, nel suo essere performativo, incongruo e profondamente teatrale.

Con Virginia Woolf, infine, il confronto si fa più sottile. Woolf, in Orlando (1928), gioca con la forma del romanzo storico-biografico per costruire una figura androgina che attraversa i secoli, cambiando sesso ma mantenendo una stessa essenza poetica. Il tono è ironico, leggero, sovversivo ma elegante. Anche qui, l’identità sessuale si rivela come fluttuante, non riducibile a norme rigide. Tuttavia, Woolf resta fedele a una prosa raffinata, cristallina, che cerca l’equilibrio, il fluire della coscienza in uno spazio armonico.

Barnes, rispetto a Woolf, è più lacerata, più cupa. Se Woolf lavora sul margine tra la trasparenza e la dissoluzione della forma, Barnes agisce per accumulo, per esplosione. Là dove Woolf lascia parlare il pensiero con voce sommessa e musicale, Barnes lo fa urlare, sussurrare, balbettare nella carne e nel buio. Inoltre, mentre Orlando può essere letto come un’apologia dell’androginia come valore estetico e morale, Nightwood è un requiem per le identità scisse, per le vite vissute “in una notte che non finisce mai”. Le due opere sono entrambe queer, ma lo sono in modi radicalmente diversi: Woolf evoca il travestimento come leggerezza metafisica, Barnes come trauma simbolico.

Un ulteriore elemento distintivo di Barnes è la sua riflessione sulla parola come fallimento, come impossibilità di dire l’esperienza. Questo tratto la avvicina, più che alle autrici sopra menzionate, a figure maschili del modernismo come Beckett o Genet: autori che, come lei, lavorano sul residuo del linguaggio, sulla sua incapacità di redimere, di chiarire, di guarire. In questo senso, l’esperienza queer in Barnes non è mai una conquista, ma una vertigine.

Se Stein sperimenta per amore del gioco, Hall narra per affermare un diritto, Woolf scrive per armonizzare la coscienza e il tempo, Barnes sembra scrivere per ferire e per ferirsi, in una lingua che è essa stessa corpo, sogno, abisso.




Eredità e ricezione queer: Djuna Barnes nelle teorie contemporanee

L’opera di Djuna Barnes, a lungo marginalizzata nei canoni del modernismo “ufficiale”, ha conosciuto una progressiva e profonda rivalutazione a partire dagli anni Ottanta e Novanta, quando le teorie femministe e queer hanno cominciato a leggere Nightwood e i suoi testi minori non solo come oggetti letterari eccentrici, ma come luoghi epistemologici in cui la dissidenza sessuale e l’angoscia identitaria si intrecciano a una radicale sfida alla normatività linguistica e narrativa. In questa fase, l’opera barnesiana si rivela non solo letteratura d’avanguardia, ma anche pensiero incarnato: una forma del sapere queer, espressa nei termini della letteratura.

Judith Butler, nella sua opera capitale Gender Trouble (1990), non menziona direttamente Barnes, ma molte delle sue affermazioni trovano un corrispettivo profondo proprio nella scrittura barnesiana, e in particolare nella figura del dottor Matthew O’Connor. Il dottore — un personaggio travestito, fluido, oracolare, che incarna più voci che identità — rappresenta una delle prime figure letterarie moderniste a sfidare il paradigma della coerenza del genere, anticipando la nozione butleriana di genere come performance. Come ha scritto la studiosa Carolyn Allen, Nightwood “non rappresenta l’identità queer: la smonta”.

O’Connor non si limita a travestirsi: è, in senso butleriano, una performatività fatta persona, un corpo semiotico che continuamente mette in crisi la corrispondenza tra genere, sesso e desiderio. La sua eloquenza delirante, fatta di monologhi confessionali, preghiere, aforismi e auto-analisi parodiche, esemplifica ciò che Butler chiama “dislocazione della soggettività”. La soggettività queer, in Nightwood, non è un’identità alternativa da rivendicare, ma un’esposizione permanente all’instabilità.

Eve Kosofsky Sedgwick, da parte sua, ha più volte riconosciuto in Nightwood una delle opere fondative della sensibilità queer del Novecento. Nel suo Epistemology of the Closet (1990), Sedgwick propone una lettura della cultura moderna fondata sul paradosso dell’identità sessuale: la coesistenza forzata di un regime dicotomico (etero/omo) e di una realtà che sfugge continuamente a tale schema. Barnes è, per Sedgwick, una testimone e una visionaria di questo scarto epistemologico. Il suo romanzo non fornisce un'alternativa stabile al binarismo, ma lo espone al collasso, rendendo visibile ciò che normalmente viene escluso: il fallimento della chiarezza, l’eccesso dell’esperienza, l’osceno della verità.

Inoltre, Sedgwick pone l’accento sull’ambivalenza affettiva come struttura fondamentale dell’esperienza queer: l’intreccio tra desiderio e rifiuto, tra bisogno di riconoscimento e attrazione per l’illeggibile. In questo senso, la relazione tra Robin Vote e Nora Flood — così oscura, impossibile, disperata — diventa un esempio paradigmatico di quella che Sedgwick chiama “queer reading practice”, ovvero un approccio alla letteratura che valorizza l’opacità, l’ambiguità e la non-risoluzione come elementi costitutivi dell’identità.

È infine in Sara Ahmed che l’eredità barnesiana trova una delle sue risonanze più sorprendenti e feconde. In opere come The Cultural Politics of Emotion (2004) e Queer Phenomenology (2006), Ahmed esplora il modo in cui i corpi queer si muovono nello spazio, come vengono orientati — o disorientati — rispetto alle norme della felicità, dell’amore, della casa. Il concetto di “dis-orientamento” diventa qui cruciale per leggere Nightwood, in cui i personaggi sembrano sempre “fuori asse”: emotivamente, linguisticamente, eroticamente.

Robin, in particolare, può essere vista come incarnazione del “willful subject” di Ahmed: una figura recalcitrante, che non si adatta, che non si lascia correggere né diagnosticare, che continua a disobbedire alla trama. Robin “non parla”, o meglio, non si lascia parlare. Tutto il romanzo può essere letto come un vano tentativo di raccontarla, inseguirla, spiegarla. È l’epitome della soggettività queer come irriducibile alterità, come trauma e resistenza.

In Ahmed, l’affetto diventa strumento critico: la rabbia, la malinconia, la disaffezione non sono “emozioni negative” da superare, ma energie queer che sfidano il paradigma della felicità normativa. Anche qui, Nightwood si rivela profetico: è un romanzo pieno di affetti “improduttivi”, di emozioni che non portano a soluzioni, ma che scavano abissi di significato. È una fenomenologia queer ante litteram.

Passiamo ora a un approfondimento dei due nodi teorici centrali: il concetto di performatività in Judith Butler e quello di “dis-orientamento” (disorientation) in Sara Ahmed, in relazione all’opera di Djuna Barnes, in particolare Nightwood. Ogni sezione sarà sviluppata estensivamente, con attenzione alla terminologia originale, alla genealogia teorica e alle implicazioni critiche.


1. Performatività e incoerenza del genere: Butler attraverso Nightwood

Il concetto di performatività del genere, formulato da Judith Butler in Gender Trouble (1990) e poi articolato ulteriormente in Bodies That Matter (1993), rappresenta una svolta decisiva nella teoria femminista e queer. Butler rifiuta l’idea che il genere sia un’espressione autentica di un’essenza interiore e propone invece che il genere sia un effetto reiterativo del discorso e della pratica sociale. In altre parole, non si è di un certo genere, lo si fa — e lo si fa ogni giorno, secondo codici storicamente determinati.

Nel romanzo di Djuna Barnes, questo slittamento dalla sostanza alla pratica è profondamente incarnato nella figura del dottor Matthew O’Connor, un medico autodidatta, en travesti, che articola attraverso una lingua eccessiva, barocca, sovradeterminata, la propria condizione esistenziale come performance perpetua e perdente. O’Connor non “finge” di essere donna, né rivendica un’identità transgender nel senso moderno: egli abita la scena del genere come campo di incoerenza strutturale. Come dice Butler, “the body becomes its gender through a series of acts which are renewed, revised, and consolidated through time” (1990, p. 140). O’Connor è sempre “in atto”, ma mai “compiuto”.

Una delle scene centrali del romanzo, in cui O’Connor parla con Nora, è un vero e proprio momento butleriano ante litteram: il suo flusso linguistico non mira a chiarire un’identità, ma a testimoniare una dispersione, una soggettività che è insieme eccessiva e mancante. Dice:

“I’m a man and a woman — I am nothing.”

Questa dichiarazione riflette una concezione della soggettività che Butler avrebbe descritto come eccedente rispetto ai suoi stessi atti performativi. In Bodies That Matter, Butler insiste infatti su come la performatività sia sempre “implicata in una reiterazione fallita”, perché non può mai coincidere pienamente con il significato normativo che tenta di evocare. L’iterazione, per quanto obbligata, è sempre anche apertura al fallimento, alla parodia, alla scissione. Ecco perché Nightwood, nella sua struttura frammentata e nella sua poetica dell’oscuro, può essere considerato un testo performativo in sé, che rifiuta la compiutezza narrativa così come i suoi personaggi rifiutano la coerenza identitaria.

Butler, nel suo dialogo con Derrida, ricorda come ogni atto performativo sia legittimato proprio dalla sua citazionalità: esso deve sembrare “già detto”, già fatto, per potersi compiere. Ma è in questa citazionalità che si apre anche lo spazio della sovversione. Il dottore travestito, che si chiude in una stanza e indossa la biancheria femminile per “pregare” e non per sedurre, è una citazione dislocata del genere, una parodia non comica, bensì tragica — a drag of metaphysics.

Infine, la performatività barnesiana è profondamente linguistica, ma non nel senso di una lingua comunicativa: è una lingua febbrile, ieratica, solenne, che rifiuta la chiarezza e abbraccia l’ambiguità. Questo fa di Nightwood un testo che incarna ciò che Butler chiama la trouble del genere: il suo essere sempre già inquieto, sempre già disturbante, sempre già fuori posto.


2. Dis-orientamento e linee queer: Ahmed e le traiettorie della deviazione

Nel pensiero di Sara Ahmed, la nozione di orientamento è ben più che una metafora spaziale: essa descrive l’insieme delle relazioni affettive, percettive e politiche attraverso cui i soggetti si costituiscono come “normali” o “devianti” in un mondo che distribuisce i corpi secondo linee prestabilite di desiderio, appartenenza e felicità.

Nel suo Queer Phenomenology (2006), Ahmed propone una riflessione fenomenologica — debitamente queerizzata — sul modo in cui i corpi “si orientano” nel mondo. “To be oriented is also to be directed towards certain objects, those that are reachable, or available within the bodily horizon” (Ahmed, 2006). Il soggetto eterosessuale è colui/colei che trova naturalmente ciò che lo/a soddisfa nel mondo: la “via giusta” dell’amore, della carriera, della casa, della famiglia. Il soggetto queer, al contrario, è dis-orientato: non trova, o trova “altro”; i suoi desideri non coincidono con ciò che gli viene offerto.

In questo senso, Nightwood può essere letto come un romanzo di dis-orientamento radicale. I personaggi — da Robin a Nora, da Jenny a O’Connor — sono costantemente fuori asse: non trovano un luogo in cui stare, né un oggetto d’amore che restituisca stabilità. Ahmed parlerebbe qui di “linee rotte”: vie che non portano dove dovrebbero, paths that don’t lead home. In particolare, Robin incarna ciò che Ahmed definisce un soggetto wilful, ostinato, che resiste al “chiamato a casa” del sistema eteronormativo. Vagando nelle notti europee, silenziosa e animale, Robin non cerca redenzione né ritorno: she stays lost.

La dis-orientazione barnesiana è anche una questione di affetti. In The Cultural Politics of Emotion (2004), Ahmed riflette su come alcune emozioni — la malinconia, la vergogna, la rabbia — siano storicamente “appiccicate” ai corpi queer, marcandoli come problematici. In Nightwood, gli affetti sono perturbanti: l’amore è sempre eccessivo, le relazioni sono disfunzionali, le emozioni non producono né catarsi né riconciliazione. Il dolore di Nora per la perdita di Robin non si trasforma in maturazione, ma in paralisi estatica, in un pianto rituale che non può risolversi.

Infine, Ahmed ci offre un lessico teorico per leggere anche la disgiunzione fra orientamento e narrazione. Il romanzo di Barnes rifiuta la linearità, e questo non è un capriccio modernista, ma un gesto profondamente politico: rifiutare la linea della narrazione tradizionale significa rifiutare il telos normativo dell’eterosessualità, della coppia, della casa. Il romanzo è, in se stesso, un corpo dis-orientato, che non sa “dove andare” e quindi si attarda, si piega, si perde, si disarticola.


In sintesi, la performatività di Butler e il dis-orientamento di Ahmed non sono soltanto strumenti per leggere Nightwood, ma sono in parte anticipati dal testo stesso. L’opera di Djuna Barnes precede e alimenta un pensiero queer che riconosce nel fallimento, nell’incoerenza e nella perdita i tratti distintivi di un’esistenza che non cerca integrazione, ma verità nell’opacità.


Procedo ora con un’estensione del testo articolando tre sezioni interconnesse dedicate alla teoria di Eve Kosofsky Sedgwick e ai concetti chiave di opacità affettiva, trauma queer e linguaggio come luogo di resistenza, in relazione all’opera di Djuna Barnes e al suo Nightwood.


1. Eve Kosofsky Sedgwick: opacità affettiva e desiderio non risolto

Nel corpus teorico di Eve Kosofsky Sedgwick, tra Between Men (1985), Epistemology of the Closet (1990) e Touching Feeling (2003), emerge un’insistenza radicale sul carattere affettivamente denso, opaco e indeterminabile dell’esperienza queer. Sedgwick si oppone a ogni riduzione semplificatrice dell’identità sessuale e introduce il concetto di opacità affettiva per designare una modalità relazionale non trasparente, non decifrabile secondo le logiche lineari del coming out, della confessione, o dell’autenticità essenziale.

Nel contesto di Nightwood, tale opacità è visibile in ogni relazione significativa: l’amore fra Nora e Robin non si chiarisce, non si definisce, non si compie. Non sappiamo mai del tutto cosa provi Robin, né cosa desideri realmente Nora, se non un’adesione assoluta che le sfugge. Sedgwick avrebbe letto questa non-risoluzione non come un difetto narrativo, bensì come forma queer del sapere affettivo: un sapere che non svela, non ordina, non produce chiarezza, ma persiste nella sua ambiguità.

In Touching Feeling, Sedgwick difende il diritto a mantenere “una certa opacità”, contro l’imposizione epistemologica dell’“essere chiari”, essere leggibili, essere “fuori” nel senso normativo del termine. Robin è l’esempio letterario perfetto di tale strategia: non parla, sfugge, non restituisce spiegazioni, e proprio per questo diventa il polo di attrazione e ossessione per gli altri personaggi. La sua figura resiste alla leggibilità — è l’opacità incarnata.

Sedgwick, rifiutando la teoria come “dispiegamento” o “smontaggio” del significato nascosto, promuove un’estetica dell’intimità disordinata e non gerarchica. La lingua di Barnes, il suo stile manierato, ellittico, sovraccarico, si accorda a questo principio: ogni frase è un labirinto linguistico che invita alla permanenza, non alla decifrazione.


2. Trauma queer: perdita, impossibilità e la forma del romanzo

Il concetto di trauma queer — non riducibile al solo evento violento o patologico, ma inteso come modalità strutturale dell’esperienza soggettiva disallineata — è un’altra chiave fondamentale per leggere Nightwood. In ambito teorico, autori come Heather Love (Feeling Backward, 2007) e Ann Cvetkovich (An Archive of Feelings, 2003) hanno esplorato la dimensione del trauma come archivio emotivo queer, un luogo dove la ferita non si rimargina, ma produce un sapere minore, disfunzionale, malinconico.

In Nightwood, ogni personaggio è abitato da una ferita fondativa, che non viene mai risolta né narrativamente né affettivamente. La perdita di Robin da parte di Nora non genera un processo di superamento o catarsi, bensì un loop ossessivo che caratterizza l’intera struttura del romanzo. Non c’è progresso, ma ripetizione — e in questa ripetizione, la letteratura si fa linguaggio del trauma.

Il linguaggio della Barnes non “racconta” il trauma, lo incarna: frasi spezzate, ellissi, anacoluti, metafore oracolari. Si ha la sensazione che ogni parola contenga un dolore più antico di quanto possa dire. Non sorprende che Sedgwick, nella sua teoria affettiva, prediliga testi che, come Nightwood, non operano una redenzione simbolica della sofferenza queer, ma ne custodiscono la non-risolvibilità.

Il trauma in Barnes è anche generativo: non chiude, ma apre. È proprio la disfunzione affettiva, l’impossibilità della reciprocità, che produce lo spazio narrativo. Il trauma queer non è un incidente: è l’ambiente interiore in cui si muove il romanzo. Robin, Nora, O’Connor vivono una temporalità ferma, retrograda, che rompe il continuum lineare del tempo borghese. Il dolore non passa: si trasforma in forma.


3. Il linguaggio come luogo di resistenza queer

Tanto Sedgwick quanto Butler e Ahmed concordano, pur con approcci differenti, nel considerare il linguaggio come luogo in cui la norma sessuale e di genere si consolida — ma anche come campo in cui può essere interrotta, parodiata, sabotata.

Il linguaggio di Nightwood non è funzionale né trasparente. È, piuttosto, una superficie riflettente e distorcente, dove i significati si moltiplicano senza fissarsi. Già T. S. Eliot, nella prefazione del 1937, aveva colto questa “stranezza poetica”, ma nel senso sbagliato: parlava di “prose that becomes poetry” come se fosse un’eccezione stilistica. In realtà, quella di Barnes è una scrittura queer ante litteram, perché rifiuta la chiarezza come valore e inscena la lingua come campo di ambiguità performativa.

In questo senso, il linguaggio diventa strategia di sopravvivenza e insubordinazione. Come nel pensiero di Audre Lorde — che, sebbene posteriore, offre una chiave potente — il silenzio non protegge, ma uccide; parlare con la propria lingua marginale, dissonante, inventiva, salva. Barnes non offre verità, offre voce, anche quando questa voce è spezzata.

In Touching Feeling, Sedgwick insiste sull’idea di “weak theory”, una teoria non muscolare, non totalizzante, ma empatica, situata, percettiva. Nightwood è l’incarnazione letteraria di questa teoria debole e appassionata: un’opera che non chiede chiarezza, ma partecipazione emotiva e attenzione ai tremori del senso.


Postilla. L’eredità di Nightwood nella scrittura queer contemporanea

Nel panorama della letteratura queer contemporanea, l’influenza di Nightwood si manifesta non solo nella tematica del desiderio deviante, della solitudine strutturale e del corpo disallineato, ma soprattutto in una forma narrativa che rifiuta la linearità, la chiarezza e la restituzione catartica del dolore. In autrici e autori come Maggie Nelson, Ocean Vuong e Carmen Maria Machado, il retaggio barnesiano si riconosce in una scrittura che si fa frammento lirico, materia linguistica esposta alla vulnerabilità, e in cui il trauma queer non è oggetto da esporre, ma ambiente epistemico da abitare.

Maggie Nelson, in particolare con The Argonauts (2015), costruisce un ibrido di saggio, memoir e riflessione filosofica in cui l’identità di genere, la maternità queer e il linguaggio stesso diventano terreni mobili, contraddittori, affettivamente complessi. La sua scrittura, come quella di Barnes, opera per densità e deviazione, preferendo la riflessione che si avvolge su se stessa piuttosto che il discorso che procede per tesi.

Ocean Vuong, in On Earth We’re Briefly Gorgeous (2019), trasforma l’epistola in un dispositivo poetico che esprime l’impossibilità di dire l’amore, il trauma della lingua ereditata, e l’identità queer come ferita e radice insieme. Come in Barnes, anche in Vuong il linguaggio è un corpo malato, affaticato, ma insostituibile: la sua prosa, spesso lirica, sborda continuamente nel verso, come se il dolore trovasse sollievo solo nella forma che non si lascia chiudere.

Carmen Maria Machado, nella raccolta Her Body and Other Parties (2017), esplicita il debito con Nightwood nella costruzione di un immaginario dove il femminile queer è attraversato da mostruosità, desiderio, sparizione e frammentazione narrativa. Le sue narrazioni — che oscillano tra horror, erotismo e allegoria — ereditano da Barnes l’idea che la soggettività queer sia già, di per sé, una struttura gotica, una casa infestata dal non-detto, dal rimosso, dalla lingua che fallisce.

In tutti questi autori e autrici, Nightwood non sopravvive come modello, ma come presenza-fantasma, come eco di un’opera che ha reso il disordine del desiderio una forma letteraria piena, complessa, persistente. La sua eredità è una forma di licenza: quella di poter scrivere senza forma, senza redenzione, senza chiarezza — e di trovare, proprio in questo, una verità queer.


La lingua come carne: Barnes, Genet, Ginsberg

Se si volesse tracciare una genealogia della scrittura queer come corpo resistente, Djuna Barnes, Jean Genet e Allen Ginsberg occuperebbero tre punti diversi ma convergenti di una costellazione in cui il linguaggio non rappresenta il desiderio, ma lo incarna, lo contorce, lo espone.

In Djuna Barnes, la lingua è barocca, oracolare, elusiva: costruisce giri sintattici che sembrano labirinti interiori, specchi oscurati dove il significato non si rivela mai del tutto. La frase si attorciglia su se stessa come un desiderio che si nega e si rinnova. Ogni paragrafo è un tentativo fallito — e quindi sublime — di trattenere una verità che sfugge.

Jean Genet, invece, scrive come se il linguaggio fosse un corpo peccaminoso. La sua prosa è carnale, sacrilega, rituale. In Notre-Dame-des-Fleurs o Le Journal du voleur, ogni parola ha odore, pelle, ferita. Dove Barnes scolpisce frasi come reliquiari, Genet profana ogni parola, trasformandola in altare erotico. La sua lingua è una liturgia queer dell’abiezione, dove l’estetica è sempre erotizzata e l’erotismo è sempre politicizzato.

Allen Ginsberg, infine, opera attraverso la rivelazione estatica. In Howl e Kaddish, la sua lingua è un fiume visionario che spezza le barriere tra poesia, preghiera, confessione e urlo. La sua scrittura è queer non solo nei contenuti (sessualità, desiderio, marginalità), ma nella forma ritmica, sincopata, eccessiva, che rompe la sintassi borghese con la stessa violenza con cui rompe il tabù.

Tutti e tre — Barnes, Genet, Ginsberg — condividono una insubordinazione stilistica: nessuno di loro scrive per compiacere il lettore, per rassicurarlo, per educarlo. Scrivono invece per trascinare il linguaggio in uno spazio minoritario, doloroso, erotico e visionario, dove la soggettività queer non è spiegata, ma esibita, performata, distillata fino al parossismo.

E in questo senso, la lingua stessa — come corpo, come trauma, come preghiera e bestemmia — diventa l’unico luogo possibile per l’affermazione di un’identità che non si può né confessare né negare, ma solo scrivere.




Appendice. Glossario teorico queer in relazione a Nightwood

Performatività (Judith Butler)
In Gender Trouble (1990), Butler introduce la performatività come atto linguistico e corporeo che produce l’identità di genere attraverso ripetizioni regolamentate. In Nightwood, le identità sessuali e affettive non emergono da essenze interiori, ma da mascheramenti, posture, dialoghi, rituali teatrali e deviazioni. Robin Vote incarna questa performatività instabile: è soggetto che non “ha” un’identità, ma che la recita, la disfa, la abbandona — e nel farlo, ne rivela la precarietà strutturale.

Dis-orientamento (Sara Ahmed)
Nel suo Queer Phenomenology (2006), Ahmed descrive il dis-orientamento come la condizione di chi non si muove secondo le direzioni normate dalla cultura eterosessuale e patriarcale. Nightwood è un testo profondamente dis-orientato: lo spazio urbano, le camere notturne, i bar dei travestiti, i dialoghi circolari — tutto evoca una perdita di orientamento ontologica ed erotica. I personaggi non “trovano la via”, ma vagano. E questo vagare è già resistenza.

Opacità affettiva (Eve Kosofsky Sedgwick)
Sedgwick, in Touching Feeling (2003), parla di opacità come rifiuto dell’obbligo alla trasparenza nel campo affettivo e sessuale. In Nightwood, l’opacità domina il racconto: nulla è chiarito, nessun amore è tradotto in linguaggio razionale, e persino i momenti di confessione (come quelli del dottor O’Connor) sono intrisi di ambiguità, mascheramento, ironia. L’opacità diventa qui uno strumento di sopravvivenza queer, un modo per non offrire la propria vulnerabilità all’interpretazione altrui.

Trauma queer
Concetto che attraversa vari teorici (Annamarie Jagose, David Eng, José Esteban Muñoz), il trauma queer non è solo individuale, ma sistemico: nasce da una cultura che rifiuta l’alterità sessuale. Nightwood è un testo del trauma: un dolore mai esplicitato, che pervade i corpi, i sogni, le parole dei personaggi. Il linguaggio stesso è traumatico — interrotto, allucinato, gotico. Non si tratta di un trauma che si elabora o si cura, ma che si scrive, si indossa, si diventa.

Resistenza linguistica
In The Politics of Translation, Gayatri Spivak insiste sull’importanza di preservare le differenze linguistiche come forme di resistenza al dominio culturale. Barnes pratica una resistenza simile: la sua lingua è eccessiva, ostica, anti-normativa. Non mira a farsi comprendere, ma a difendersi dal senso imposto. È una lingua queer perché si sottrae, si aggroviglia, si offre come corpo testuale e non come spiegazione.

Intimità strana (Strange Intimacy)
Muñoz e altri teorici hanno esplorato come le relazioni queer si situino spesso fuori dagli schemi di intimità eteronormata. In Nightwood, non c’è “relazione” in senso romantico né coppia riconciliata: c’è un erotismo tragico, malinconico, quasi mistico. L’intimità tra Nora e Robin non è mai pacificata: è una ferita condivisa, una forma di coesistenza fuori da ogni sintassi sociale.


L'eredità sommersa e accademica di Nightwood: dalla controcultura agli studi queer

Sebbene Nightwood venga pubblicato nel 1936 con una prefazione di T.S. Eliot — il quale ne sottolinea già l’eccezionalità stilistica e “notturna” — la sua ricezione iniziale fu cauta, quando non apertamente perplessa. L’ambiguità sessuale e l’estrema sperimentazione linguistica ne ostacolarono un’immediata canonizzazione. Tuttavia, a partire dagli anni ’60, Nightwood iniziò a circolare nei circuiti underground e controculturali, venendo letto come un’opera “clandestina” di radicale potenza queer.

Nei circoli beat e nei movimenti femministi radicali, la figura di Robin Vote fu recuperata come icona dell’alienazione sessuale e spirituale. Autrici come Kathy Acker e autori come William S. Burroughs ne rivendicarono la genealogia attraverso uno stile che faceva del disordine e della scrittura come ferita una poetica condivisa. All’interno dei primi collettivi lesbici separatisti statunitensi, Nightwood fu letto (talvolta con disagio) come esempio liminale di un’espressione queer ante-litteram, in cui l’omosessualità non era tema, ma struttura narrativa.

A partire dagli anni ’80 e ’90, l’ingresso di Nightwood nel campo degli studi accademici femministi e queer ne ha definitivamente consacrato il valore. La sua posizione come testo fondativo della queer modernism è stata sostenuta da studiosi come Bonnie Kime Scott, Shari Benstock, e, più tardi, in forma più radicale, da teorici queer come Butler, Sedgwick e Ahmed, che ne hanno sottolineato la capacità di destabilizzare concetti di soggettività, temporalità e narrabilità.

Negli anni 2000, la canonizzazione di Nightwood come testo queer-matrix lo ha reso non solo oggetto di studio, ma strumento epistemologico: un’opera che non si legge, ma che si usa per pensare. Alcuni corsi universitari statunitensi — come quelli di Ann Cvetkovich o di Heather Love — hanno proposto letture di Nightwood attraverso il trauma collettivo dell’AIDS, la sopravvivenza archivistica del desiderio, e la melanconia queer come forma di memoria resistente.

Eppure, nonostante la canonizzazione, Nightwood non ha perso la sua aura sotterranea. Continua a essere letto, nei circoli queer e trans contemporanei, come un testo per chi “non si ritrova” — per chi cerca nella letteratura non la risoluzione, ma l’abisso, la compagnia nell’estraneità. La sua influenza si fa sentire nelle scritture ibride, nei memoir poetici, nelle prose spezzate e desideranti di oggi. È un classico queer proprio perché non lo sembra mai del tutto.




Conclusione 

Leggere Djuna Barnes alla luce di Butler, Ahmed e Sedgwick significa riscoprire un’opera che ha anticipato molte delle questioni cruciali della teoria queer contemporanea: la performatività instabile, la dis-orientazione affettiva, l’opacità del desiderio, il trauma come archivio narrativo e il linguaggio come campo di battaglia. Nightwood non è semplicemente un romanzo queer: è una forma queer di pensare, un dispositivo poetico che restituisce alla letteratura la sua funzione più pericolosa — quella di sabotare l’ordine simbolico.

L'opera di Djuna Barnes — un tempo relegata ai margini della letteratura modernista — si impone oggi come uno dei laboratori più fertili per il pensiero queer contemporaneo. Lontana sia dalla rivendicazione identitaria che dall’allegoria consolatoria, la sua scrittura resta un luogo radicale di esposizione e di resistenza: una grammatica dell’opacità, una liturgia del fallimento, una ontologia dell’erranza. Butler, Sedgwick e Ahmed, ognuna a suo modo, leggono in Barnes ciò che sfugge, ciò che persiste, ciò che continua a inquietare. E in questo riconoscono la sua potenza — non solo letteraria, ma filosofica, politica, esistenziale.